20 ottobre 2012

KANDEL: EROS E CERVELLO






Eric Richard Kandel  è nato a Vienna il 7 novembre del 1929. Neurologo e psichiatra, è professore di Biofisica e biochimica presso la Columbia University, in America. Considerato uno dei maggiori scienziati del ’900, è stato il primo psichiatra degli Stati Uniti a vincere il Premio Nobel per la medicina (nel 2000), conseguito con Arvid Carlsson e Paul Greengard per le ricerche sulle basi fisiologiche della memoria nei neuroni.
 Di recente Kandel ha scritto «L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla Grande Vienna ai nostri giorni», pubblicato in Italia  da Raffaello Cortina (traduzione di Gianbruno Guerrerio, pp. 502 più le note, € 39) ed è diviso in cinque parti: «Una psicologia analitica e un’arte dell’emozione incoscia», «La psicologia cognitiva della percezione visiva», «Biologia della risposta visiva all’arte», «Una scienza biologica della risposta emotiva dello spettatore all’arte» e «Arte visiva e scienza in evoluzione».
Pubblichiamo di seguito la recensione del libro, a cura di Sandro Modeo, pubblicata oggi sul Corriere della sera:


 
Sandro Modeo - Cervello ed eros, dove nasce l’ispirazione

Nonostante si presenti come un manufatto avvolgente — cadenzato da un’elegante iconografia — L’età dell’inconscio di Eric Kandel non è un libro rassicurante. Destinato a diventare un classico, lo sarà in quanto lettura che esalta e inquieta, costringendo il lettore a smuovere pregiudizi e autoinganni consolatori.
Kandel, infatti, segue il corso di due rivoluzioni conoscitive, essenziali non solo nel riformulare il rapporto arte/cervello (asse tematico del libro), ma di incidenza più estesa e profonda.
La prima — l’aprirsi della porta mentale sull’inconscio, decisiva, oltre che per gli artisti, per psicologi e scrittori — ci fa risalire alla Vienna tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, città paragonata dal viennese-ebreo Kandel, con comprensibile trasporto, alla Firenze rinascimentale, e in cui una borghesia emergente — proprio grazie all’immissione di tante intelligenze ebree — sovrappone al tramonto asburgico il chiarore di altre svolte culturali: la filosofia di Wittgenstein, la musica di Mahler e Schonberg, l’architettura pre-Bauhaus di Loos e Otto Wagner.
La seconda rivoluzione — collegata alla prima dal ponte della psicologia della Gestalt, usata da altri viennesi, gli storici dell’arte Kris e Gombrich, per spiegare la percezione dello spettatore — ci porta invece alle implicazioni ultime (filosofiche e psicologiche) delle neuroscienze, area di competenza di Kandel: e qui, dimostrando come questa seconda rivoluzione sia, della prima, un’integrazione e una revisione critica, il libro non si limita a tracciare cerniere inedite tra arte e scienza, ma inquadra tutte le funzioni superiori della mente (coscienza e inconscio, attenzione e memoria, fino alla creatività) come fossero nuovi paesaggi o — per richiamare Proust — paesaggi abituali sotto uno sguardo nuovo.

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Nel lungo prologo sulla Grande Vienna, Kandel individua il break generativo nella visione darwiniana estesa dalla Scuola medica di Carl Von Rokitansky (il primo a impiegare la patologia come cartina di tornasole della fisiologia) al salotto di Berta von Zuckerkandl (critica d’arte e studiosa di biologia in quanto moglie d’un anatomista); visione che culmina nelle scoperte di un allievo di Rokitansky, Theodor Meynert, sui rapporti tra le pulsioni «inconsce, innate, istintive» del cervello rettiliano e il «comportamento riflessivo» della corteccia.
Ed è da questa visione che se ne irradiano di altrettanto innovative: la psicoanalisi freudiana mutua dall’enfasi evoluzionista sul riprodursi degli organismi la centralità delle pulsioni sessuali (e del loro risvolto dark, quelle di morte) e traduce le intuizioni di Meynert nella lotta tra Es e Super-Io, combattuta sul ring dell’Io; mentre i romanzi dello scrittore-medico Schnitzler — dalla Signorina Else a Doppio sogno — impiegano il monologo interiore per far emergere quello stesso conflitto col rimosso e l’onirico.




 Per i pittori viennesi «modernisti», l’apertura alla biologia e al teatro interiore è anche un’alternativa alla via del realismo, chiusa dall’irruzione della fotografia. Così, Gustav Klimt, lettore di Darwin, punteggia i suoi ori bizantini di citoplasmi e nuclei cellulari; Oskar Kokoschka rivela l’inconscio dei soggetti ritratti attraverso un’ipersensibilità molecolare verso i loro tratti, sguardi e gesti; e lo splenetico Egon Schiele esprime nelle «distorsioni anatomiche esasperate» delle sue figure la biopsicologia della sessualità (specie di quella femminile, che ha capito più di Freud) e ; il suo fondersi con l’autodistruttività e il nonsenso (vedi tele come «La morte e la fanciulla» o «La morte e l’uomo»).



 Non casuale, per inciso, è l’influenza esercitata su tutto il gruppo da Charcot, il neurologo della Salpètrière: Freud ne ha appreso la pratica dell’ipnosi; Schnitzler ne è stato assistente; Kokoschka e Schiele hanno preso a modello le mani delle sue pazienti isteriche.
La cornice biologico-evoluzionistica della svolta viennese è ancora più decisiva per seguire Eric Kandel verso la neuropsicologia dell’artista e dello spettatore. Il punto di partenza è vedere la funzione estetico-cognitiva dell’arte come un’applicazione particolare — e insieme un’estensione — della predisposizione del cervello ad acquisire e a elaborare informazioni sul mondo per sopravvivere, scremando ordine dal caos e regolarità dal caso: per i nostri progenitori, per esempio, era vitale discriminare un oggetto da un contesto (una mela rossa) o un corpo statico da uno dinamico (un animale pericoloso). Risalendo a questa remota eredità filogenetica, è possibile capire certi «universali estetici innati», su cui ogni cultura e ogni artista innestano poi specificità storico-stilistiche: collegare la nostra predilezione per la simmetria figurativa a quella per la fisionomia del partner (buona simmetria equivale a buoni geni), o la nostra sensibilità all’«esagerazione» dei tratti e all’intensificazione del colore (che troviamo negli scultori gotici e negli espressionisti, nei manieristi e nel fumetto) alla possibilità, vantaggiosa sul piano adattativo, di una discriminazione visiva più nitida e veloce.




 Entrando nei dettagli neuroanatomici e neurobiologici di quella predisposizione — di quell’allerta costante con cui frughiamo il mondo, già dai continui movimenti oculari, alla ricerca di stimoli —, Eric Kandel riassume la nostra reazione davanti a un oggetto (un quadro o un volto dipinto, ma anche una montagna o un volto in carne e ossa) come una complessa orchestrazione in due tempi: un insieme di processi inconsci «dal basso» (non solo visivi, ma anche motori, emotivi, mnemonici e pre-semantici) e una loro successiva integrazione «dall’alto» (in certe aree della corteccia) che li porta alla luce della coscienza. È la stessa cadenza che agisce — con tempi e modi specifici — a livello sia di creazione che di fruizione (di ri-creazione) dell’opera d’arte.
A proposito della fase creativa, Kandel ricorda da un lato, in generale, quanto conti per artisti e scienziati, scrittori o musicisti, il momento di incubazione (quel «lasciar vagare la mente» in cui l’inconscio reimposta un problema ed elabora fitte combinazioni-permutazioni), arrivando a identificare il momento dell’eureka (la soluzione-emersione di quel lavoro silente) in una precisa regione del lobo temporale destro. Dall’altro, entrando nei dettagli del talento figurativo, ne conferma il correlato neurale non solo nello stesso lobo temporale, ma in tutto l’emisfero destro, come dimostra il suo attivarsi paradossale e parossistico — conseguente ai deficit di quello sinistro — in autistici savant come Nadia, che a cinque anni dipinge cavalli simili a quelli di Leonardo. È un’ennesima prova, da manuale, sulla dialettica cerebrale tra specializzazione e plasticità.
Quanto ai processi empatici dello spettatore (al suo sintonizzarsi con l’opera), oggi vediamo confermate le intuizioni della Gestalt su come il cervello reagisca all’ambiguità dell’immagine (a volte insolubile, come nel caso-cult dell’anatra-coniglio di Jastrow) procedendo con una «messa a fuoco», di nuovo, dal bottom-up al top-down, dall’inconscio mimetico (il fantasma dell’immagine) all’immagine carica di significato emotivo e simbolico.
Nella sua stratificazione tirannica, L’età dell’inconscio (o «dell’intuizione», secondo l’originale) patisce qualche strana omissione (uno scrittore-scienziato austriaco come Robert Musil, tra l’altro attento alla Gestalt) e qualche occasione persa. Prendiamo i vari casi di «inconscio creativo» nella scienza, a partire dal «serpente che si morde la coda» nel sogno del chimico Friedrich Kekulé, che si rivela la soluzione notturna di una sua lunga ricerca sulla struttura dell’anello del benzene.
Oppure vengono appena sfiorati da Eric Kandel certi passaggi cruciali, come quello in cui l’arte diventa una risposta adattativa al lutto e alla perdita (vedi le mani ocra e nere di certa arte rupestre, secondo alcuni interpreti leggibili come disperati richiami per quelle dei defunti).
Ma questi, va da sé, non sono né lapsus né rimozioni; solo le imperfezioni di ogni vero classico, come le irregolarità di certi tappeti pregiati.

 Sandro Modeo,  Corriere della Sera  20 ottobre 2012

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