28 ottobre 2012

ARTISTI SNOBBATI



«La bianche et la noire» di Félix Vallotton illustra la copertina di «La vita assassina» dello stesso autore.





Una controstoria dell’arte attraverso le cover dei volumi Adelphi viene proposta nell’ultimo numero del settimanale  Panorama,  n°45 del 31 ottobre 2012, tramite una esclusiva intervista di Marco di Capua a Roberto Calasso

Gli artisti snobbati vanno in copertina

Torna in libreria il volume di Roberto Calasso La Folie Baudelaire (Fuori collana Adelphi, 442 pagine, 100 euro). Questa seconda edizione è spettacolare: 281 immagini accompagnano il gran tuffo in quell’onda anomala, Charles Baudelaire appunto, che tracimò sul paesaggio delle arti francesi dell’800. Siamo con Calasso nel suo studio all’Adelphi, casa editrice che dirige dal 1971. E parliamo del libro, ma anche di arte, di copertine scelte con cura del suo amore per la pittura.
Glorificare il culto delle immagini, «la mia grande, la mia unica, la mia primitiva passione»: Calasso, questa è la celebre asserzione di Baudelaire che lei sottoscriverebbe.

È un punto che mi riguarda da sempre. Fin dal mio primo libro, L’impuro folle del 1974, ho incluso immagini che fossero parte del testo, che lo intersecassero. Con esse affiora sempre qualcosa che per altre vie non emergerebbe. Allora non si usava, oggi lo si fa anche troppo. E così è stato anche per altri miei libri. Per Ka ho cercato le prime immagini attraverso le quali l’Occidente ha visto e filtrato l’india.

E per «La Folie» qual era la sfida?

Decine e decine di migliaia di immagini setacciate. Volevo qualcosa che fosse il più affine possibile al sensorio di Baudelaire e a ciò che il libro raccontava. Questo equivale a connettersi con un repertorio visivo dal ventaglio cronologico amplissimo, che va da certi quadri e fotografie del tempo fino a una testa in bronzo che proviene da scavi molto recenti in Cina ed è databile al XII secolo a.C. Incarna imprevedibilmente l’essere mostruoso al quale Baudelaire, nel suo sogno del museo-bordello, alla fine si avvicina. Mi serviva l’immagine che gli corrispondesse.

Si aziona una specie di caccia all’immagine giusta, una riconvocazione di fantasmi.
 
Ho incontrato molte sorprese. Anche preziose. Come filo conduttore, e già dalla copertina, sono state le immagini di quel beffardo visionario che fu Jean-Jacques Lequeu. Mentre Sarah Goodridge… a proposito, sa chi era? 

Assolutamente no.

Una compunta signorina americana del primo ’800, che a un certo punto invia a un suo amico questo acquerello su pochi centimetri d’avorio…

Un seno nudo e bianchissimo.

E lo intitola Bellezza svelata. È un’immagine che introduce a una certa metafisica della manifestazione che è implicita in Baudelaire, dove manifestarsi è anche prostituirsi.

 «Bellezza svelata» di Sarah Goodridge: è fra le immagini nella nuova edizione di «La Folie Baudelaire» (Adelphi) di Roberto Calasso.


Dunque c’è sempre un nesso tra parola e immagine?

Le immagini sono tutte in rapporto con un dettaglio del testo, che può essere un paragrafo, una frase o anche una singola parola. Un buon lettore potrebbe divertirsi a individuare una per una queste connessioni.

Nel suo lavoro di editore qual è la funzione delle immagini?

Fin dall’inizio in Adelphi abbiamo dedicato molta attenzione a questo aspetto. La copertina è importantissima, meno l’editore parla con le parole, e più con un colore o con un’immagine, meglio è. Nel corso del tempo noi abbiamo accumulato centinaia di immagini, alcune forse adatte per libri che un giorno vorremmo pubblicare.

Già, nella letteratura come Pinacoteca Universale… Però ho sempre notato un certo gusto Adelphi, autori ricorrenti.
Vediamo, chi ha individuato?
Alex Colville. E poi Léon Spilliaert, simbolista belga, lui è molto presente, no?
Decisivo per certi autori.
C’è molto nelle copertine di Georges Simenon…
E in Thomas Bernhard. Ma abbiamo pubblicato spesso anche quadri di Vallotton, George Tooker, Willink, Hammershoi, Andrew Wyeth. Il Kostantin Somov in Ada di Nabokov risponde al fatto che la madre del narratore del libro ne aveva uno nel suo boudoir.

Tutti autori osservabili in un’atmosfera di realismo magico, bellissimi, ma ignorati dal pensiero unico della critica.

Nel complesso ha ragione: c’è tutta un’altra storia dell’arte che sta venendo fuori e che allarga di molto il raggio d’esplorazione rispetto a quella linea dritta che va da Eugène Delacroix all’impressionismo, poi arriva alle avanguardie e alla Pop art, linea che si sta sbriciolando. È una vulgata progressista-modernista che non regge.

Parecchi autori sono sconosciuti.

Di alcuni so molto poco anch’io. E il fatto di essere ignoti è spesso un vantaggio. Poi ci sono certi artisti che non si utilizzano non perché non siano magnifici ma perché troppo legati alla loro stessa cifra, al loro segno. Vale per Picasso, per Klee, che pure è un genio. Come può immaginare un Pollock su una copertina? Sarebbe stridente. I più efficaci sono i quadri che sanno suscitare stupore per l’immagine stessa, senza che se ne riconosca subito l’autore
 * * *


 «Warting Room II», opera del 1982 di George Tooker, è stata scelta per la copertina del romanzo «Il contesto» di Leonardo Sciascia.

 Quegli esclusi eccellenti

 Rispetto ai manuali faziosi, sui quali si studiarono i Moderni, dove perfino l’inclusione di Mario Sironi o Edward Hopper pareva un atto temerario, un giretto per certe gallerìe non asservite all’avanguardia dell’obbligo, oppure in libreria, gettando l’occhio su certe copertine (come le eccellenti Adelphi) dava (e dà) il conforto di comporre una libera controstoria dell’arte. Si potrebbe fare quell’infinito catalogo dei Rifiutati, che, si scoprirebbe, contiene formidabili artisti figurativi, volutamente dimenticati dalla critica conformista. Pochissimi, per esempio, hanno idea di chi siano Alex Colville, canadese, o Andrew Wyeth, statunitense, selvatici poeti della solitudine contemporanea.
Né godono di maggior fama il norvegese Odd Nerdrum o l’olandese Pyke Koch. E se per vedere un genio come lo spagnolo Antonio Lopez Garcia, al Reina Sofia di Madrid, vanno anche 350 mila persone, potete stare certi che i suoi quadri non entreranno nel campo visivo di uno solo dei curatori attuali. Cosi è per i nostri Domenico Gnoli e Piero Guccione. Ciò porta all’incapacità di intendere le prefigurazioni del miglior ’900 onirico nelle stanze vuote del danese Vilhelm Hammershoi o nelle visioni di belga Léon Spilliaert.
E all’impossibilità di percepire la bellezza, qualora, per miracolo, sia ancora intatta. (MD.C.)

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