Per
cominciare a parlare di Mo Yan, premio
nobel letteratura 2012, ci serviamo di un articolo di Goffredo Fofi, pubblicato da l’avvenire:
Goffredo Fofi - Mo
Yan. Un autore disturbante e inquieto
Alla
fine degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta scoprimmo la nuova letteratura
cinese grazie a una giovanissima sinologa, Maria Rita Masci, che fece
pubblicare da Theoria le opere di due giovani scrittori nei trent’anni, di
Acheng la breve trilogia dei Re («Il re degli scacchi», «Il
re dei bambini», «Il re degli alberi»… ) e
il primo romanzo-scandalo di Mo Yan, «Sorgo rosso».
Sui
lettori avvertiti l’impressione fu enorme, ma mentre Acheng ha scritto o
pubblicato assi poco dopo di allora, chiudendosi in California, si disse, ad
aggiustar biciclette, e per la letteratura fu un vero lutto, Mo Yan è arrivato
a 57 anni al Nobel, attraverso altri grandi romanzi visionari e crudeli.
Mo Yan
è uno pseudonimo che significa “senza parole”, ma di esso oggi lo scrittore
sorride, anche perché è sempre stato, dice, un chiacchierone. Di «Sorgo
rosso» ci colpì fondamentalmente il rifiuto di tutte le convenzioni della
letteratura cinese del tempo di Mao. Non era un’opera edificante, e come
constatammo stupiti in certi film e romanzi russi dello stesso periodo, sembrò
che l’imprevista e velocissima caduta dei muri e dei tabù desse spazio a tutto
il rimosso della cultura edificante gradita ai regimi, ai rossi come ai neri.
Si riparlava del corpo, del “basso”, del magico, del primitivo. Nel bene e nel
male, si riparlava del male. Mo Yan fu l’autore principale di questa tendenza,
e il più grande perché non si trattò mai in lui di un’operazione irriflessa e
solo provocatoria ma di una rivendicazione a vasto raggio: non solo del Corpo,
anche della Storia, della realtà storica sino allora censurata o edulcorata.
Nei suoi romanzi la naturalità riconquista i suoi diritti, però in una visione
chiarificatrice e necessaria, perché le verità della guerra con i giapponesi,
dei conflitti di classe, della “rivoluzione culturale” venivano alla luce per
la prima volta così apertamente, e per i cinesi fu uno choc che creò qualche
difficoltà a Mo Yan prima che il successo internazionale dei suoi romanzi (in
Italia grazie anche al premio Nonino e ad alcune rare ma forti apparizioni
festivaliere) lo facesse rispettare anche in patria. Oggi Mo Yan è un
personaggio importante nella nomenklatura burocratico-intellettuale ufficiale,
e c’è semmai da notare l’abituale schizofrenia dei Nobel, che premiano prima un
dissidente assoluto con il Nobel della pace e poi uno scrittore ormai molto
ufficiale (ma il Nobel della pace, va ricordato, è norvegese e l’altro svedese,
e le giurie sono nettamente distinte). Mo Yan è dunque uno scrittore la cui
grandezza è riconosciuta anche in patria, ma resta uno scrittore – un grande
scrittore – disturbante e irrequieto, che non si adagia certo sugli allori.
Tutti i suoi romanzi hanno basi culturali profonde e molto popolari, anche
perché Mo Yan è una specie di autodidatta che ha trovato l’ispirazione
nell’esperienza diretta, nella storia della sua famiglia e del suo villaggio,
nel mondo dei contadini, e cioè nei racconti realistici del loro vissuto e
favolosi del loro immaginario, un immaginario depositato nei secoli e rinnovato
da Mo Yan con eccezionale adesione alle sue radici. È questo a fare di lui un
grande scrittore. Se dovessimo pensare a un corrispettivo d’altrove, si
correrebbe subito a certo Faulkner, un autore che Mo Yan confessò a Magris di
aver letto con vera passione, il Faulkner servito da modello a tanti grandi
scrittori dei Sud del mondo, africani asiatici latino-americani. In Italia,
forse, l’unico paragone che mi viene di fare è con un bel romanzo dimenticato
di Paolo Volponi, «Il pianeta irritabile».
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