Riprendo dal bellissimo blog http://illuminations-edu.blogspot.it/ ,
scoperto oggi, l’articolo sul grande
Andrea Zanzotto pubblicato domenica scorsa dal Corsera:
Marzio Breda, “Corriere della Sera.
La Lettura”, 30 settembre 2012
«Chi teme di
soffrire soffre già di ciò che teme». Nelle pause che gli concedevano i suoi
malanni, da ogni punto di vista leggendari, Andrea Zanzotto a volte scherzava
su se stesso citando l'aforisma dedicato da Montaigne agli ipocondriaci. Certo,
non erano pause durature. Tra attacchi allergici o gastrici e insonnie (lo
teneva desto lo scorrere del sangue nelle vene, che gli rimbombava in testa
«come lo scroscio di una cascata», tanto da fargli scrivere, in un verso di
autodiagnosi, «veglio in iperacusia»), quella catena di traumi, acciacchi,
mezze fisime e nevrosi era davvero invalidante. Ma ci fu una stagione nella
quale la famiglia e gli amici si preoccuparono seriamente, per lui: gli anni
tra il 1982 e l'84. Quando, all'ingresso nella cosiddetta terza età, si ritrovò
schiacciato da una depressione tenebrosa, che lo spinse a vari ricoveri in
ospedale e a entrare in analisi. Per inciso, un'analisi plurale, con
specialisti di diverse scuole.
«Una pesante
sfiducia mi assediava... mi sentivo minacciato dal senso di un'irrealtà di
tutto e da una sterile panfobia», scrisse tempo dopo, sfogandosi nelle
cartoline postali che usava per la corrispondenza con gli interlocutori più
intimi o aprendo squarci rivelatori in qualche colloquio e intervista. Paterno
e fraterno insieme, dato che aveva il genio dell'amicizia, ammoniva sui rischi
del disagio e del disordine psichico così come li aveva verificati sulla sua
pelle. Confessava che quella sofferenza, tra spossatezza e passività, lo aveva
portato sull'orlo dell'inaridimento, dell'afasia. «È stato un momento
cupissimo, come se fossi stato immerso in una palude limacciosa, anzi una
fogna, e le parole — pochissime, all'inizio simili a crampi verbali — mi
venivano fuori alla stregua di bolle. Gargarizzavo un flusso di frammenti e
variazioni, ritorni e ripensamenti, con ibridazioni linguistiche... oscillavo
tra il mutismo e un balbettio di pochi vocaboli, drenando degli pseudo-haiku
che, in una specie di effetto calamita, si congegnavano a gruppi, a
coroncine...
«Li componevo in un inglese ridotto quasi al grado zero,
minimo e minimalista, perché quella lingua la conoscevo poco ma mi piaceva
esplorarla. Di rado affioravano anche formazioni in dialetto o mi
aggrappavo a intarsi in un italiano lucente, forse per un inconsapevole omaggio
alla lingua di Dante, Petrarca e Ariosto, e più probabilmente per notificarmi
presente a me stesso con un bip-bip vitale... Ma, nel mio stato patologico, a
prevalere erano quelle stille che spesso esprimevo in un neoinglese
"petèl", cioè il linguaggio vezzeggiativo che utilizzano le madri e
le nutrici cullando i figli ancora nel nido della pre-infanzia... un tuffo
nell'oralità perpetua... Versi che non possono forse dirsi "inglesi"
e che tuttavia in qualche modo lo sono».
Un capitolo
piuttosto misterioso nella sua vasta opera, la gemmazione degli haiku di
Zanzotto tra la primavera e l'estate del 1984. Il poeta vi alludeva, ma
conservando i testi in un cassetto. Da lì, negli ultimi tempi, ne faceva saltar
fuori qualcuno, detriti della sua storia da regalare a ricercatori e studiosi.
Raccontava
che ispirarsi «in libertà» (ecco perché li chiamava pseudo-haiku) ai codici
della tradizione giapponese — 17 sillabe,
ripartite in tre versi dei quali due quinari alternati a un settenario
— gli aveva permesso di superare la fase forse più critica dell'esistenza. Era
stato uno strumento di auto-aiuto. Aggiungeva di averne ricavato — con il
diario che aveva ripreso a tenere — una prova del principio freudiano per cui
il nevrotico è un malato che si cura con la parola, anzitutto la propria, e
infatti per lui la poesia era «una forma di particolarissima autoanalisi». Cioè
«ferita e farmaco», in un processo di continui ondeggiamenti, slogature e
prospezioni dentro l'inconscio (e per lui dentro le ragioni fondanti della
letteratura) più che un semplice «pensare contro se stessi», secondo la
convenzione di Jacques Lacan. «Scrivevo, e non mi ponevo il problema se ciò che
facevo contasse qualcosa. Mi lasciavo andare a una deriva più o meno pigra che
a volte si trasformava in un "dittar dentro" somigliante anche a un
"diktat", a qualcosa di impositivo e di cui non mi potevo
liberare...».
Spiegava che
la parentesi di allora rappresentava, oltre a una riabilitazione a scrivere,
«una cerniera» nel suo percorso creativo, uno scatto stilistico, un passo
laterale verso le poesie di Meteo. Anticipava
che — fedele al canone nipponico — in quella sperimentazione tutta giocata su
densità e brevità, freschezza, sottigliezza e rapidità del pensiero,
incalzavano «elementi di paesaggio e di natura» e altre «suggestioni effimere»,
legate ai lampi cromatici del mutare del clima e alle fioriture di alcune
piante selvatiche. Ad esempio i papaveri e i topinambur «che infiorano i fossi
come raggi di sole su un piatto di stagno».
E spesso contestualizzava quei vaghi cenni con confronti tra l'italiano
e l'inglese. Mantenendo sullo sfondo il suo dialetto del Piave, base verbale in
cui si riconosceva, quasi un fossile idiomatico irto di apocopi («ho dit, ho
fat, son 'ndat...»): un campo da dissodare a parte, per chi voglia capirlo, e
che comunque, grazie a lui, ha reso Pieve di Soligo «un piccolo grande cuore
del mondo», come ha detto Claudio Magris.
Dell'italiano
aureo di Dante e Petrarca, «illustre e monumentale», avvertiva «le seduzioni e
altezze del canto interno alla lingua». Mentre di quello contemporaneo,
«esangue e traballante», coglieva sintomi di usura e di smottamento nel parlato
e nella scrittura in prosa, e soprattutto lo urtavano le «atrocità
fonico-ritmiche» e il «costoso» polisillabismo. Questo insieme gli procurava
l'impressione di un'iperdiafania, «come quando si fanno delle radiografie e
un'iperdiafania svela che un tessuto si è sfilacciato».
Dell'inglese
lo incuriosivano «le ricchezze allitteratorie e l'educazione al monosillabismo
di cui noi siamo deprivati», e anche per questo gli pareva (nonostante «la
pappa lessicale» in cui si era ridotto, nella sua versione esperantizzata tra
canzoni, aeroporti, economia, scienza e tecnica) «rapido, fiammeggiante,
guizzante». Perciò adatto al «baluginio di piccoli atomi» che era emerso dagli
strati profondi e antichi della sua psiche. Riflessioni allargate a quelli che
chiamava gli «stati caotici di Babele, della torre bla-bla-bla» che, «per
castigo di Dio, ci ha privati di un idioma universale». Da «giardiniere e
botanico delle grammatiche» in grado di destreggiarsi in almeno quattro o
cinque lingue, condivideva con amici e anglisti (tra questi Sergio Perosa)
dubbi o incertezze nella revisione dei testi e nella loro traduzione. Sì,
perché un po' di anni dopo — superando le ansie del tradurre/tradire, ossia del
trasferire un sistema fonetico in un altro e quindi decostruire e aggiornare,
imitare — Zanzotto decise di auto-tradursi in italiano. Producendo «versioni
parallele e semiautonome». Spiazzanti.
Ne è nata
una raccolta bilingue pubblicata ora negli Stati Uniti e in Gran Bretagna (Haiku for a season,
The University of Chicago Press, a cura di Anna Secco e Patrick Barron), che è
l'ultimo libro dal lui licenziato in vita. Una preziosità assoluta. Alla quale
si aggiunge la ristampa (per l'editore Einaudi) di Filò, elegia in dialetto sulla fine del
dialetto, del 1976, nato a margine di una collaborazione con Federico Fellini
per il film Casanova, corredato pure da una «cantilena» e un
«recitativo» composti per la pellicola. Non sono le sole novità che lo riguardano.
Altri studi e convegni sulla sua opera sono in cantiere. A dimostrazione che
quello che, per «Le Monde», è stato nel Secondo Novecento «le plus moderne,
plus savant, plus émouvant poète italien» e più volte vicino al Nobel, continua
a parlarci.
Tra poco
ricorre il suo 91° compleanno (il 10 ottobre, come preferiscono ricordare in
famiglia) e il primo anniversario della scomparsa (il 18 ottobre 2011). Dietro
la casa alle cui finestre Zanzotto si appoggiava con mani fragili per guardare
ancora una volta «le sublimerie» del labirinto di boschi, colline e prealpi
trevigiane, oggi stanno tirando su un palazzo destinato a oscurare l'orizzonte.
Tutto regolare, per carità, con le carte bollate, i timbri e le licenze
previsti dalla legge. Ma a nulla vale il fatto che, forse per scusarsi
dell'incoerenza o forse per apparentarsi (con il pretesto di un ossequio
abusivo) alla sensibilità del poeta per la bellezza del suo paesaggio e per
l'epopea contadina della sua terra, abbiano voluto battezzarlo «condominio Filò».
Preclusioni,
barriere. Di sicuro Zanzotto ne sarebbe umiliato e sconfortato. Si sentirebbe
in gabbia e senza respiro. In esilio a casa propria. Magari sarebbe slittato in
un'altra fase di drammatica e stremata malinconia, simile a quella riassunta —
tra nausea e fecondità — nelle pagine di Haiku for a season.
Versi che
affiorano da quella lontana parentesi di sofferenza e che aveva steso
sentendoli poi echeggiare come un mugolio della mente, tra il frusciare delle
foglie e il rumore dei suoi passi, durante le passeggiate nei boschi.
Commoventi rivelazioni a se stesso, e a noi. «Delicate makeup of silk / in
reflections of far distances — / all simple thought is near» («Delicato
belletto di seta / nel riflesso di grandi distanze — / ogni pensiero semplice è
vicino»). O, più ancora, questi altri versi: «Lost-shy petals of panels,/
clipped minitalks, past thoughts — / little bitter teeth biking»
(«Timidi-perduti petali sui vetri / mini-discorsi spezzettati, pensieri passati
— / mordenti asprigni dentini»). «Parallel worlds, roots / of vitreous deep
languages — / bubbles weep in throats» («Mondi paralleli, radici / di vitrei
profondi linguaggi — / bolle piangono in gole»).
Immagini
dalle quali sono lievitate le sue poesie ultime, del 2009, riunite in Conglomerati.
Come quella, straordinaria, intitolata «Papaveri»:
«Fiammelle qua e là per prati / friggono luci disperate ognuna in sé / quelle
siamo noi, racimoli del fuoco / che pur disseminando resta pari a se stesso / è
zero che dona, da zero, il suo vero».
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