Quando
la musica diventa colore e le note linee in movimento.
Riproponiamo di seguito un articolo pubblicato
recentemente su La repubblica:
Giuseppe Montesano - Disegni improvvisati
come note di sax
Un vecchio
nonno un po’ sornione che ritaglia giocattoli per i nipotini: è così che si
presenta Henri Matisse in una foto che lo ritrae a Vence, a quasi ottant’anni,
mentre sforbicia uno dei cartoncini colorati con cui avrebbe costruito Jazz,
uno dei libri d’arte più originali del Novecento. E oggi Jazz viene riproposto
in edizione fac-simile dall’Electa, con due scritti di Francesco Poli e di
Corrado Mingardi, in un libro-oggetto fatto di quartini sciolti che alternano
pagine scritte a mano da Matisse e colorate immagini ritagliate da un enfantdi
ottant’anni, un bambino sapiente e scapestrato che si mise a dipingere
cartoncini e a costruire disegni che sono quasi sculture, tagliando le carte
con le forbici e montando i pezzi come in un cinema delle origini: sono i
papiers gouachés et decoupés che un editore geniale, Tériade, vide nello studio
di Matisse e gli chiese di mettere insieme per comporre un libro. I giochi a
colori di Matisse riguardavano soprattutto il circo, tra clown e mangiatori di
spade e Pierrot, ma Tériade ebbe un’idea brillante, e dette al libro un nome
che in quegli anni evocava il nuovo, l’istinto, l’improvvisazione, il ritmo e
la giovinezza: e lo chiamò Jazz.
In quel 1947
le caves a Saint-Germain-de-prés cominciavano a essere invase dai jazzisti
americani, i francesi un po’ fuori moda impazzivano per la faccia da Satiro
ubriaco di Sidney Bechet e per lo stile New Orleans del suo sax soprano, i
giovani si buttavano sui primi dischi del bop trovando nei solchi i guizzi
nevrotici e tagliati di Charlie Parker, l’anno dopo si sarebbe aperto il
festival internazionale del jazz di Parigi, e lo scrittore Boris Vian scriveva
libri surreali e suonava la tromba in un gruppo jazz riuscendo forse a pagarsi
le cene ma non certo il troppo whisky americano che beveva. Ma cosa ne sapeva
l’ottantenne Matisse della nuova musica che contagiava gli zazous, i ragazzini
ribelli delle caves e che si sarebbe sposata a perfezione con le nevrosi
dell’Essere e del Niente di Sartre? Non ne sapeva niente o quasi, ma afferrò al
volo il suggerimento di Tériade, scrisse nel libro che il gesto dell’artista
sapiente deve saper dimenticare la tecnica e conservare «la freschezza
dell’istinto», disse che le sue carte ritagliate erano «improvvisazioni cromatiche
e ritmate», aggiunse che avrebbe usato la propria grafia «come sfondo sonoro»,
e creò il suo circo di colori al ritmo di un jazz immaginario.
Ma quel
ritmo era nelle vene dell’epoca, e basta aprire Jazz per capirlo a ogni foglio
e persino negli sbalzi della scrittura. In mezzo alla grafia di curve e sgraffi
e onde di Matisse, una grafia che si trasforma in calligrafia come nei rotoli
di seta giapponesi o nelle volute liberty, ecco che appaiono immagini famose
come Il clown, che si muove accompagnato dalla musica finto jazz della sonata
per violino e pianoforte di Ravel; ed ecco i puri segni colorati che Matisse
chiamava Lagune, ma che sono arabeschi, frange, virgole, trine, colori
trasformati in ritmi da un colpo di forbici che somiglia a un colpo d’ancia del
sax di Bechet; ed ecco un capolavoro come Cow-boy, due ombre in forma di
macchie che si incrociano avvinghiate da un lazo sghembo e sincopato come il
Rag-time di Stravinskij.
E in questo
tardo Matisse gli intrecci ritmici e cromatici andavano tutti nella direzione
del tempo sincopato e blues del jazz, la musica dell’improvvisazione emotiva in
cui il nuovo è raggiunto nel momento in cui ci si lancia a proprio rischio e
pericolo nel vuoto, e si dà inizio alle sorprese del Caso. Così, a un certo
punto di Jazz, Matisse scriveva: «Un musicista ha detto che in arte la verità,
o il reale, comincia quando non si capisce più nulla di quello che si fa...
».
Il vecchio
artista, che non sapeva niente di Parker e Gillespie, aveva però afferrato
l’idea di improvvisazione a partire dalla scomposizione di un tema, che in lui
si legava a una pratica esecutiva in cui gli strumenti erano le mani e la
musica i colori: con l’aiuto del momento giusto, Matisse sapeva che le
combinazioni di timbri e segni diventavano giuste, e la musica delle immagini
si levava dalle sue carte colorate e ritagliate come qualcosa di mai visto
prima. E non è strano che dal miscuglio tra improvvisazione ritmica e infanzia
ritrovata le carte colorate di Matisse anticipino anche il pop: quasi esaurendolo
prima che sia inventato.
In Matisse è
pop l’edonismo visivo, la decoratività che penetra nelle figure, la
semplificazione delle forme, qualcosa che è raffinato e bambinesco allo stesso
tempo, qualcosa che risuona allegro e dolce anche quando, come in Jazz,
rappresenta il funerale di Pierrot. Il vecchio Matisse sapeva giocare, e sapeva
che i bambini perenni che siamo vanno divertiti e divagati: e a quei bambini
perenni, strizzando l’occhio da clown, regalò il suo jazz.
(Da: La
Repubblica del 23 settembre 2012)
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