Merita di essere letto
per intero l’articolo di Umberto Eco pubblicato oggi su la Repubblica:
U. ECO –
QUESTA MIA POVERA CITTA’
Sono
arrivato a Milano nell’autunno del 1954, conquistato dalla possibilità di
andare a teatro quasi ogni sera, e siccome eravamo giovani funzionari
televisivi, gli attori e i registi che venivano in Studio e ci trovavano
sempre i biglietti omaggio. Le starlette di allora, annunciatrici,
presentatrici, comparse, venivano dopo lo spettacolo con noi, giovanotti
squattrinati, e andavamo a ballare al Santa Tecla. Quelle tra loro che avevano
bisogno di denaro facevano, accollatissime, i fotoromanzi o, in camicetta e
jeans, apparivano sui muri della città mentre spalmavano il Ducotone. La
peccatrice ufficiale del Santa Tecla andava vestita di nero, col trucco chiaro
di luna, e si faceva chiamare Olivia l’esistenzialista. Hanno poi sposato tutte
impiegati, garagisti, venditori di aspirapolvere.
Andavamo
molto al cinema e vedevamo storie che si svolgevano in Sudamerica, dove il
criminale passava la frontiera mettendo un biglietto da cinquanta dollari nel
passaporto, l’agente incassava e lasciava passare. In quei luoghi regnava,
apprendevamo, la corruzione generalizzata. Beati noi che vivevamo in una città
civile, capitale morale d’Italia, dove la criminalità era prevedibile e
localizzata, un matto che uccideva a martellate la moglie e i figli
dell’amante, poi verso gli anni Sessanta rapinatori quasi professionisti che
emulavano i film di gangster, ma alla fine si facevano prendere, come
Cavallero; e per il resto piccola malavita da Porta Romana bella, roba da
commissario Nardone.
Salivano
a Milano migliaia di meridionali, e i Cipputi di allora gli dicevano «Tas
ti, brütt terun!», ma giocando insieme a scopone all’osteria, e gli
offrivano da bere.
Di
quel che accadeva al Sud si sapeva poco, e si guardava a Roma come a una
sentina di vizi, coi deputati democristiani che i disegnatori comunisti
rappresentavano come “forchettoni”, e le follie della dolce vita. Ma il mondo
dell’imprenditoria milanese viveva corazzato nelle proprie impenetrabili
fortezze, i banchieri si chiamavano Cuccia o addirittura Leo Valiani, o
Mattioli che a quanto mi risulta non aveva una barca ma finanziava i classici
della letteratura italiana delle edizioni Ricciardi.
Gli
artisti passavano le sere al bar Giamaica, e mangiavano per pochi soldi alla table
d’hôte delle sorelle Pirovini, gli scrittori conducevano vita morigerata
come Montale chiuso in un ufficetto del Corriere della Sera.
In
televisione apparivano le prime ballerine in calze nere, ma negli studi di
Corso Sempione si allestivano per i programmi di prima serata Shakespeare,
Pirandello o, al peggio, Rosso di San Secondo; il giovedì sera i cinematografi
sospendevano la proiezione, mettevano un televisore sotto lo schermo, e tutti
seguivano con orgasmo massmediatico “Lascia o raddoppia?”; la satira politica
era sommessa, ma Tognazzi e Vianello avevano osato imitare il presidente
Gronchi che era caduto da una sedia alla Scala (Tognazzi cadeva e Vianello gli
chiedeva: «Ma chi ti credi di essere?»). Era scoppiato uno scandalo nazionale,
ma insomma. Andava in onda “Tribuna Politica”, dove giornalisti e parlamentari
parlavano uno alla volta.
Ogni
sera si poteva trovare un dibattito o alla Casa della Cultura, o al Circolo
Turati o, poi, a quello di Via De Amicis, ma anche dai gesuiti del San Fedele.
Dal centro di fonologia musicale di Corso Sempione si diffondevano le nuove
esperienze di musica elettronica e, sia pure tra qualche fischio, alla Scala
apparivano Schoenberg, Webern e poi Luciano Berio.
Era
Milano centro di cultura, sede delle grandi case editrici, ombelico del mondo
produttivo. Era una città bianca che non prendeva ordini neppure dal Vaticano e
faceva il carnevale in una data tutta sua, ma poteva mandare al governo della
città i socialisti storici.
Milano
ha cominciato a mutare volto col Sessantotto, e poi con la città che si
svuotava a sera nel periodo del terrorismo, ma questo non metteva in questione
la tenuta dei partiti e dello Stato. E la vita era ripresa negli anni Ottanta
con qualche cedimento a un “edonismo reaganiano” e con quella che solo
dopo sarebbe stata chiamata la “Milano da bere”. All’inizio degli anni Novanta
si era scoperto che nella capitale morale si era sviluppata una politica fatta
di bustarelle e tangenti, ma anche allora si pensava che i corrotti—e in
grandissima parte era vero — praticassero la corruzione non per arricchire se
stessi bensì per foraggiare la propria parte politica.
Il
male però si era diffuso e si è avvertito in quei decenni un calo dell’attività
culturale, nel senso che scomparivano i centri di discussione e di dibattito.
Milano sonnecchiava. Ricordo che durante l’amministrazione leghista di
Formentini si era tentato un rilancio della gloriosa Triennale (uno dei
vanti della città), ma da una riunione a cui aveva partecipato tutto il mondo
culturale milanese erano rimasti assenti e il sindaco e l’assessore alla
cultura (anche se bisogna ammettere che il rilancio della Triennale è poi
avvenuto a opera delle successive amministrazioni di centro destra).
Eppure
l’idea di una Milano come sorgente di innovazione aveva convinto molte persone
rispettabili che persino la discesa in campo di Berlusconi fosse un tentativo
di introdurre nell’agone politico, agonizzante dopo Mani Pulite, il mondo sano
dell’imprenditoria. Illusione durata pochissimo, ma anche questa illusione
aveva testimoniato del mito di una Milano sana contro la capitale corrotta che
infettava la nazione. Anche i più ingenui si sono poi accorti che una nuova
forza che si basava sul conflitto d’interessi, e quindi sulla difesa
dell’interesse privato, non poteva essere che fomite di successiva corruzione —
e i meno ingenui hanno avvertito che si apriva per loro l’epoca di una Italia
da bere.
Così è
accaduto quello a cui stiamo assistendo, scandalo dopo scandalo, con la
scoperta che Milano era sorella di Roma nell’introdurre nel gioco uomini che si
davano alla politica nel solo intento di arricchirsi personalmente. Ma ancora
lì, per molto, si pensava che Milano non fosse tuttavia Palermo, era forse
diventata una città di disonesti ma non di mafiosi.
Ed ora
eccoci al rendimento dei conti: non solo la politica milanese si trova
compromessa con la ‘ndrangheta ma addirittura ormai appare che non è la
politica a usare la ‘ndrangheta bensì la ‘ndrangheta a usare la politica, che
prende ordini dai suoi sgherri, piange e si umilia di fronte alle loro minacce,
ha creduto di emulare politici romani che sapevano sfruttare la mafia, ma di
quelli non avevano l’astuzia e il pelo sullo stomaco. Milano che non voleva
prendere ordini da Roma ladrona e disprezzava il meridione, si è ridotta a
prendere ordini dal peggio del profondo Sud.
Come
se ne esce, come purificare una città in cui il potere criminale, quasi
indistinguibile da certe frange del potere politico, è imprendibile, non
facilmente identificabile e nessun commissario Nardone è in grado di spezzare
una orrenda catena di complicità? Siamo entrati nella fase sudamericana della Lombardia
di Berchet, Cattaneo, Manzoni? E ci rendiamo conto che tutto questo produrrà
disaffezione per la politica, astensionismo e quindi dittatura di coloro che
l’hanno provocato?
Una
delle domande che circolano in questi giorni è: “Che cosa possono fare gli
onesti?”. Dico subito che la nozione di “onesti” mi pare inapplicabile, visto
che i ladri non hanno più il ghigno riconoscibile di Cavallero ma siedono
accanto a noi al ristorante, vestiti da persone per bene. Di qui il senso
di disorientamento che coglie moltissimi. Non è come in quei casi di rapina,
stupro, malavita notturna che puoi (sia pure per decisione criticabilissima)
costituire pattuglie di vigilantes. Non sai dove colpire e da chi guardarti.
Non
credo si possano costituire gruppi di cittadini obbedienti alle leggi che in
qualche modo, con attività culturali, appelli morali, nuovi impegni politici,
possano fare un proselitismo che quasi suona a ideale deamicisiano. Viene da
pensare a quel romanzo ingiustamente dimenticato di Giovanni Mosca, “La lega
degli onesti”, dove alla fine i presunti onesti, definendosi come tali,
diventano peggio dei disonesti.
Sto
pensando — come ultima spiaggia — a una serie di reazioni individuali, al
richiamo certamente moralistico a una vita proba e riservata. Non sappiamo
ormai chi siano gli onesti, che vediamo persino andare a messa, ma ciascuno può
sapere con certezza se paga le tasse, non ha mai dato o ricevuto bustarelle, e
fa il suo mestiere come si deve. E allora bisogna essere astuti come colombe,
vivere una vita più ritirata e isolare in qualche modo coloro di cui
sospettiamo. Ci invitano a una cena che si annuncia fastosa? Ci propongono una
vacanza in barca? Non ci si va. Notiamo facce nuove nel circolo che
frequentavamo? Si danno le dimissioni. Ci invitano all’inaugurazione di un ente
benefico? Se proprio non siamo sicuri di che si tratti, ci si defila. Non c’è
niente di male se qualcuno si concede una dozzina di ostriche, ma è sospetto
che le offra anche a noi e a molti altri, gratis.
Riduciamo
le nostre frequentazioni, stabiliamo — se tutti parteciperanno a questo
richiamo ascetico — una sorta di mobbing nei confronti di tutti coloro
che ci paiono spendere con troppa disinvoltura o cambiano macchina con troppa
frequenza, anche se il nostro sospetto può essere ingiusto. Secondo Wikipedia
il mobbing è “un insieme di comportamenti violenti (abusi psicologici,
angherie, vessazioni, dimensionamento, emarginazione, umiliazioni, maldicenze,
ostracizzazione, etc.) perpetrati da parte di uno o più individui nei confronti
di un altro individuo, prolungato nel tempo e lesivo della dignità personale e
professionale nonché della salute psicofisica dello stesso”. Troppo. Si può
esercitare il mobbing senza mettere in opera comportamenti violenti,
abusi psicologici o maldicenze: basta attuare forme di emarginazione. Fare mobbing
si può ridurre a dire “io con te non ci parlo”, e lo si può dire anche stando
zitti. Si potrebbe arrivare, a lungo andare, alla manifestazione evidente del
comportamento di una parte della popolazione che non accetta più certe
frequenze, che si sottrae con noncuranza all’interessamento spesso affettuoso
di chi ci vorrebbe a copertura della propria vita pubblica e privata. Fare il
deserto intorno ad alcuni.
E
attenersi in ogni circostanza al detto aureo che mi comunicava mio padre: «Se
qualcuno vuole darmi qualcosa che non mi pare aver meritato, tanto per
cominciare io chiamo i carabinieri».
Fonte: La
Repubblica del 13 ottobre 2013
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