Dal blog - http://georgiamada.wordpress.com
- prendo i seguenti documenti:
Grande
riunione femminista a Paestum, durerà tre giorni fino a domenica.
Gli incontri nella Sala Saturno dell’Hotel Ariston, via Laura 13. Tutte le informazioni sul sito Paestum 2012.
Una sfida delle donne alla politica che non si vedeva dal 1976.
Vi segnalo un po’ di link di seguito poi vi posto l’articolo di Ida Dominijanni sul Manifesto del 3 ottobre 2012 e prima quello di Norma Rangeri sempre da Paestum e sempre sul Manifesto, ma del 1976 quando si tenne uno storico incontro.
Gli incontri nella Sala Saturno dell’Hotel Ariston, via Laura 13. Tutte le informazioni sul sito Paestum 2012.
Una sfida delle donne alla politica che non si vedeva dal 1976.
Vi segnalo un po’ di link di seguito poi vi posto l’articolo di Ida Dominijanni sul Manifesto del 3 ottobre 2012 e prima quello di Norma Rangeri sempre da Paestum e sempre sul Manifesto, ma del 1976 quando si tenne uno storico incontro.
PRIMUM VIVERE ANCHE NELLA CRISI: LA RIVOLUZIONE NECESSARIA
la sfida femminista nel cuore della politica
Incontro nazionale: Paestum 5,6,7 ottobre 2012
Paestum 2012, wordpress.com. e QUI la Lettera.
Manifesto, Corriere, Il mattino, Io donna, Repubblica, Gli altri, Lipperatura, Il paese delle donne (che non ci va).
Un salto dal 1976 al 2012
Paestum 1976
La forza e i problemi del femminismo
Ripubblichiamo, con lo stesso titolo di allora, il commento di Norma Rangeri al convegno di Paestum 1976 uscito sul manifesto del 9/12. di quell’anno. Una citazione dalla memoria del femminismo, ma anche uno spunto per misurare tanto i temi ritornanti quanto le distanze, di contenuto e di linguaggio, fra allora e oggi.
Norma Rangeri
La forza e i problemi del femminismo
Ripubblichiamo, con lo stesso titolo di allora, il commento di Norma Rangeri al convegno di Paestum 1976 uscito sul manifesto del 9/12. di quell’anno. Una citazione dalla memoria del femminismo, ma anche uno spunto per misurare tanto i temi ritornanti quanto le distanze, di contenuto e di linguaggio, fra allora e oggi.
Norma Rangeri
Più di mille
donne, di provenienze sociali e di età diverse si sono ritrovate e hanno
discusso per quattro giorni nel convegno nazionale che il movimento femminista
ha tenuto a Paestum. Da questo siamo state colpite; non dalle gonne fiorate,
non dagli abbigliamenti eccentrici, non dalla presenza di «streghe», né dalla
«rivolta delle giovani». Ed è proprio questa enorme partecipazione che ci
sembra il primo stimolante dato su cui tutti dovrebbero riflettere.
Perché questa enorme affluenza nei convegni femministi? Cosa spinge ogni singola donna a mettersi su un treno lasciando figli e marito, o la famiglia, o il lavoro o la scuola? Cosa significa questa enorme crescita quantitativa del movimento che smentisce ogni voce che vede a ogni pié sospinto la sua crisi? Paestum a questo ha risposto con molta evidenza: le donne vogliono partecipare in prima persona, vogliono incontrarsi e capire insieme i problemi e i destini del movimento perché sentono che in discussione sono i problemi e i destini di ciascuna. Ed è per questo che l’incontro di questi giorni ha visto una grande partecipazione di tutte, non solo nelle sedi «specifiche» del dibattito, ma anche in tutti gli altri momenti (a pranzo, nelle stanze dei vari alberghi, per la strada) di queste giornate.
Questa salutare eterogeneità ha però anche significato una enorme difficoltà di comunicazione, anche in ciascuno dei gruppi. Come riportare all’interno di un confronto allargato i modi di parlare e di porsi l’una nei confronti dell’altra sperimentati e vissuti nei singoli collettivi, nelle proprie città, fra realtà cioè conosciute e «familiari»? Come evitare quel che succedeva nelle organizzazioni politiche oppure nella propria famiglia, che cioè a parlare fossero le più «esperte»? Come mantenere aperta la volontà, presente in tutte, di esprimersi? Come eliminare i ruoli?
Il movimento femminista che questi problemi sempre si è posto, ad esempio con la struttura del piccolo gruppo, ha affrontato di petto la questione. Il discorso del linguaggio, della comunicazione fra donne, è stato il filo che ha unito un po’ tutti i gruppi in cui il convegno si è articolato; la presenza di realtà diverse per livelli di elaborazione, di pratica, ha creato infatti molto disagio. Chi prendeva la parola, in qualunque modo 1o facesse, (mettendo al primo posto la sua emotività o la volontà di razionalizzare) era scarsamente seguita da tutte le altre e le accuse reciproche di essere o solo «testa» o solo «corpo» rimbalzavano. Finché una compagna si alza e dice: «Siamo lo specchio della realtà che è fuori di qui, siamo diverse l’una dall’altra, prendiamo coscienza delle nostre differenze, non andiamo alla ricerca di linguaggi “taumaturgici”, l’espressione verbale è ancora quella che più ci accomuna».
In realtà, affrontare il problema di come comunicare fra donne rimanda, ed è qui che si esprime la massima difficoltà, al rapporto con le donne che il movimento non riesce a raggiungere. Il dibattito ha approfondito il tema del rapporto tra movimento femminista e «esterno», tra emancipazione e liberazione. Cosa vuol dire che le donne che compongono il movimento femminista sono donne già «emancipate», cioè già inserite nel lavoro, nella scuola, nelle strutture pubbliche della società? Significa, come sostiene l’Udi, che vanno fatte battaglie per avere più occupazione femminile? E se a questo il movimento femminista non si associa, quali altri strumenti si dà per coinvolgere, ad esempio, le donne più emarginate, come le casalinghe? Sono i problemi su cui il movimento si confronterà con i suoi tempi nei mesi a venire.
Una riflessione importante si è concentrata sulla «spontaneità» del movimento. «La spontaneità si è trasformata spesso in puro spontaneismo; il Sessantotto prima e la risposta dei gruppi della nuova sinistra poi non hanno offerto alcuna soluzione alternativa», dice una compagna di Milano. «Mi viene in mente l’esperienza del parco Lambro e la nascita dei circoli del proletariato giovanile. Il movimento deve riflettere sulla spinta alla disgregazione dei soggetti sociali e quindi anche di quel particolare soggetto sociale che noi siamo per riconoscere le nostre differenze. E’ un contributo alla comprensione profonda delle difficoltà che abbiamo».
Manifesto 3 ottobre 2012, p. 4.
Perché questa enorme affluenza nei convegni femministi? Cosa spinge ogni singola donna a mettersi su un treno lasciando figli e marito, o la famiglia, o il lavoro o la scuola? Cosa significa questa enorme crescita quantitativa del movimento che smentisce ogni voce che vede a ogni pié sospinto la sua crisi? Paestum a questo ha risposto con molta evidenza: le donne vogliono partecipare in prima persona, vogliono incontrarsi e capire insieme i problemi e i destini del movimento perché sentono che in discussione sono i problemi e i destini di ciascuna. Ed è per questo che l’incontro di questi giorni ha visto una grande partecipazione di tutte, non solo nelle sedi «specifiche» del dibattito, ma anche in tutti gli altri momenti (a pranzo, nelle stanze dei vari alberghi, per la strada) di queste giornate.
Questa salutare eterogeneità ha però anche significato una enorme difficoltà di comunicazione, anche in ciascuno dei gruppi. Come riportare all’interno di un confronto allargato i modi di parlare e di porsi l’una nei confronti dell’altra sperimentati e vissuti nei singoli collettivi, nelle proprie città, fra realtà cioè conosciute e «familiari»? Come evitare quel che succedeva nelle organizzazioni politiche oppure nella propria famiglia, che cioè a parlare fossero le più «esperte»? Come mantenere aperta la volontà, presente in tutte, di esprimersi? Come eliminare i ruoli?
Il movimento femminista che questi problemi sempre si è posto, ad esempio con la struttura del piccolo gruppo, ha affrontato di petto la questione. Il discorso del linguaggio, della comunicazione fra donne, è stato il filo che ha unito un po’ tutti i gruppi in cui il convegno si è articolato; la presenza di realtà diverse per livelli di elaborazione, di pratica, ha creato infatti molto disagio. Chi prendeva la parola, in qualunque modo 1o facesse, (mettendo al primo posto la sua emotività o la volontà di razionalizzare) era scarsamente seguita da tutte le altre e le accuse reciproche di essere o solo «testa» o solo «corpo» rimbalzavano. Finché una compagna si alza e dice: «Siamo lo specchio della realtà che è fuori di qui, siamo diverse l’una dall’altra, prendiamo coscienza delle nostre differenze, non andiamo alla ricerca di linguaggi “taumaturgici”, l’espressione verbale è ancora quella che più ci accomuna».
In realtà, affrontare il problema di come comunicare fra donne rimanda, ed è qui che si esprime la massima difficoltà, al rapporto con le donne che il movimento non riesce a raggiungere. Il dibattito ha approfondito il tema del rapporto tra movimento femminista e «esterno», tra emancipazione e liberazione. Cosa vuol dire che le donne che compongono il movimento femminista sono donne già «emancipate», cioè già inserite nel lavoro, nella scuola, nelle strutture pubbliche della società? Significa, come sostiene l’Udi, che vanno fatte battaglie per avere più occupazione femminile? E se a questo il movimento femminista non si associa, quali altri strumenti si dà per coinvolgere, ad esempio, le donne più emarginate, come le casalinghe? Sono i problemi su cui il movimento si confronterà con i suoi tempi nei mesi a venire.
Una riflessione importante si è concentrata sulla «spontaneità» del movimento. «La spontaneità si è trasformata spesso in puro spontaneismo; il Sessantotto prima e la risposta dei gruppi della nuova sinistra poi non hanno offerto alcuna soluzione alternativa», dice una compagna di Milano. «Mi viene in mente l’esperienza del parco Lambro e la nascita dei circoli del proletariato giovanile. Il movimento deve riflettere sulla spinta alla disgregazione dei soggetti sociali e quindi anche di quel particolare soggetto sociale che noi siamo per riconoscere le nostre differenze. E’ un contributo alla comprensione profonda delle difficoltà che abbiamo».
Manifesto 3 ottobre 2012, p. 4.
Pestum 2012
La bussola femminista nei marasmi della crisi. Un incontro nazionale per leggere il presente e orientare la trasformazione
Donne a Paestum, archeologia del futuro
Il femminismo radicale si incontra a Paestum per rilanciare la sfida delle origini nella crisi di civiltà di oggi. Sessualità, vita, lavoro, politica: la «rivoluzione necessaria» per riscrivere il patto sociale e la convivenza fra donne e uomini
Ida Dominijanni
La bussola femminista nei marasmi della crisi. Un incontro nazionale per leggere il presente e orientare la trasformazione
Donne a Paestum, archeologia del futuro
Il femminismo radicale si incontra a Paestum per rilanciare la sfida delle origini nella crisi di civiltà di oggi. Sessualità, vita, lavoro, politica: la «rivoluzione necessaria» per riscrivere il patto sociale e la convivenza fra donne e uomini
Ida Dominijanni
Le battute
sulle streghe che ritornano si sprecheranno, e già volano, autoironicamente,
sui siti del movimento. Eppure non è stata la nostalgia del passato, ma al
contrario la scommessa sul futuro, a motivare la scelta di Paestum, già sede di
uno storico raduno femminista del 1976, per l’incontro nazionale del femminismo
radicale convocato per sabato e domenica prossimi. La tuffatrice, citazione
femminilizzata del celebre reperto magnogreco conservato a Paestum, si slancia,
dice il logo dell’incontro, nel XXI secolo.
Com’è andata lo racconta Lea Melandri in un’intervista sul sito che ha preparato l’iniziativa. L’idea di un incontro nazionale del femminismo radicale maturava da tempo, in controcanto alla piega paritaria, rivendicativa e moraleggiante che il discorso sulle donne (e talvolta delle donne) non smette di prendere sulla scena politica e mediatica mainstream, e si era meglio profilata dopo un seminario sul rapporto fra lavoro e cura di svariati mesi fa a Milano. Ma sono state le giovani dell’associazione Artemide di Paestum a suggerire il ritorno nella loro città, perché del raduno “storico” del ’76 avevano sentito parlare le loro madri, e volevano riattraversare in qualche modo il mito dell’origine. Alla faccia dei rottamatori che imperversano ovunque di questi tempi.
Si va a Paestum dunque a discutere di rappresentazione lavoro e sessualità, trentasei anni fa a incontrarsi, in piena esplosione del movimento, erano un migliaio e stavolta, in piena implosione della politica e dell’economia, le prenotazioni ne promettono altrettante. Tutto è cambiato da allora, il patriarcato allora trionfante oggi morente, la democrazia allora carica di promesse oggi assoggettata al mercato, l’idea di futuro allora trascinante oggi ammaccata dalla crisi, la condizione femminile stessa allora ai margini oggi al centro della sfera pubblica e del mercato del lavoro, e soprattutto la soggettività femminile, allora in piena maturazione oggi ricca di sedimentazione. Ma proprio per questo il ritorno all’origine, alla radicalità dell’origine, ha il senso, contemporaneamente, di una verifica e di una scommessa. Come scrive la lettera di convocazione dell’incontro – titolo Primum vivere anche nella crisi, firme (l’elenco qui sotto) rappresentative di tutto il femminismo radicale – «tante cose sono cambiate ma le istanze radicali del femminismo sono vive e vegete. E sono da rimettere in gioco oggi», per guardare alla crisi della politica, dell’economia, della democrazia con «un orientamento sensato».
Il richiamo alla radicalità dell’origine – Radicalità si intitola non per caso l’ultimo numero di Via Dogana, la rivista della Libreria delle donne di Milano, largamente dedicato a Paestum – per interpretare il presente, rilanciare «la rivoluzione necessaria» e «la sfida femminista nel cuore della politica» è visibilmente tutt’altra cosa dal rivendicare l’inclusione paritaria, «50 e 50», delle donne nel quadro politico e sociale dato. All’inclusione femminile nella sfera pubblica e nel mercato del lavoro Paestum guarda, piuttosto, come a un dato di fatto, tanto dispiegato quanto ambivalente. Non si tratta più di confrontarsi con l’esclusione femminile, ma con una inclusione che si presenta in parte come conquista delle donne, in parte come «risorsa salvifica» di un sistema in crisi. E che produce per un verso protagonismo femminile e desiderio di contare, per l’altro verso nuove forme di assoggettamento e di omologazione.
Si tratta dunque in primo luogo di interrogare la «voglia di esserci» delle donne per piegarla verso la politica della differenza e sottrarla alla neutralizzazione paritaria: non tanto dividendosi ideologicamente sul desiderio di potere, quanto attivando il racconto dell’esperienza di che cosa succede quando una donna si confronta con le regole del potere e della decisione, quali sono i conflitti, i risultati e le perdite che ne derivano, quali sono le misure di giudizio adeguate a questa condizione. In secondo luogo, nel campo del lavoro, bisogna di decodificare opportunità e trappole della “femminilizzazione” oggi richiesta e promossa dal mercato e dai media: qui l’elaborazione femminista sul rapporto fra lavoro e cura, produzione e riproduzione diventa il cuneo per rimettere la vita e l’interdipendenza al centro del discorso sulla crisi economica e di civiltà in cui viviamo. In terzo luogo, nel campo della politica, occorre uscire dalle secche della crisi della rappresentanza, per riportarla al nodo più profondo delle forme di autorappresentazione soggettiva che, come la storia del femminismo insegna, sono «la condizione minima per la pratica della libertà»: qui il cuneo è quello delle pratiche del partire da sé e della relazione, che non da oggi hanno ridisegnato il profilo di ciò che va sotto il nome di “soggetto politico”.
Infine, ma primo per importanza, si tratta di aggiornare la sfida femminista delle origini sulla politicità del corpo e della sessualità, in un’epoca in cui «si esibisce lo scambio sesso/denaro/carriera/potere occultando il nesso sessualità/politica; si esalta il sesso mentre muore il desiderio; si idolatra il corpo ma lo si sottrae alle persone consegnandolo nelle mani degli specialisti e del business; si erotizza tutto, dal lavoro ai consumi, ma si cancella la necessità e il piacere dei corpi in relazione”. Il tutto mentre «le relazioni fra donne e uomini sono cambiate, ma non abbastanza», e nella sordità della scena pubblica, dove «questo cambiamento non appare perché il rapporto uomo-donna non viene assunto come questione politica di primo piano». Ne sappiamo qualcosa dagli ultimi anni dell’era berlusconiana, e dalla scia tutt’altro che dissolta nel “decoro” montiano che ci hanno lasciato.
Com’è andata lo racconta Lea Melandri in un’intervista sul sito che ha preparato l’iniziativa. L’idea di un incontro nazionale del femminismo radicale maturava da tempo, in controcanto alla piega paritaria, rivendicativa e moraleggiante che il discorso sulle donne (e talvolta delle donne) non smette di prendere sulla scena politica e mediatica mainstream, e si era meglio profilata dopo un seminario sul rapporto fra lavoro e cura di svariati mesi fa a Milano. Ma sono state le giovani dell’associazione Artemide di Paestum a suggerire il ritorno nella loro città, perché del raduno “storico” del ’76 avevano sentito parlare le loro madri, e volevano riattraversare in qualche modo il mito dell’origine. Alla faccia dei rottamatori che imperversano ovunque di questi tempi.
Si va a Paestum dunque a discutere di rappresentazione lavoro e sessualità, trentasei anni fa a incontrarsi, in piena esplosione del movimento, erano un migliaio e stavolta, in piena implosione della politica e dell’economia, le prenotazioni ne promettono altrettante. Tutto è cambiato da allora, il patriarcato allora trionfante oggi morente, la democrazia allora carica di promesse oggi assoggettata al mercato, l’idea di futuro allora trascinante oggi ammaccata dalla crisi, la condizione femminile stessa allora ai margini oggi al centro della sfera pubblica e del mercato del lavoro, e soprattutto la soggettività femminile, allora in piena maturazione oggi ricca di sedimentazione. Ma proprio per questo il ritorno all’origine, alla radicalità dell’origine, ha il senso, contemporaneamente, di una verifica e di una scommessa. Come scrive la lettera di convocazione dell’incontro – titolo Primum vivere anche nella crisi, firme (l’elenco qui sotto) rappresentative di tutto il femminismo radicale – «tante cose sono cambiate ma le istanze radicali del femminismo sono vive e vegete. E sono da rimettere in gioco oggi», per guardare alla crisi della politica, dell’economia, della democrazia con «un orientamento sensato».
Il richiamo alla radicalità dell’origine – Radicalità si intitola non per caso l’ultimo numero di Via Dogana, la rivista della Libreria delle donne di Milano, largamente dedicato a Paestum – per interpretare il presente, rilanciare «la rivoluzione necessaria» e «la sfida femminista nel cuore della politica» è visibilmente tutt’altra cosa dal rivendicare l’inclusione paritaria, «50 e 50», delle donne nel quadro politico e sociale dato. All’inclusione femminile nella sfera pubblica e nel mercato del lavoro Paestum guarda, piuttosto, come a un dato di fatto, tanto dispiegato quanto ambivalente. Non si tratta più di confrontarsi con l’esclusione femminile, ma con una inclusione che si presenta in parte come conquista delle donne, in parte come «risorsa salvifica» di un sistema in crisi. E che produce per un verso protagonismo femminile e desiderio di contare, per l’altro verso nuove forme di assoggettamento e di omologazione.
Si tratta dunque in primo luogo di interrogare la «voglia di esserci» delle donne per piegarla verso la politica della differenza e sottrarla alla neutralizzazione paritaria: non tanto dividendosi ideologicamente sul desiderio di potere, quanto attivando il racconto dell’esperienza di che cosa succede quando una donna si confronta con le regole del potere e della decisione, quali sono i conflitti, i risultati e le perdite che ne derivano, quali sono le misure di giudizio adeguate a questa condizione. In secondo luogo, nel campo del lavoro, bisogna di decodificare opportunità e trappole della “femminilizzazione” oggi richiesta e promossa dal mercato e dai media: qui l’elaborazione femminista sul rapporto fra lavoro e cura, produzione e riproduzione diventa il cuneo per rimettere la vita e l’interdipendenza al centro del discorso sulla crisi economica e di civiltà in cui viviamo. In terzo luogo, nel campo della politica, occorre uscire dalle secche della crisi della rappresentanza, per riportarla al nodo più profondo delle forme di autorappresentazione soggettiva che, come la storia del femminismo insegna, sono «la condizione minima per la pratica della libertà»: qui il cuneo è quello delle pratiche del partire da sé e della relazione, che non da oggi hanno ridisegnato il profilo di ciò che va sotto il nome di “soggetto politico”.
Infine, ma primo per importanza, si tratta di aggiornare la sfida femminista delle origini sulla politicità del corpo e della sessualità, in un’epoca in cui «si esibisce lo scambio sesso/denaro/carriera/potere occultando il nesso sessualità/politica; si esalta il sesso mentre muore il desiderio; si idolatra il corpo ma lo si sottrae alle persone consegnandolo nelle mani degli specialisti e del business; si erotizza tutto, dal lavoro ai consumi, ma si cancella la necessità e il piacere dei corpi in relazione”. Il tutto mentre «le relazioni fra donne e uomini sono cambiate, ma non abbastanza», e nella sordità della scena pubblica, dove «questo cambiamento non appare perché il rapporto uomo-donna non viene assunto come questione politica di primo piano». Ne sappiamo qualcosa dagli ultimi anni dell’era berlusconiana, e dalla scia tutt’altro che dissolta nel “decoro” montiano che ci hanno lasciato.
Manifesto, 3 ottobre 2012 p. 4
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