All'inizio del Novecento Trotsky è stato davvero
profetico quando scriveva che il leninismo avrebbe portato al
predominio del partito sulle masse, dell'apparato sul partito e del
capo supremo sull'apparato. Nel 1917 le sue idee erano cambiate ed
era ormai più leninista di Lenin, ma quella profezia si sarebbe
puntualmente avverata e proprio Trotsky ne sarebbe stato la più
illustre vittima.
Benedetto Vecchi
L’Ottobre russo
nella morsa dello stato autoritario
A cento anni dalla presa
del Palazzo d’inverno è tempo di tornare all’inizio di
quell’esperienza tragica che è stato il «comunismo di stato». È
questo il prologo del saggio scritto da Pierre Dardot e Christian
Laval dal titolo programmatico Il potere ai
soviet (DeriveApprodi, pp. 174, euro 15 – traduzione di
Antonello Ciervo e Lorenzo Coccoli; il libro sarà presentato oggi a
Roma in un incontro tra Mario Tronti e Pierre Dardot presso la
libreria Odradek, in via dei Banchi vecchi, alle ore 18).
I due filosofi francesi
non hanno remore a scrivere che il socialismo reale è stata una
delle esperienze che, in nome della liberazione dell’umanità dallo
sfruttamento, ha costruito soffocanti società autoritarie dove i
gulag erano la sperimentazione delle nuove relazioni sociali. Ed è
per queste ragioni che non è concessa nessuna nostalgia o apologia
della Russia sovietica o della Cina maoista.
Il volume, dunque, non
asseconda le letture che hanno individuato nella arretratezza della
Russia zarista e nella durezza della guerra civile che accompagna i
primi anni dopo la presa del potere dei bolscevichi, i motivi della
degenerazione della Rivoluzione nell’oppressione sistematica del
«comunismo di stato». Dardot e Laval non sono neppure interessati a
distinguere Lenin dal suo successore, Stalin.
Né salvano Lev Trotski,
autore e dirigente politico al quale si ispiravano le esperienze
politiche che hanno condiviso in gioventù.
I due filosofi lo
ripetono incessantemente per tutto il libro: a cento anni di distanza
è tempo di tornare all’inizio perché è lì che ci sono tutti gli
elementi che spiegano la tragedia sovietica. In altri termini: è
nella teoria politica leninista che si annida quel che poi sarebbe
accaduto con Stalin.
Per Dardot e Laval la
presa del Palazzo d’inverno non è niente altro che un colpo di
stato perché Lenin riusciva a immaginare solo una rivoluzione
politica che aveva il suo acme nella conquista del potere politico e
amministrativo dello Stato. Era attraverso lo stato che poteva essere
instaurato (per legge?) il comunismo. E chi prospettava il linkage
tra rivoluzione sociale e rivoluzione politica, veniva liquidato da
Lenin come un infantile estremista. Inoltre il partito comunista,
l’avanguardia e il mezzo per portare dall’esterno la coscienza di
classe al proletariato, non poteva che sviluppare, gestendolo, un
capitalismo di stato: detto brutalmente, il comunismo non è che un
capitalismo di stato gestito dal partito comunista. Una
semplificazione, questa, che non aiuta certo a comprendere sia i
limiti dell’ottobre sovietico che la necessaria elaborazione di
istituzioni che non chiudono la dialettica tra potere costituito e
potere costituente.
Ma il dispositivo teorico
dei due autori non accetta il luogo comune della tradizione comunista
che vede la teoria leninista del politico come un processo scandito
in due tempi: quello della necessaria transizione (la presa del
potere, l’uso dello stato per dare forma ai bisogni della classe
operaia, la sospensione della democrazia socialista in nome della
difesa della Rivoluzione) e successivamente, quando le condizioni lo
avrebbero permesso, l’estinzione dello stato, la socializzazione
dei mezzi di produzione, cioè quello sviluppo di una società dei
produttori fattore indispensabile per dare linfa vitale a quel
movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti prospettato
nella seconda metà dell’Ottocento da Karl Marx.
Dardot e Laval
sintetizzano la loro presa di distanza e critica dalle tesi leniniste
con la parole d’ordine di «tutto il potere ai soviet» che orienta
la rivoluzione di febbraio e che Lenin rifiuta perché la priorità
del partito comunista era la preparazione dell’insurrezione armata
che culminerà con la presa del palazzo d’inverno. Dunque la
rivoluzione d’ottobre come un colpo di stato che avrà come vittima
sacrificale proprio i soviet. Per i due autori, la rivoluzione
d’ottobre contemplava la costruzione di uno stato nazionale
centralizzato e autoritario. Non c’è stato nessun tradimento
staliniano, ma un processo che non poteva che costruire una società
amministrata e gestita come un carcere.
Per questo, gli autori di
riferimento del volume sono i comunisti consiliaristi come Anton
Panneokek o la spartachista Rosa Luxemburg, così diversi tra loro,
ma accomunati dalla critica alla concezione leninista del
partito-avanguardia e dalla necessaria complementarietà tra
rivoluzione sociale e rivoluzione politica. Ed è sempre per questo
motivo che i modelli di rivoluzione preferiti sono la rivoluzione
messicana del 1919 e la breve stagione della repubblica spagnola del
1936.
A cento anni di distanza
occorre dunque tornare all’inizio, per metterlo a critica e
superarlo proprio quando la rivoluzione è ritenuta una necessità
per gestire un sistema sociale come pervasivo e illiberale come il
capitalismo contemporaneo. L’analisi di Dardot e Laval punta cioè
a recuperare lo spirito comunardo delle origini del movimento operaio
per evitare il ripetersi di una tragedia, quella del socialismo
reale.
Obiettivo ragionevole, ma
comunque quella rivoluzione ha cambiato il corso della storia. Non è
stata cioè solo tragedia, ma la possibilità aperta di una
liberazione per uomini e donne.
Forse il bandolo della
matassa da riprendere è proprio questo carattere liberatorio che ha
prospettato – più che rispondere – la domanda dell’aderire o
meno a quella rivoluzione. Perché, come recitano i versi della
poesia Ottobre di Vladimir Majakovskij «Aderire o non aderire?
La questione non si pone per me. È la mia rivoluzione».
Il Manifesto – 21
novembre 2017
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