«La bianche
et la noire» di Félix Vallotton illustra la copertina di «La vita assassina»
dello stesso autore.
Una controstoria dell’arte attraverso le cover dei volumi Adelphi viene proposta nell’ultimo numero del settimanale Panorama, n°45 del 31 ottobre 2012, tramite una esclusiva intervista di Marco di Capua a Roberto Calasso
Gli artisti snobbati vanno in copertina
Torna in libreria il volume di
Roberto Calasso La Folie Baudelaire (Fuori
collana Adelphi, 442 pagine, 100 euro). Questa seconda edizione è spettacolare:
281 immagini accompagnano il gran tuffo in quell’onda anomala, Charles
Baudelaire appunto, che tracimò sul paesaggio delle arti francesi dell’800.
Siamo con Calasso nel suo studio all’Adelphi, casa editrice che dirige dal
1971. E parliamo del libro, ma anche di arte, di copertine scelte con cura del
suo amore per la pittura.
Glorificare il culto delle
immagini, «la mia grande, la mia unica, la mia primitiva passione»: Calasso,
questa è la celebre asserzione di Baudelaire che lei sottoscriverebbe.
È un punto che mi riguarda da sempre. Fin dal
mio primo libro, L’impuro folle
del 1974, ho incluso immagini che fossero parte del testo,
che lo intersecassero. Con esse affiora sempre qualcosa che per altre vie non
emergerebbe. Allora non si usava, oggi lo si fa anche troppo. E così è stato
anche per altri miei libri. Per Ka
ho cercato le prime immagini attraverso le quali l’Occidente ha visto e
filtrato l’india.
E per «La Folie»
qual era la sfida?
Decine e decine di migliaia di immagini
setacciate. Volevo qualcosa che fosse il più affine possibile al sensorio
di Baudelaire e a ciò che il libro raccontava. Questo equivale a connettersi
con un repertorio visivo dal ventaglio cronologico amplissimo, che va da certi
quadri e fotografie del tempo fino a una testa in bronzo che proviene da scavi
molto recenti in Cina ed è databile al XII secolo a.C. Incarna
imprevedibilmente l’essere mostruoso al quale Baudelaire, nel suo sogno del
museo-bordello, alla fine si avvicina. Mi serviva l’immagine che gli
corrispondesse.
Si aziona una
specie di caccia all’immagine giusta, una riconvocazione di fantasmi.
Ho incontrato molte sorprese. Anche
preziose. Come filo conduttore, e già dalla copertina, sono state le immagini
di quel beffardo visionario che fu Jean-Jacques Lequeu. Mentre Sarah Goodridge…
a proposito, sa chi era?
Assolutamente no.
Una compunta signorina americana del primo
’800, che a un certo punto invia a un suo amico questo acquerello su pochi
centimetri d’avorio…
Un seno nudo e
bianchissimo.
E lo intitola Bellezza svelata. È
un’immagine che introduce a una certa metafisica della manifestazione che è
implicita in Baudelaire, dove manifestarsi è anche prostituirsi.
«Bellezza svelata» di Sarah Goodridge: è fra le immagini nella
nuova edizione di «La Folie Baudelaire» (Adelphi) di Roberto Calasso.
Dunque c’è sempre un nesso tra parola e immagine?
Le immagini sono tutte in rapporto con un
dettaglio del testo, che può essere un paragrafo, una frase o anche una singola
parola. Un buon lettore potrebbe divertirsi a individuare una per una
queste connessioni.
Nel suo lavoro di
editore qual è la funzione delle immagini?
Fin dall’inizio in Adelphi abbiamo
dedicato molta attenzione a questo aspetto. La copertina è importantissima,
meno l’editore parla con le parole, e più con un colore o con un’immagine,
meglio è. Nel corso del tempo noi abbiamo accumulato centinaia di immagini,
alcune forse adatte per libri che un giorno vorremmo pubblicare.
Già, nella
letteratura come Pinacoteca Universale… Però ho sempre notato un certo gusto
Adelphi, autori ricorrenti.
Vediamo, chi ha
individuato?
Alex Colville. E
poi Léon Spilliaert, simbolista belga, lui è molto presente, no?
Decisivo per certi
autori.
C’è molto nelle
copertine di Georges Simenon…
E in Thomas Bernhard. Ma abbiamo
pubblicato spesso anche quadri di Vallotton, George Tooker, Willink,
Hammershoi, Andrew Wyeth. Il Kostantin Somov in Ada di Nabokov risponde al fatto che la madre
del narratore del libro ne aveva uno nel suo boudoir.
Tutti autori
osservabili in un’atmosfera di realismo magico, bellissimi, ma ignorati dal
pensiero unico della critica.
Nel complesso ha ragione: c’è tutta
un’altra storia dell’arte che sta venendo fuori e che allarga di molto il
raggio d’esplorazione rispetto a quella linea dritta che va da Eugène Delacroix
all’impressionismo, poi arriva alle avanguardie e alla Pop art, linea che si
sta sbriciolando. È una vulgata progressista-modernista che non regge.
Parecchi autori
sono sconosciuti.
Di alcuni so molto poco anch’io. E il
fatto di essere ignoti è spesso un vantaggio. Poi ci sono certi artisti che non
si utilizzano non perché non siano magnifici ma perché troppo legati alla loro
stessa cifra, al loro segno. Vale per Picasso, per Klee, che pure è un genio.
Come può immaginare un Pollock su una copertina? Sarebbe stridente. I più
efficaci sono i quadri che sanno suscitare stupore per l’immagine stessa, senza
che se ne riconosca subito l’autore.
* * *
«Warting Room II», opera del 1982 di George Tooker, è stata scelta per la copertina del romanzo «Il contesto» di Leonardo Sciascia.
Quegli esclusi
eccellenti
Rispetto
ai manuali faziosi, sui quali si studiarono i Moderni, dove perfino
l’inclusione di Mario Sironi o Edward Hopper pareva un atto temerario, un
giretto per certe gallerìe non asservite all’avanguardia dell’obbligo, oppure
in libreria, gettando l’occhio su certe copertine (come le eccellenti Adelphi)
dava (e dà) il conforto di comporre una libera controstoria dell’arte. Si
potrebbe fare quell’infinito catalogo dei Rifiutati, che, si scoprirebbe,
contiene formidabili artisti figurativi, volutamente dimenticati dalla critica
conformista. Pochissimi, per esempio, hanno idea di chi siano Alex Colville,
canadese, o Andrew Wyeth, statunitense, selvatici poeti della solitudine
contemporanea.
Né
godono di maggior fama il norvegese Odd Nerdrum o l’olandese Pyke Koch. E se
per vedere un genio come lo spagnolo Antonio
Lopez Garcia, al Reina Sofia di Madrid, vanno anche 350 mila persone,
potete stare certi che i suoi quadri non entreranno nel campo visivo di uno
solo dei curatori attuali. Cosi è per i nostri Domenico Gnoli e Piero Guccione. Ciò porta
all’incapacità di intendere le prefigurazioni del miglior ’900 onirico nelle
stanze vuote del danese Vilhelm
Hammershoi o nelle visioni di belga Léon
Spilliaert.
E
all’impossibilità di percepire la bellezza, qualora, per miracolo, sia ancora
intatta. (MD.C.)
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