Eric
Richard Kandel è nato a Vienna il 7
novembre del 1929. Neurologo e psichiatra, è professore di Biofisica e
biochimica presso la Columbia University, in America. Considerato uno dei
maggiori scienziati del ’900, è stato il primo psichiatra degli Stati Uniti a
vincere il Premio Nobel per la medicina (nel 2000), conseguito con Arvid
Carlsson e Paul Greengard per le ricerche sulle basi fisiologiche della memoria
nei neuroni.
Di recente Kandel ha scritto «L’età
dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla Grande Vienna ai nostri giorni»,
pubblicato in Italia da Raffaello
Cortina (traduzione di Gianbruno Guerrerio, pp. 502 più le note, € 39) ed è
diviso in cinque parti: «Una psicologia analitica e un’arte dell’emozione incoscia», «La
psicologia cognitiva della percezione visiva», «Biologia della risposta visiva
all’arte», «Una scienza biologica della risposta emotiva
dello spettatore all’arte» e «Arte visiva e scienza in evoluzione».
Pubblichiamo
di seguito la recensione del libro, a cura di Sandro Modeo, pubblicata oggi sul Corriere della sera:
Sandro Modeo - Cervello
ed eros, dove nasce l’ispirazione
Nonostante
si presenti come un manufatto avvolgente — cadenzato da un’elegante iconografia
— L’età dell’inconscio di Eric Kandel non è un libro
rassicurante. Destinato a diventare un classico, lo sarà in quanto lettura che
esalta e inquieta, costringendo il lettore a smuovere pregiudizi e autoinganni
consolatori.
Kandel,
infatti, segue il corso di due rivoluzioni conoscitive, essenziali non solo nel
riformulare il rapporto arte/cervello (asse tematico del libro), ma di
incidenza più estesa e profonda.
La
prima — l’aprirsi della porta mentale sull’inconscio, decisiva, oltre che per
gli artisti, per psicologi e scrittori — ci fa risalire alla Vienna tra la fine
dell’800 e l’inizio del ’900, città paragonata dal viennese-ebreo Kandel, con
comprensibile trasporto, alla Firenze rinascimentale, e in cui una borghesia
emergente — proprio grazie all’immissione di tante intelligenze ebree —
sovrappone al tramonto asburgico il chiarore di altre svolte culturali: la
filosofia di Wittgenstein, la musica di Mahler e Schonberg, l’architettura
pre-Bauhaus di Loos e Otto Wagner.
La
seconda rivoluzione — collegata alla prima dal ponte della psicologia della
Gestalt, usata da altri viennesi, gli storici dell’arte Kris e Gombrich, per
spiegare la percezione dello spettatore — ci porta invece alle implicazioni
ultime (filosofiche e psicologiche) delle neuroscienze, area di competenza di
Kandel: e qui, dimostrando come questa seconda rivoluzione sia, della prima, un’integrazione
e una revisione critica, il libro non si limita a tracciare cerniere inedite
tra arte e scienza, ma inquadra tutte le funzioni superiori della mente
(coscienza e inconscio, attenzione e memoria, fino alla creatività) come
fossero nuovi paesaggi o — per richiamare Proust — paesaggi abituali sotto uno
sguardo nuovo.
.
Nel
lungo prologo sulla Grande Vienna, Kandel individua il break generativo nella
visione darwiniana estesa dalla Scuola medica di Carl Von Rokitansky (il primo
a impiegare la patologia come cartina di tornasole della fisiologia) al salotto
di Berta von Zuckerkandl (critica d’arte e studiosa di biologia in quanto
moglie d’un anatomista); visione che culmina nelle scoperte di un allievo di
Rokitansky, Theodor Meynert, sui rapporti tra le pulsioni «inconsce, innate,
istintive» del cervello rettiliano e il «comportamento riflessivo» della
corteccia.
Ed è
da questa visione che se ne irradiano di altrettanto innovative: la
psicoanalisi freudiana mutua dall’enfasi evoluzionista sul riprodursi degli
organismi la centralità delle pulsioni sessuali (e del loro risvolto dark,
quelle di morte) e traduce le intuizioni di Meynert nella lotta tra Es e
Super-Io, combattuta sul ring dell’Io; mentre i romanzi dello scrittore-medico
Schnitzler — dalla Signorina Else a Doppio
sogno — impiegano il monologo interiore per far emergere
quello stesso conflitto col rimosso e l’onirico.
Per i
pittori viennesi «modernisti», l’apertura alla biologia e al teatro interiore è
anche un’alternativa alla via del realismo, chiusa dall’irruzione della
fotografia. Così, Gustav Klimt, lettore di Darwin, punteggia i suoi ori
bizantini di citoplasmi e nuclei cellulari; Oskar Kokoschka rivela l’inconscio
dei soggetti ritratti attraverso un’ipersensibilità molecolare verso i loro
tratti, sguardi e gesti; e lo splenetico Egon Schiele esprime nelle
«distorsioni anatomiche esasperate» delle sue figure la biopsicologia della
sessualità (specie di quella femminile, che ha capito più di Freud) e ; il suo
fondersi con l’autodistruttività e il nonsenso (vedi tele come «La morte e la
fanciulla» o «La morte e l’uomo»).
Non
casuale, per inciso, è l’influenza esercitata su tutto il gruppo da Charcot, il
neurologo della Salpètrière: Freud ne ha appreso la pratica dell’ipnosi;
Schnitzler ne è stato assistente; Kokoschka e Schiele hanno preso a modello le
mani delle sue pazienti isteriche.
La
cornice biologico-evoluzionistica della svolta viennese è ancora più decisiva
per seguire Eric Kandel verso la neuropsicologia dell’artista e dello
spettatore. Il punto di partenza è vedere la funzione estetico-cognitiva
dell’arte come un’applicazione particolare — e insieme un’estensione —
della predisposizione del cervello ad acquisire e a elaborare informazioni sul
mondo per sopravvivere, scremando ordine dal caos e regolarità dal caso: per i
nostri progenitori, per esempio, era vitale discriminare un oggetto da un
contesto (una mela rossa) o un corpo statico da uno dinamico (un animale
pericoloso). Risalendo a questa remota eredità filogenetica, è possibile capire
certi «universali estetici innati», su cui ogni cultura e ogni artista
innestano poi specificità storico-stilistiche: collegare la nostra predilezione
per la simmetria figurativa a quella per la fisionomia del partner (buona
simmetria equivale a buoni geni), o la nostra sensibilità all’«esagerazione»
dei tratti e all’intensificazione del colore (che troviamo negli scultori
gotici e negli espressionisti, nei manieristi e nel fumetto) alla possibilità,
vantaggiosa sul piano adattativo, di una discriminazione visiva più nitida e
veloce.
Entrando
nei dettagli neuroanatomici e neurobiologici di quella predisposizione — di
quell’allerta costante con cui frughiamo il mondo, già dai continui movimenti
oculari, alla ricerca di stimoli —, Eric Kandel riassume la nostra reazione
davanti a un oggetto (un quadro o un volto dipinto, ma anche una montagna o un
volto in carne e ossa) come una complessa orchestrazione in due tempi: un
insieme di processi inconsci «dal basso» (non solo visivi, ma anche motori,
emotivi, mnemonici e pre-semantici) e una loro successiva integrazione «dall’alto»
(in certe aree della corteccia) che li porta alla luce della coscienza. È la
stessa cadenza che agisce — con tempi e modi specifici — a livello sia di
creazione che di fruizione (di ri-creazione) dell’opera d’arte.
A
proposito della fase creativa, Kandel ricorda da un lato, in generale, quanto
conti per artisti e scienziati, scrittori o musicisti, il momento di
incubazione (quel «lasciar vagare la mente» in cui l’inconscio reimposta un
problema ed elabora fitte combinazioni-permutazioni), arrivando a identificare
il momento dell’eureka (la soluzione-emersione di quel lavoro
silente) in una precisa regione del lobo temporale destro. Dall’altro, entrando
nei dettagli del talento figurativo, ne conferma il correlato neurale non solo
nello stesso lobo temporale, ma in tutto l’emisfero destro, come dimostra il
suo attivarsi paradossale e parossistico — conseguente ai deficit di quello
sinistro — in autistici savant come Nadia, che a cinque anni
dipinge cavalli simili a quelli di Leonardo. È un’ennesima prova, da manuale,
sulla dialettica cerebrale tra specializzazione e plasticità.
Quanto
ai processi empatici dello spettatore (al suo sintonizzarsi con l’opera), oggi
vediamo confermate le intuizioni della Gestalt su come il cervello reagisca
all’ambiguità dell’immagine (a volte insolubile, come nel caso-cult
dell’anatra-coniglio di Jastrow) procedendo con una «messa a fuoco», di nuovo,
dal bottom-up al top-down, dall’inconscio mimetico (il
fantasma dell’immagine) all’immagine carica di significato emotivo e simbolico.
Nella
sua stratificazione tirannica, L’età dell’inconscio (o
«dell’intuizione», secondo l’originale) patisce qualche strana omissione (uno
scrittore-scienziato austriaco come Robert Musil, tra l’altro attento alla
Gestalt) e qualche occasione persa. Prendiamo i vari casi di «inconscio
creativo» nella scienza, a partire dal «serpente che si morde la coda» nel
sogno del chimico Friedrich Kekulé, che si rivela la soluzione notturna di una
sua lunga ricerca sulla struttura dell’anello del benzene.
Oppure
vengono appena sfiorati da Eric Kandel certi passaggi cruciali, come quello in
cui l’arte diventa una risposta adattativa al lutto e alla perdita (vedi le
mani ocra e nere di certa arte rupestre, secondo alcuni interpreti leggibili
come disperati richiami per quelle dei defunti).
Ma
questi, va da sé, non sono né lapsus né rimozioni; solo le imperfezioni di ogni
vero classico, come le irregolarità di certi tappeti pregiati.
Sandro Modeo, Corriere della Sera 20 ottobre 2012
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