05 ottobre 2012

I DEMONI DEL POTERE









Sottoponiamo alla vostra attenzione la recensione dell’ultimo libro di Marco Rovelli pubblicata oggi da La Repubblica:


 Roberto Esposito - Civiltà barbarica








Il nuovo libro di Marco Revelli, I demoni del potere, appena edito da Laterza, si apre e si chiude su due immagini estreme dell’attuale crisi greca. All’inizio quella di un uomo, con un megafono in spalla e una tanica di benzina in mano, che si dà fuoco – il tutto sullo sfondo di un’Atene ridotta alla fame come il Biafra o il Burkina Faso. E alla fine, la notizia, altrettanto devastante nella sua oscena abnormità, di un principe del Qatar che ha comprato, per il prezzo stracciato di 5 milioni di euro, Oxia, una delle più belle isole dell’arcipelago delle Echinadi, ad appena 38 chilometri da Itaca. Già questa sinistra corrispondenza restituisce la potenza drammatica di un testo capace di scuotere la coscienza del lettore, spingendolo a diretto contatto con la vita offesa dei nostri giorni. Ma esso non si limita a rappresentare la crisi in forma orizzontale, sincronica – mettendo a confronto tragiche istantanee. Revelli compie un periplo più ampio e profondo, interrogandola anche da un punto di vista verticale, che ne riporta in superficie la genealogia nascosta.
Al centro del libro campeggia infatti il fenomeno, già riconosciuto da Benjamin e, diversamente, da Freud, della riemergenza dell’arcaico nel contemporaneo o dell’estraneo nel familiare. Quanto più la storia contemporanea accelera i propri ritmi, emancipandosi dal passato e rimuovendolo, tanto più questo, ad un tratto, sfonda la parete del presente per riapparirci in forma spettrale – come un fantasma della violenza senza limiti da cui proveniamo e che, nonostante tutti i salti di civiltà, non ci siamo mai del tutto lasciata alle spalle. Nel saggio di Revelli, essa assume il volto, minaccioso e sinistro, di due miti fondativi, quello della Medusa, poi sconfitta da Perseo e quello delle Sirene, ingannate da Ulisse – forse mai indagati con una pari capacità di coglierne gli echi attualissimi. Sia il volto accecante della Gorgone sia il corpo ammaliante delle Sirene costituiscono una rappresentazione icastica dei demoni che non soltanto bussano alla nostra porta, ma nascono dentro di noi, come l’ombra lunga che sottende la nostra esperienza quotidiana.
Entrambe situate sul confine tra uomo e animale, entrambe simboli di un potere che schiaccia gli uomini sulla dimensione della cosa, la Medusa e le Sirene differiscono per lo strumento omicida che usano – lo sguardo la prima e la voce le seconde. Se la Medusa pietrifica chi la guarda, proiettando sul suo viso l’immobilità della propria maschera, le Sirene prosciugano la soggettività di chi le ascolta, dissolvendola nel loro canto di morte. Eppure, in questa simmetria, già traspare una prima, significativa, differenza. Piuttosto che la violenza bruta della Gorgone, le Sirene esercitano un potere più sottile e seducente. Esse non pongono direttamente le mani insanguinate sulla vittima, ma la attirano da lontano nel gorgo. Proprio per questo Ulisse può sfuggire alla loro presa con un artificio tecnico, facendosi legare all’albero della nave senza perdere le note letali del loro canto. Come già per la Medusa, Revelli ripercorre le grandi interpretazioni del mito – da Adorno e Horkheimer, a Blanchot, a Kafka – cogliendone il nucleo di senso. Accettando, e vincendo, la sfida con le sirene, Ulisse fa della loro presenza mitica un racconto, traversando la soglia epocale che conduce dall’universo muto e barbarico del mito al mondo aperto e narrabile della storia.
In questa prospettiva l’autore introduce un parallelo tra l’origine del racconto e quella del diritto. Del resto il processo di civilizzazione, coincidente con l’istituzione della polis, nasce nel doppio segno del Logos e del Nomos, della Parola e della Legge. Contro la violenza indifferenziata di Kratos – il volto bestiale e demoniaco del potere – le mura della città costituiscono una barriera protettiva che gli uomini si impegnano a non infrangere. Naturalmente ciò non vuol dire che la violenza scompaia. Essa viene assunta e incorporata dallo Stato, che si riserva di adoperarla solo contro coloro che dovessero contravvenire al giuramento di ubbidienza al sovrano. L’immagine, non meno spaventosa, del Leviatano di Hobbes – un mostro marino, di origine biblica, protetto da una corazza fatta di scaglie umane – rappresenta questo passaggio dalla violenza scatenata alla violenza trattenuta e finalizzata al controllo sociale. La costruzione di quel ius publicum europaeum che per almeno quattro secoli ha garantito l’ordine all’interno degli organismi statali, ne costituisce l’esito insieme prezioso ed ambivalente. Prezioso perché ha consentito uno sviluppo senza precedenti alla civiltà occidentale. Ambivalente perché non solo è stato costruito al prezzo di infinite guerre che hanno rovesciato all’esterno degli Stati la violenza dominata al loro interno, ma soprattutto perché, nel cuore del Novecento, ha visto schizzare fuori dal suo fondale una violenza in camicia bruna più primitiva di quella mitica.
E’ allora che, insieme alle trama del diritto, ha rischiato di spezzarsi anche quella della memoria storica, ripiegata su stessa in un incubo da cui è stato arduo risvegliarsi. Mai come tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso i demoni del potere sono tornati ad affacciarsi, rendendo pietre, o polvere, decine di milioni di uomini. Che si sia trattato di una parentesi, richiusa una prima volta alla fine della guerra calda e una seconda alla fine di quella fredda, oppure dell’annuncio di qualcosa di ancora più devastante, resta per adesso incerto. Le pagine drammatiche scritte da Pasolini sul mutamento antropologico in atto non solo nel nostro Paese -come le immagini insostenibili di Salò-Sade – pongono forti dubbi sul nostro futuro. Ma ancora più problematica si presenta la condizione di quel mondo globale che ha sfondato le mura della politica moderna, aprendolo alla libera circolazione dei flussi demografici, tecnologici, finanziari. Molti hanno puntato sulle sue potenzialità emancipative, prima che qualcosa di arcaico come i conflitti etnici e religiosi abbia prodotto uno sgradevole risveglio dalle prime illusioni. Come accade quando qualcosa che sembrava sepolto ritorna a interpellarci, essa presenta connotati diversi da quelli che aveva. Così oggi la sovranità non appare più il potere supremo di fare la legge, ma semmai quello di disattivarla, aprendo continui spazi di eccezione all’interno del diritto vigente.
Ora è come se la crisi economica avesse spinto questa procedura al suo estremo esito biopolitico, legando le condizioni della nostra esistenza ad ogni turbolenza dello spread. Quanto più la sovranità confonde i propri tratti nel potere anonimo dei mercati finanziari, tanto più la vita di interi popoli resta non solo offesa, ma anche denudata, esposta allo sguardo pietrificante della nuova Gorgone.

La Repubblica 5 ottobre 2012
















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