Ripropongo un lungo ma
interessante articolo di Lanfranco Caminiti apparso su http://www.democraziakmzero.org che,
in modo originale, invita a riflettere sulle insospettate relazioni esistenti tra economia e teologia.
Il pezzo è corredato anche da una ricca bibliografia.
LANFRANCO CAMINITI - Il debito è peccato
Colgo l'occasione per ricordare che anche Karl Marx aveva intravisto il filo che lega il modo di pensare di tanti economisti a quello di molti teologi:
"Gli economisti hanno uno strano modo di procedere. Per essi ci sono soltanto due specie di istituzioni,
quelle artificiali e quelle naturali. Le istituzioni feudali sono artificiali, quelle borghesi sono naturali. In questo assomigliano ai teologi, che anch’essi pongono due specie di religione. Tutte le religioni che non sono la loro, sono invenzioni degli uomini, mentre la propria religione emana da Dio. Cosi di storia ce n’è stata, ma non ce n’è piu” ( Miseria della filosofia )
"Gli economisti hanno uno strano modo di procedere. Per essi ci sono soltanto due specie di istituzioni,
quelle artificiali e quelle naturali. Le istituzioni feudali sono artificiali, quelle borghesi sono naturali. In questo assomigliano ai teologi, che anch’essi pongono due specie di religione. Tutte le religioni che non sono la loro, sono invenzioni degli uomini, mentre la propria religione emana da Dio. Cosi di storia ce n’è stata, ma non ce n’è piu” ( Miseria della filosofia )
LANFRANCO CAMINITI - Il debito è peccato
Padre nostro
che sei nei cieli
Padre nostro
che sei nei cieli / Rimetti a noi i nostri debiti / Come noi li rimettiamo ai
nostri debitori. La tradizione liturgica della Chiesa ha sempre usato il testo
di Matteo (Mt 6,9-13). In Luca (Lc 11,2-4), invece, è detto: «Rimetti a noi i
nostri peccati come noi li rimettiamo ai nostri debitori», dove a me sembra – e
Luca era un letterato – ci sia asimmetria e incongruenza tra peccati e
debitori. A meno che per Luca il debito non fosse di per sé un peccato, e
viceversa. O, ancora, che Luca fosse più attento alle radici ebraiche della
preghiera al Padre; in Selishah, 21 si dice: «Cancella i nostri peccati
davanti ai tuoi occhi», e nello Yom Kippur – che è il Giorno dell’espiazione –
si invoca: «Perdona i nostri peccati come noi li perdoniamo a tutti coloro che
ci hanno fatto soffrire». Ma il testo aramaico dice “haqwbajn” e cioè proprio i
debiti, e così per il testo greco “ofeilémata” – ὀφειλήματα, che sono propriamente i debiti economici. In latino, la
preghiera suona così: Et dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus
debitoribus nostris. Dove dimittere ha il doppio significato sia di
condonare, perdonare, sia di pagare, soddisfare un creditore. I nostri debiti
verso Dio – che è prestatore di ultima istanza – non possono che essere
peccati, nostre imperfezioni, nostre tentazioni, nostre mancanze: ma i nostri
crediti non possono esser voucher per il cielo, come in una partita doppia. Nel
Catechismo si spiega così: «la nostra domanda verrà esaudita solo a condizione
che noi, prima, abbiamo risposto ad un’esigenza. La nostra domanda è rivolta
verso il futuro, la nostra risposta deve averla preceduta». La condizionalità
qui è stringente, il memorandum si fa austero e rigoroso: solo se noi lasceremo
cadere i nostri crediti, potremo sperare che Dio rimetta i nostri debiti verso
di lui. È proprio questo però il punto: il credito è un futuro – Dio è sempre
in credito con noi, ci ha dato credito, i conti si faranno alla fine dei giorni
–, il debito è un passato. Il debito verso dio è oltremondano, i nostri crediti
sono invece volgarissimi e terreni. Come possono equipararsi? Sarebbe
come comprarsi sicure indulgenze dal cielo per l‘eternità con oboli.
L’incongruenza e l’asimmetria restano. Si impastano nella lingua: se il tedesco
Schuld è sia colpa che debito, l’inglese forgiveness è sia
perdono che remissione di un debito e redemption è sia riscatto,
salvezza che rimborso, estinzione di un debito. Da qualche parte però deve
esserci stato un cortocircuito: la Conferenza episcopale tedesca ha deciso di
non prestare più i propri “servizi”, dal battesimo al matrimonio all’unzione,
ai cattolici che non si registrano – in Germania ci si registra all’anagrafe
delle confessioni religiose – e non pagano quindi più la Kirchenaustritt,
una sorta di ottoXmille, che lì sarebbe una tassa ma è come un debito verso
Dio, e è dovuta, obbligatoria e non volontaria. La motivazione è stringente: il
nuovo Decreto ribadisce che non si potrà più fare la distinzione tra
appartenenza “civile” e appartenenza “spirituale” alla Chiesa cattolica. Sembra
riversarsi qui tutta una letteratura primeva del cristianesimo, edificante e
legata all’obbedienza all’autorità più che al messianesimo e alla speranza.
Clemente Romano, in una lunga preghiera, raccomandava di «obbedire a quelli che
comandano e guidano sulla terra» [Lettera ai corinti, 60,3-61,2]; san Cipriano
invitava a non dimenticare l’impero di cui si è cittadini [in Lattanzio, De
opificio Dei, I, 9]; Commodiano parla di «obbedire agli ordini di Cesare» [De
duobus populis, 81]. Le religioni mediorientali però erano chiare: tra le
tavolette trovate nella città hurrita di Hattusa – in quella che adesso è
l’Anatolia, più o meno dove poi regnarono gli Ittiti – vi è un Canto della
liberazione dal debito. Il dio Tessub ordina ai suoi fedeli di sollevare il
popolo di Ebla dal loro debito: «Se prenderete su di voi il debito di Ebla,
farò potenti le vostre armi. Vincerete sui vostri nemici e la vostra terra sarà
prospera. Ma se non cancellerete il debito di Ebla, la città del trono, nello
spazio di sette giorni sarò su di voi, distruggerò Ebla, e farò come se non
fosse mai esistita». Il Deuteronomio (Deut. 15: 1-2) è altrettanto diretto:
«Alla fine di ogni sette anni concederai la remissione dei debiti. E
questa sarà la forma della remissione: Ogni creditore condonerà ciò che ha dato
in prestito al suo prossimo; non esigerà la restituzione dal suo prossimo e dal
suo fratello, perché è stata proclamata la remissione dell’Eterno». E l’islam
esorta, senza farne un obbligo, a dilazionare il debito di un povero e
specialmente a trasformare il debito in una elemosina. Allah dice infatti
(Corano, 2: 280): «Chi è nelle difficoltà, abbia una dilazione… Ma è meglio per
voi se rimetterete il debito, se solo lo sapeste!» Nel 1994, Giovanni Paolo II
nella sua Lettera apostolica Tertio Millennio Adveniente aveva
circoscritto le cose alle loro dimensioni, proponendo il Giubileo del 2000
«come un tempo opportuno per pensare, tra l’altro, ad una consistente
riduzione, se non proprio al totale condono, del debito internazionale, che
pesa sul destino di molte Nazioni».
Dicono i
messicani che il Pacifico non ha memoria, ma non è vero
Il 21 maggio
1927 Charles Lindbergh atterra all’aeroporto Le Bouget di Parigi accolto
trionfalmente dopo aver attraversato l’Atlantico in solitaria senza scalo con
il suo piccolo aereo Spirit of St. Louis. È una classica impresa dello spirito
americano, della modernità: la sfida tecnologica alla natura che però comporta
coraggio e ardimento, l’individualismo – la traversata senza scalo era stata
già compiuta da una coppia di aviatori inglesi –, il trust finanziario che la
sostiene con intenti commerciali, il ruolo e l’importanza dei mass-media
nell’enfatizzare l’evento. Il volo – che fu davvero l’ossessione americana del
primo Novecento, e spiega il mito popolare di personaggi come Amelia Earhart e
Howard Hughes – fu seguito dall’intera nazione attraverso la stampa popolare e
la radio e fece di Lindbergh una sorta di Cristoforo Colombo all’incontrario:
lo Spirit of St. Louis era poco più e poco meno di una caravella. Era comunque
già un curioso rovesciamento: la frontiera, l’ignoto, la terra promessa era
sempre stata a ovest, e ora si guardava verso est. L’oceano atlantico non era
il wild west, non era una terra fertile, una prateria colonizzabile. Gli
americani potevano ricongiungersi così facilmente all’Europa e
l’Atlantico diventava addomesticato. Eppure, le loro radici europee sono sempre
state non un elemento d’identità e di appartenenza ma di differenziazione, di presa
di distanza, a cominciare dai Fathers Founders e dai primi emigranti in
fuga. Qualche anno fa, sul «New York Magazine» veniva presa in considerazione
tra il serio e il faceto l’ipotesi di una Repubblica autonoma di New York, a
partire dalla diffidenza, quando non dal disprezzo, che l’America profonda
sente verso la Grande mela, covo di intellettuali, ebrei e fautrice di un modo
di vita «così europeo». Nell’articolo, Thomas Frank, autore di What’s the
Matter With Kansas?, argomentava che questi sentimenti avevano le loro
radici nei movimenti populisti di fine Ottocento, quando i newyorkers erano
considerati come dei parassiti, buoni a nulla. In Complotto contro l’America
[The Plot Against America, 2004], Philip Roth precipita la storia
americana in un incubo inventando un confronto elettorale nel 1940 tra Franklin
Delano Roosevelt e Lindbergh, da cui questi risulta vincente. Lindbergh
proclama la neutralità americana nel conflitto mondiale scatenato dal Terzo
Reich e stringe un patto di non aggressione con Hitler e l’imperatore Hirohito
del Giappone. I rimandi del romanzo sono plurimi. Anzitutto a Qui non è
possibile [It Can’t Happen Here, 1935] di Sinclair Lewis, in cui
s’ipotizzava che nelle elezioni presidenziali del 1936 vincesse un demagogo
populista che avrebbe imposto negli Stati Uniti un regime nazifascista. E anche
a La svastica sul sole [The Man in the High Castle, 1962] di
Philip K. Dick, in cui Hitler e l’impero giapponese hanno sconfitto gli alleati
nella Seconda guerra mondiale, diffondendo il nazismo nel mondo intero e
l’America, che si è mantenuta neutrale, è ora divisa in tre stati, la costa
orientale [sotto controllo tedesco], quella occidentale [controllata dai
giapponesi] e quello delle Montagne Rocciose, che fungono da cuscinetto. Però,
mentre i romanzi di Sinclair e Dick sviluppano la loro narrazione in un tempo
parallelo inventato, Lindbergh era davvero antisemita e simpatizzava per il
nazismo e l’impero nipponico e propugnava il neutralismo americano. Fondò, nel
1940, l’America First Committee per contrastare la linea interventista di
Roosevelt, che peraltro aveva un largo seguito popolare: parlò contro
l’intervento americano nella guerra europea – sostenendo che gli Stati uniti vi
fossero trascinati dagli ebrei – fino al dicembre del 1941 quando, in seguito
all’attacco a Pearl Harbour, gli Stati Uniti dichiararono guerra all’Impero
giapponese. Pearl Harbour è il vero incubo americano: l’attacco dal Pacifico,
l’Oriente. Nell’immaginario americano la Seconda guerra mondiale è soprattutto
una guerra contro il pericolo da est, il pericolo giallo: è la foto – in posa,
e non spontanea – dei marines che piantano la bandiera a stelle e strisce su
quel che resta dell’isolotto di Iwo Jima [a cui qualche anno fa Clint Eastwood
ha dedicato due film, Flags of Our Fathers e Letters from Iwo Jima,
2006, con due sguardi contrapposti] l’immagine che sintetizza la fine del
conflitto – come per noi europei è la foto – in posa, e non spontanea – della
bandiera sovietica sul Reichstag. È la firma dell’imperatore Hirohito sulla
corazzata USS Missouri, ancorata nel Pacifico, il momento in cui la guerra può
dirsi conclusa – immagine che riprese George W. Bush per dichiarare
improvvidamente la vittoria nel conflitto contro il terrorismo proprio da una
corazzata. La grande battaglia americana che determinò una svolta nella Seconda
guerra mondiale è quella delle Midway, nelle acque sterminate del Pacifico,
mentre per noi europei la battaglia determinante fu Stalingrado, in una forma
che sintetizza secoli di guerre continentali, di fanterie che avanzano e si
attestano, di trincee scavate nella terra, di attese logoranti, di massacri
casa per casa, muro dopo muro, porta dopo porta. Ed è sul Pacifico, contro
Hiroshima e Nagasaki, che gli Americani sganciano le loro bombe nucleari,
esibizione di una potenza ormai illimitata. È il Pacifico il limite ostile
degli americani, la frontiera insormontabile oltre la quale non c’è una terra
amica, un atterraggio trionfale. Il Pentagono sta dislocando in acque
internazionali, partendo dal Golfo Persico verso est, apposite navi che fungono
da basi galleggianti per le forze speciali. Altre basi aree e navali vengono
installate o potenziate in Thailandia, Filippine, Singapore, Australia e altri
paesi. A Singapore è arrivata la prima «littoral combat ship», una nuova nave
da guerra che si può avvicinare alla costa per attaccare in profondità. La U.S.
Navy ne dislocherà nel Pacifico oltre cinquanta.
Nell’offensiva
diplomatica, per creare fratture tra la Cina e i paesi limitrofi, la Clinton
sta effettuando decine di visite. L’Europa non “gode” di uguale attenzione. Gli
Americani si sono sempre tenuti alla larga dall’Europa – tutt’al più siamo il
loro Erasmus –, dove non si sono mai sentiti a casa, a parte il periodo
incantato degli anni Venti. Quello della fuga da un insopportabile e opprimente
provincialismo e bigottismo, mitizzato da Woody Allen nel suo Midnight in
Paris, con Gertrude Stein al centro di un salotto intellettuale raffinato e
appassionato e avido di sensualità, dove ruotano Ernest Hemingway e Francis
Scott Fitzgerald, in compagnia di Zelda, incontrando la crema della genialità
europea, da Picasso a Buñuel, e, in un gioco temporale, Lautrec e Zola.
L’Europa non
è mai stata così sola.
I cosacchi
non hanno abbeverato i loro cavalli alle fontane di san Pietro
Dopo l’89,
dopo il crollo del muro di Berlino e della cortina di ferro e lo sfaldamento
del socialismo all’est, il mondo ha perso ogni assialità di riferimento, di
schieramento. Il confronto e il conflitto fra est e ovest, fra il blocco
sovietico e quello occidentale, fra il socialismo e il capitalismo, fra lo
statalismo e il mercato avevano segnato il secolo. È stata la nostra iattura,
di noi europei dico: prima avevamo un ruolo nel mondo, fare da argine al
comunismo sovietico ed eventualmente essere la steppa invasa dai suoi cosacchi.
Il fondamentalismo islamico, che ha sostituito il comunismo come ideologia del
pericolo per l’occidente, non ha edificato un’eguale simmetria. Il
fondamentalismo non ha una patria specifica – come era l’Unione sovietica per
il socialismo – da cui si irradia, un territorio identificabile, e quindi non è
fronteggiabile con un muro, una linea Maginot, una catena di missili puntati, una
guerra fredda: il fondamentalismo islamico può essere ovunque e conduce una
guerra asimmetrica. Il comunismo era speculare e opposto al capitalismo, gli
contendeva il “discorso” sulla produzione, il lavoro e la distribuzione della
ricchezza; il fondamentalismo è altro. Il capitalismo – benché spesso certi
suoi epigoni ne sembrino convinti – non è una religione, come non lo è
l’occidente. È questa l’asimmetria. L’occidente tecnico e nichilista non può
condurre una guerra religiosa, perde misurandosi su questo terreno. Se è così,
non possono esistere territori cuscinetto, continenti da conquistare
ideologicamente e su cui installare testate e depositare battaglioni sempre
allertati. A ridosso della Grande depressione del 1929, centinaia di migliaia
di americani chiesero di poter andare in Unione sovietica: una parte di essi
era in cerca di lavoro – tecnici, operai specializzati, laureati di saperi
scientifici – ma la quasi totalità partirono con mogli e figli per
convincimento, per aiutare a edificare il socialismo e goderne [scomparvero
risucchiati nelle purghe staliniane e nei lager]. Dove andrebbero oggi gli
americani che abbracciano la fede fondamentalista? Agli ultimi Emmy Awards ha
stravinto Homeland, una produzione televisiva americana centrata sulla caccia
di un agente Cia, che soffre di bipolarismo, nei confronti di un marine, che è
stato prigioniero di al Qaeda in Iraq ma che si sospetta faccia parte ora di
una cellula di estremisti islamici che prepara un attacco all’America. Prima
dell’89, prima della fine di una lettura araba della mappa del mondo dei
conflitti da destra verso sinistra, da est verso ovest, il sud del mondo aveva
provato a ritagliarsi un proprio spazio fuori dalla morsa della guerra fredda
dove nulla fosse demonizzato e tutto potesse essere messo alla prova: Nasser e
il panarabismo, Tito e la Jugoslavia, le voci del Terzo Mondo nonallineate che
si riunivano e provavano a costituire un polo di cooperazione. Era un mondo di
speranze, sottoposto a pressioni terribili ma anche a vantaggi e sostegni da
chi poteva considerarli propri amici in quanto nemici dei propri nemici – i
princîpi della guerra continuavano a vigere. Quel mondo doveva tenere assieme e
svolgere diversamente modernizzazione e democrazia, produzione e distribuzione,
autogoverno e alleanze, sotto un’accelerazione temporale impressionante. I
processi si sono invece separati e ostacolati, finendo in una scala di
priorità: la modernizzazione si poteva solo a scapito della democrazia, la
produzione solo a scapito della distribuzione e via così. Ne sono venute
tirannie o accumulazioni primitive di neocapitalismi. Il sud del mondo non è
diventato un’alternativa. D’altronde non poteva esserlo al capitalismo né al
comunismo: poteva funzionare attrattivamente solo in presenza di entrambi, come
una combinazione o una possibile evoluzione. Nel riflusso, nella deriva, nella
perdita, il sud è diventato orfano di uno dei genitori, disconoscendo però
l’altro come tutore. Ci sono biografie che valgono tutta una storia: Rachid
Ghannouchi, leader del partito islamista Enhada che ha vinto le recenti
elezioni in Tunisia, le prime dopo il regime di Ben Ali, era da giovane un
nasseriano panarabista, poi ha studiato alla Sorbona e ha amato Sartre e Fanon
e i suoi dannati della terra, poi è stato in carcere a lungo sotto Ben Ali,
adesso propugna un islam che sappia intrecciarsi con la democrazia. È difficile
dire cosa accadrà in Nord Africa e nel Medio Oriente: probabilmente accadrà di
tutto. Fenomeni diametralmente opposti si contrappongono dopo essere stati
vicini: le primavere arabe sono state rivolte contro le tirannie, e non sempre
quando ci si batte per disperazione è chiaro quale sia il percorso della
speranza, come non sempre quando rimuovi ciò che ostruisce un flusso, sai che
forma prenderà l’effluvio che era bloccato. Mohammed Bouazizi, il giovane
ambulante che si diede fuoco dando inizio alle rivolte del Nord Africa, trovava
tutto ormai intollerabile, insopportabile, impossibile da vivere. Si sottraeva,
se ne andava, nel modo più radicale possibile, senza cercare un altrove – non
ci sono più altrove per il sud, deve vivere o morire presso di sé. La forza
radicale delle trasformazioni dovrà trovare un punto di equilibrio, perché non
possono convivere fenomeni così distanti e opposti, lacerandosi, ostruendosi,
combattendosi. È però troppo presto, e troppo presto si è provato a chiudere il
cerchio: i militari – punto di forza del regime di Mubarak – non possono essere
il punto di equilibrio in Egitto, Mahmoud Jibril – a lungo compromesso con Gheddafi
– non poteva essere il punto di equilibrio in Libia. Non fu Gorbaciov a fermare
i carri armati della restaurazione dei militari sovietici, ma Boris Eltsin. È
così che vanno le cose. E non sempre finiscono meglio. L’Europa non è mai stata
così debole. Così insignificante. Poteva giocare una partita importante per
ritrovare se stessa nel Mediterraneo. Ma alla Germania – che fa la politica
europea d’oggi – non interessa il Mediterraneo, non cerca più, come Goethe,
mehr licht e il Grand Tour, che tutt’al più si ferma a Rimini e l’Adriatico.
L’occidente è ormai solo l’America. E anche il Mediterraneo non è mai stato
così solo.
Lo
stoccafisso unisce il Mediterraneo ai mari del Nord, tutto il resto ci divide
I paesi
europei con un debito pubblico eccessivo, e i cui titoli sovrani faticano a
trovare acquirenti, se non pagando interessi spropositati, in un momento in cui
chi già li possiede in quantità tende a disfarsene per il timore di un continuo
deprezzamento e di un’insolvenza incombente, sono mediterranei e cattolici –
Italia, Spagna, Portogallo – o ortodossi – Grecia e Cipro. I paesi europei che
hanno un debito pubblico non allarmante e un rapporto d’esso con il Pil in
linea con i parametri di Maastricht, e i cui titoli sovrani trovano facilmente
acquirenti anche se gli interessi sono addirittura negativi, sono nordici e
protestanti – Germania, Olanda, Finlandia. Se al gruppo dei paesi indebitati
fino al collo, che sono tutti mediterranei, aggiungiamo l’Irlanda, che
mediterranea non è, sappiamo però che cattolica lo è di sicuro. Il tratto
dominante della faglia che sta spaccando l’Europa è quindi solo
cartograficamente una spaccatura tra il nord e il sud. Invece, più
profondamente è una separazione religiosa. Tra protestanti e cattolici. Quelli
dell’orribile acronimo Piigs, sono cattolici, i virtuosi che chiedono più
rigore e manifestano perplessità a operare salvataggi, quelli della tripla AAA
sono invece protestanti. L’Europa ha già vissuto nel Seicento questa
separazione e questo conflitto nella lunga Guerra dei Trent’anni tra l’Impero
spagnolo e l’Olanda [e i principi tedeschi e la Svezia], a cui la pace di
Westfalia pose termine adottando la regola cuius regio, eius religio –
che ciascun territorio abbia una sua religione – che a noi oggi può sembrare un
banale principio di tolleranza, come consentire che ciascuno si circoncida se
lo crede, ma che allora significò la risistemazione del potere politico – la
Catalogna, il Portogallo, le Fiandre conquistarono l’indipendenza mentre nel
Sud Italia scoppiò la rivolta di Masaniello – e soprattutto dell’economia
europea. La nuova spaccatura europea ruota intorno la moneta unica di
riferimento, che ha sostituito nei nostri cuori e nelle nostre menti la
religione unica di riferimento, e dentro una crisi finanziaria che a quella del
Seicento somiglia per tanti versi, soprattutto per quel che riguarda l’Impero
spagnolo, sempre più in penuria dell’oro e dell’argento delle colonie, con una
tecnocrazia dispendiosa e presa tutta dalle sue dinamiche intestine nella
capitale unica di riferimento, una casta politica sparsa nelle regioni
inzeppata di privilegi, una produzione in rallentamento e quasi allo sfascio, e
una tassazione minuta fatta di rendite e gabelle divenuta insopportabile e che
non lasciava nulla ai ceti territoriali in ascesa contro l’immobile e parassita
baronia. La nuova pace di Westfalia arriverà rompendo la sacralità della moneta
unica sancendo il principio cuius regio, eius moneta – si chiama così il
nostro equivalente generale di scambio perché la prima zecca romana fu posta
sotto la protezione del tempio di Giunone moneta, dal latino monere,
cioè ammonire avvertire, il denaro è un ammonimento –, a ogni territorio
corrisponda una propria moneta? Non potremmo arrivarci evitandoci il flagello,
un massacro – che oggi per fortuna non ha il carattere della morte in
battaglia, ma quello della disoccupazione di massa, che ha già raggiunto – non
in Germania, certo, gli eventi non si ripetono mai eguali – i livelli dopo la
Prima guerra mondiale?
Due fantasie
letterarie: gli Stati uniti d’Austria e quelli d’Europa
Agli inizi
del Novecento, un gruppo di intellettuali austriaci si era preso la briga di
proporre all’arciduca Ferdinando – proprio quello su cui il serbo Gavrilo
Princip svuoterà poi a Sarajevo il caricatore della sua rivoltella dando inizio
alla Prima guerra mondiale – la trasformazione dell’Impero austro-ungarico in
Stati uniti d’Austria. E quello rimane – sulla carta, perché, come si sa, le
cose andarono da tutt’altra parte, con la Finis Austriae e la formazione
di repubbliche e monarchie indipendenti – l’unico progetto europeo di costruire
pacificamente, in una lunga storia che non ci ha risparmiato guerre e
annessioni e invenzioni di nazionalismi, una federazione di Stati. L’unico
esempio storico – un progetto! – del percorso che il dibattito fra le
cancellerie europee d’oggi sembra far riemergere. L’Impero austro-ungarico era
costituito da territori che oggi appartengono a tredici stati europei,
dall’austriaca Vienna alla rumena Transilvania, dalla boema Praga alla serba
Vojovodina, dalla polacca Galizia all’italiana Trieste, dall’ucraina Leopoli
alla slovacca Brno. Vi si parlavano undici lingue e si professavano tutte le
religioni, con una preponderanza cattolica, una forte presenza protestante e
ortodossa, e importanti enclave musulmane e ebraiche. Austria e Ungheria
avevano costituzioni, parlamenti e ministeri separati, ma per la politica
estera e quella economica i ministeri competenti erano in comune. Le questioni
finanziarie e di bilancio erano regolate da trattati decennali rinnovabili. E
c’era un’unica moneta, che valeva da Trento a Cracovia passando per Budapest:
la corona. Nonostante il bel Danubio blu e tutta la nostalgia di Claudio Magris
per la Felix Austria e il Biedermeier, l’Impero era fondato su un
evidente squilibrio di potere fra l’Austria e le altre nazionalità – fra il
centro e le periferie – che premevano per una maggiore autonomia e per
l’indipendenza: la guerra, attraversata peraltro da conflitti di classe
fortissimi, con la spartizione delle spoglie, ne fu l’orribile occasione.
L’Austria – il motto imperiale degli Asburgo era un vocalizzo, AEIOU: Austriae
Est Imperare Orbi Universo, Spetta all’Austria governare il mondo – si
ridusse a un territorio molto circoscritto e finì, fino ai nostri giorni, con
l’essere risucchiata, come una provincia tedesca, nell’orbita rassicurante e
prepotente della Germania, proprio quello che era stata sempre la sua
ossessione e il suo incubo. Io non so se Robert Musil nel suo straordinario L’uomo
senza qualità – forse la fine degli imperi sono i periodi più fecondi della
letteratura europea, perché smontano e rifondano la modernità e il suo
racconto, almeno da Cervantes in poi –, descrivendo le inutili e verbose
riunioni dell’Azione parallela, pensasse proprio al progetto degli Stati uniti
d’Austria e a quell’appassionato quanto inconcludente manipolo di
intellettuali. Certo, la Cacania, come Musil nominò il territorio dove
non-agiva l’Azione parallela – tutti i principi di film hollywoodiani, almeno
finché gli emigrati europei vi ebbero un ruolo, che si innamoravano di
ballerine, o viceversa tutte le principesse di improbabili spiantati venivano
da regni lontani il cui nome risuonava sempre questo, Kakania –, somiglia
troppo all’Impero asburgico, per essere altro. Eppure, proprio questo a me
sembra fosse il punto del progetto degli Stati uniti d’Austria: si sovrapponeva
cartograficamente all’Impero, lasciando le cose com’erano eppure trasformandolo
in qualcosa di radicalmente diverso. Che è un po’ quello che potrebbe capitare
all’Europa nel volgere di questa crisi, passando dalla Comunità europea a una
Federazione di Stati – gli Stati uniti d’Europa? –, dove l’unione fiscale,
l’unione bancaria, l’unione monetaria sono with strict and effective. Il
monito di Kohl – «La Germania è a un bivio: o europeizzare la Germania o
germanizzare l’Europa» – all’indomani dell’unificazione con l’Est per far
digerire ai tedeschi l’euro suona ancora irrisolto e inquietante. George Soros,
il capo di uno dei più grandi fondi di investimento del mondo, ha posto un
quesito diverso e simile in un lungo articolo pubblicato contemporaneamente dai
più importanti giornali d’Europa, in cui si mostra preoccupato per la
spaccatura e lo squilibrio tra paesi creditori e debitori, tra un centro e
progressive periferie: «[…] persuadere la Germania a scegliere tra queste due
strade: mostrarsi un paese egemone solidale con l’Unione, oppure uscire
dall’euro. In altre parole, la Germania deve guidare l’Europa o uscire
dall’Europa». Che la Germania esca dall’euro è una fantasia ricorrente, ma è
con ogni evidenza – può mai esistere un’Europa senza la Germania? – una domanda
retorica la cui risposta è obbligata: la Germania deve guidare l’Europa.
Ecco, a volte sembra che gli Stati uniti d’Europa che in tanti vanno agognando
siano assimilabili a una germanizzazione dell’Europa, a una nuova
costituzionalizzazione formale di ciò che materialmente è già nelle cose,
ovvero all’Impero austro-ungarico modificato negli Stati uniti d’Austria.
Sacro e
profano
Ora, questa,
della frattura religiosa intraeuropea, che qui si rileva può essere solo una
suggestione, anche se Stephan Richter in un suo articolo ripreso dal «Corriere
della Sera» afferma che «troppo cattolicesimo è un guaio per la salute fiscale
delle nazioni» e che ci fosse stato Lutero a Maastricht avrebbe salmodiato:
«Read my lips. No unreformed Catholic countries». Figurarsi, una suggestione
può valere un’altra: il professor Cassano – illustre mente meridionalista e
mediterranea – s’è fatto convinto, come Montesquieu, e vuol convincerci che il
clima sia il fattore centrale delle evoluzioni antropologiche – l’economia, le
forme del vivere comune, le leggi – e quindi, presumibilmente la frattura
produttiva e creditizia oggi sta fra lo scirocco e i gelidi venti del nord.
Epperò, c’è una gran parte del pensiero laico europeo e mediterraneo – e
italiano in special modo, lo si è letto diffusamente nella ricorrenza dei 150
anni – che crede, forse sulla scorta di Gibbon che considerava il cristianesimo
come la causa della fine dell’Impero romano o di Machiavelli che individuava
nella religione cattolica quell’indebolimento e infragilimento delle virtù
repubblicane romane e pagane che impedivano una risoluta azione verso
l’unificazione delle italiche genti, che la nostra palla al piede e nel
processo politico che ci ha portato all’Unità del paese e nello sviluppo
capitalistico sia stata proprio nella mancata riforma protestante. Il laicismo
europeo ha sempre fatto propria l’idea che il capitalismo sia davvero figlio del
protestantesimo – e dell’oculatezza del risparmio e dell’iniziativa individuale
e del rischio e dell’innovazione che è figlia dell’apertura mentale alla
ricerca e alla scoperta scientifica – mentre lo statalismo, assistenziale e
paterno e padronale, intanto che siamo ancora convinti che il sole giri intorno
la terra, non abbia fatto altro che sostituire una forma di unione sociale
eternamente immobile e assoggettata intorno la Chiesa, a un’altra identica,
intorno lo Stato. La crisi starebbe spazzando via ogni residua illusione di
rendita. Sul «Sole 24 ore», Guiso e Herrera scrivono: «Noi sosteniamo da tempo
che le difficoltà nel management della crisi europea, e in particolare
l’atteggiamento della Germania, riflettano le profonde differenze nelle norme culturali
e nelle convinzioni che regolano i rapporti tra le persone in Germania [e nel
Nord Europa] rispetto alla Grecia [e nell'Europa mediterranea]. In Germania
prevale una cultura della cooperazione e della punizione sociale che richiede
ai cittadini non solo di contribuire direttamente al bene pubblico ma impone
loro il dovere di punire chi non vi contribuisce. In Germania l’economia è
[ancora] parte della filosofia morale, per cui la crescita non è il portato
delle politiche keynesiane di sostegno alla domanda ma il premio a
comportamenti virtuosi». Sarà una suggestione, la mia, nient’altro, eppure per
esplicitare il senso delle varie “riforme” che il nostro governo tecnico ha
varato o ha in animo di varare si fa riferimento a una serie di “valori” – il
merito individuale, l’ingiustizia di vivere al di sopra dei propri mezzi, la
sobrietà invece della ritualità fastosa, il rovesciamento dei diritti acquisiti
in diritti da meritarsi, la vacuità della lamentela per un lavoro che non si
trova e che invece sarebbe abbondante basti solo rimboccarsi le maniche, la
critica a tutti quei privilegi sociali che non solo non avrebbero più ragion
d’essere ma hanno un che di simoniaco e di diabolico, e amenità di questo
genere – che nella loro neutralità a volte sono condivisibili ma hanno spesso
il tenore di 95 Tesi affisse al portone della chiesa di Wittenberg. La prima
delle Tesi di Lutero diceva così: «Il signore e maestro Gesù Cristo volle che
tutta la vita dei fedeli fosse una penitenza». Non solo: come si ricorderà, lo
scontro era intorno alla questione dell’obolo, se bastasse pagare per ottenere
l’indulgenza e l’assoluzione. Per Lutero, non era così: bisognava espiare. La
Tesi 94 dice: «Bisogna esortare i cristiani perché si sforzino di seguire il
loro capo Cristo attraverso le pene, le mortificazioni e gli inferni». E la
Tesi 4: «Rimane cioè l’espiazione sin che rimane l’odio di sé (che è la vera
penitenza interiore), cioè regno dei cieli». È a questa “espiazione” – Atonement
era il titolo del bel libro di Ian McEwan intorno ai sensi di colpa che durano
una vita, senza mai perdono –, a quest’odio di sé – avremmo troppo ballato
sull’orlo dell’abisso, avremmo sprecato e dissipato – che suggestivamente
sembrano richiamare oggi, a noi mediterranei e cattolici, i protestanti del
Nord. Quello che è curioso, storicamente curioso, è che lo scontro di civiltà
che avrebbe dovuto politicizzare le società occidentali democratiche contro
l’islam in realtà non c’è stato. Invece, lo scontro di civiltà – riecheggiando
Benedetto Croce, il Cristianesimo è la più grande rivoluzione occidentale e non
se ne può prescindere – sembra posizionarsi all’interno dell’Europa, ma non
contro l’Altro, ma tra noi stessi. Come è per lo più nostro costume e storia.
Una Controriforma potrebbe allora essere necessaria – un movimento di opinioni
e di proposte che sia religioso senza essere fideista – che sappia
intrecciare l’attenzione sociale alle povertà provocate da questo regime che
considera l’uomo solo in quanto lavoro e il suo merito solo in misura dei suoi
successi e la colpa, il peccato, il debito, come dovuti ai suoi insuccessi, con
la cura democratica contro l’espropriazione verticista delle decisioni. Una
Controriforma che riposizioni il materiale e l’immateriale, il sacro e il
profano, i diritti e i doveri, la politica e la religione, in forma non
teocratica – rendendo progressivo il più grande sommovimento rivoluzionario che
ha traversato il mondo negli ultimi decenni, la sollevazione del mondo islamico
dalla comparsa di Khomeini.
L’amore per
il denaro può essere una virtù teologale?
Nell’autunno
2011, è stato reso noto il documento del Pontificio Consiglio
della Giustizia e della Pace, dal titolo: Per una riforma del sistema
finanziario e monetario
internazionale
nella
prospettiva
di un’autorità pubblica
a competenza universale. A mio giudizio, è il più
importante testo politico sinora apparso sulla crisi finanziaria. È scritto in
maniera facilmente comprensibile, ha una cornice filosofica [teologica] di
spessore che regge tutto l’impianto di analisi ed è il cuore del documento,
valuta aspetti tecnici senza perdersi in tecnicismi, prospetta delle proposte
concrete a breve termine e infine avanza un progetto di lungo respiro. Come in
altri ragionamenti correnti, si addita la spaccatura che sarebbe avvenuta tra
economia materiale [le merci] e economia immateriale [la finanza, il denaro]:
nella prima il mercato avrebbe comunque continuato a funzionare trovando
equilibrio e stabilità, nella seconda c’è stato il disastro. Invece, io credo
piuttosto che l’occidente viva una crisi di produzione, di produzione di merci,
di produzione di senso e di produzione di valore. La relazione tra produzione
di massa, occupazione di massa e consumo di massa che è stato il volano del
Novecento e della sua democrazia si è spezzata per una doppia spirale
speculare: l’introduzione delle tecnologie risparmia-lavoro e il rifiuto del
lavoro di farsi disoccupazione, massa disoccupata. La prima non riesce più a
produrre ricchezza, non consente al capitale di fare profitti, perché questi
sono garantiti solo negli stadi più vicini al consumo e meno garantiti in
quelli più lontani; il secondo non è riuscito a uscire dalla condizione di
precarietà e a conquistare uno statuto del reddito, e quindi del consumo. Siamo
cioè dentro una doppia debolezza di “programma”, del capitale e del lavoro.
Così, il capitale continua a comprimere i diritti del lavoro, come se lì stesse
la salvezza, il lavoro continua a resistere sui margini del capitale, come se
lì stesse la salvezza. La debolezza di programma del capitale e del lavoro di
produrre ricchezza e benessere si è riversata sui mercati e sulla società
intera. Il capitale e il lavoro [il mondo materiale] non sono scomparsi, ma le
loro reciproche “ambizioni”, e quindi il loro conflitto, si è marginalizzato.
Noi non viviamo né una crisi di sottoconsumo né di sovrapproduzione. La
crescita non sarà economica sinché non sarà politica. Il «New York Times» ha
intervistato alcuni operatori di Wall Street su cosa pensassero della protesta
di Zuccotti Park e Paul Krugman in un suo op-ed riporta, scandalizzato, la
frase di uno di loro: Financial services are one of the last things we do in
this country and do it well. Let’s embrace it – «I servizi finanziari sono
una delle ultime cose che sappiamo fare bene in questo paese. Sosteniamoli».
Trovo questa frase emblematica nella sua crudezza, perché racconta delle
delocalizzazioni scriteriate, della difficoltà di competizione con i paesi
emergenti, dello sperpero delle capacità e dei talenti dei lavoratori
occidentali accantonati o spremuti in mansioni che spesso si rifiutano di
compiere. E pure del fatto che l’unica cosa in cui l’occidente sia riuscito
bene in questi ultimi vent’anni sia stata produrre denaro, produrre ricchezza.
La grande finanza c’è sempre stata [i mitici Rotschild, gli gnomi svizzeri], ma
non aveva mai prodotto ricchezza diffusa. La grande trasformazione
dell’occidente, nell’ultimo scorcio del secolo scorso, è stata quella di
spostarsi progressivamente verso la produzione di denaro [valore] e di
ricchezza, piuttosto che la produzione di merci, compito questo che è stato
delegato prima [con le delocalizzazioni] e assunto poi dai paesi in sviluppo:
sono loro, la Fabbrica del mondo. L’occidente è diventato la Borsa del mondo, e
si è dedicato alla valorizzazione dei beni. È stata questa crescita del valore
che ha prodotto questa stratosferica quantità di ricchezza, con cui si è
comprata una altrettanto stratosferica quantità di beni. Ha vinto la sua
“narrazione”, il suo “programma politico”. Per dire, con la crescita di valore
“inventato” delle case e la ricontrattazione delle relative ipoteche, clienti
classificati come insolventi, a cui nessuno avrebbe venduto neppure uno
spazzolino per il cesso, hanno potuto invitare gli amici a un barbecue,
sistemare i denti ai figli, prendere i biglietti per la partita dei Mets. E
questa è vita, ragazzi. La finanza globale è stata l’unica risposta all’impasse
del conflitto tra capitale e lavoro, tra nuove tecnologie e rifiuto del lavoro.
Ed è stata vincente e convincente per il capitale, che si è finanziarizzato, e
per il lavoro, che si è simbolizzato e matematizzato [ha con il linguaggio
matematico e informatico provato a contenere il rischio, l’incertezza, il
futuro – cosa che non c’entra nulla con la techné, che indispettisce i
consiglieri pontifici, e che più umana non c’è]. La crisi finanziaria
dell’occidente è crisi politica del valore diffuso. Lo si intuisce più
chiaramente pensando alla crisi dei debiti sovrani: il debito pubblico è
politico. Ristabilizzare i valori delle cose può accadere, secondo le ricette
degli economisti, per deflazione [è quello che sta succedendo] o per inflazione
[è quello che potrebbe succedere]. In realtà, stiamo vivendo una vera
schizofrenia della politica: da un lato controlla l’inflazione e dall’altro
inietta tutta la liquidità necessaria nel sistema finanziario per impedirne il
collasso. La schizofrenia ha preso il posto del conflitto. Il tentativo
è questo: cercare di ristabilire il valore di scarsità del capitale in un mondo
dove questo valore si è diffuso, ovvero si è deprezzato. È il conflitto – e non
la guerra, speriamo e preghiamo – che ristabilirà il valore delle cose. Il
valore dei prezzi: a partire dal lavoro. Poco convincente, a mio avviso, nel
documento pontificio è la sottolineatura del bisogno d’etica per uscire dalla
crisi. Come viene detto: «un discernimento e una valutazione di tipo etico».
L’etica dovrebbe stare al posto suo, anche se non so bene quale sia. Il
liberismo ha vinto perché ha agito su quello che Keynes definiva «l’amore per
il denaro» [«Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudomorali che ci
hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo
esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il
coraggio di assegnare alla motivazione “denaro” il suo vero valore. L’amore per
il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per
godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione
morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà
patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di
malattie mentali», Economic Possibilities for our Grandchildren,
Conferenza tenuta da Keynes a Madrid nel giugno del 1930]. Ma il liberismo non
è in crisi perché è risultato falso che il sommum bonum avvenga
attraverso l’utile individuale. Figurarsi se a Londra o Francoforte o New York
o Hong Kong pensano a Bentham e Bastiat quando aprono le Borse. Non è in crisi
perché l’amore per il denaro [per il benessere che il denaro può permetterci di
avere per noi e i nostri figli] è venuto meno, semmai il contrario, perché come
in una piramide o uno schema Ponzi ha illuso – e le illusioni sono potenze
creative – che tutti potessero appagarlo. È da qui che dobbiamo ripartire, dal
desiderio, non dall’astinenza, non dalla redenzione penitente dal peccato e
dalla colpa. Altrimenti, dovremmo cominciare a guardare alla sharia e alle
banche islamiche come a un ideale. Diciamo che, sul denaro e sul bene, tengo un
riferimento più terra terra: «Non partirsi dal bene potendo, ma sapere entrare
nel male, necessitato» [N. Machiavelli, Il Principe, XVIII, 15]. Poco
convincente ancora è la proposta di regole e controlli sul mondo della finanza.
Io continuo a non capire come sia possibile mettere sotto controllo il denaro
[la circolazione] senza mettere contemporaneamente sotto controllo la
produzione e lo scambio. E questa storia [il socialismo reale, le
nazionalizzazioni] si è dimostrata fallimentare. E non credo che la sua
versione cinese, rivisitata e corretta, sia un buon modello. Dirò, infine, cosa
trovo più condivisibile, ovvero la necessità di una Conferenza mondiale – una
Conferenza di pace la definirei perché gli effetti devastanti che la crisi ha
prodotto, produce e potrebbe produrre somigliano a quelli di una guerra – tra
le nazioni per fare delle cose. Non credo in una permanente Autorità politica
globale come suggerisce il documento pontificio – sebbene siano da
sottoscrivere le critiche ai regionalismi e ai nazionalismi autarchici – ma c’è
assoluta necessità di uno “spirito” che vada oltre i vertici G20 e G8 di
“aggiustamento”.Sarà uno spirito santo? Avrà la forma di un piccolo aereo
bimotore? Aleggerà sul Mediterraneo?
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Malpaso Productions, Amblin Entertainment, Warner Bros. Pictures, DreamWorks
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- Eastwood Clint, Letters from Iwo Jima, 141 minutes, United States,
Malpaso Productions, Amblin Entertainment, Warner Bros. Pictures, DreamWorks
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Caro Franco,
RispondiEliminail post che proponi dà una lettura interessante della crisi euromediterranea in chiave, diciamo, confessionale. Gli stati dell'Europa del sud cattolico VS gli stati del nord Europa protestante. Una rispolverata a teorie datate circa il mancato sviluppo del capitalismo negli stati cattolici del sud europeo proprio a causa dell'assenza della Riforma. Una virata rispetto allo scontro mondo cristiano occidentale VS mondo islamico in chiave intraeuropea. O, forse, sub universo di un conflitto interreligioso che ha la sua origine prodromica nella Rivoluzione iraniana e nella resistenza dei Mujhaddin all'invasione sovietica
ossia preambolo al crollo del mondo bipolare in preparazione di future antinomie. La proposta, o meglio, la provocazione potrebbe essere uno stimolo ad opporsi all’imposizione di un regime economico, quale quello incarnato in Italia dal governo Monti, a monte (!) del quale ci stanno le 95 Tesi di Wittenberg, con una “Controriforma” sociale che respinga la riduzione dell’uomo alla sola sfera produttiva asservita al capitale, e alle sue dinamiche sistemiche riassorbite in quelle dell’etica protestante: successo – merito, colpa – espiazione, fallimento – peccato, etc. Solo che, alla fine, si propone una sorta di “conferenza mondiale” di che? Di cosa? Di come? Non è chiaro. Maah..la lettura è piacevole.
Many thanks.
Fab