14 ottobre 2012

Mo Yan, premio nobel letteratura 2012









Per cominciare a parlare di Mo Yan, premio nobel letteratura 2012, ci serviamo di un articolo di Goffredo Fofi, pubblicato da l’avvenire:

Goffredo Fofi  -  Mo Yan. Un autore disturbante e inquieto

Alla fine degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta scoprimmo la nuova letteratura cinese grazie a una giovanissima sinologa, Maria Rita Masci, che fece pubblicare da Theoria le opere di due giovani scrittori nei trent’anni, di Acheng la breve trilogia dei Re («Il re degli scacchi», «Il re dei bambini», «Il re degli alberi»… ) e il primo romanzo-scandalo di Mo Yan, «Sorgo rosso».
Sui lettori avvertiti l’impressione fu enorme, ma mentre Acheng ha scritto o pubblicato assi poco dopo di allora, chiudendosi in California, si disse, ad aggiustar biciclette, e per la letteratura fu un vero lutto, Mo Yan è arrivato a 57 anni al Nobel, attraverso altri grandi romanzi visionari e crudeli.
Mo Yan è uno pseudonimo che significa “senza parole”, ma di esso oggi lo scrittore sorride, anche perché è sempre stato, dice, un chiacchierone. Di «Sorgo rosso» ci colpì fondamentalmente il rifiuto di tutte le convenzioni della letteratura cinese del tempo di Mao. Non era un’opera edificante, e come constatammo stupiti in certi film e romanzi russi dello stesso periodo, sembrò che l’imprevista e velocissima caduta dei muri e dei tabù desse spazio a tutto il rimosso della cultura edificante gradita ai regimi, ai rossi come ai neri. Si riparlava del corpo, del “basso”, del magico, del primitivo. Nel bene e nel male, si riparlava del male. Mo Yan fu l’autore principale di questa tendenza, e il più grande perché non si trattò mai in lui di un’operazione irriflessa e solo provocatoria ma di una rivendicazione a vasto raggio: non solo del Corpo, anche della Storia, della realtà storica sino allora censurata o edulcorata. Nei suoi romanzi la naturalità riconquista i suoi diritti, però in una visione chiarificatrice e necessaria, perché le verità della guerra con i giapponesi, dei conflitti di classe, della “rivoluzione culturale” venivano alla luce per la prima volta così apertamente, e per i cinesi fu uno choc che creò qualche difficoltà a Mo Yan prima che il successo internazionale dei suoi romanzi (in Italia grazie anche al premio Nonino e ad alcune rare ma forti apparizioni festivaliere) lo facesse rispettare anche in patria. Oggi Mo Yan è un personaggio importante nella nomenklatura burocratico-intellettuale ufficiale, e c’è semmai da notare l’abituale schizofrenia dei Nobel, che premiano prima un dissidente assoluto con il Nobel della pace e poi uno scrittore ormai molto ufficiale (ma il Nobel della pace, va ricordato, è norvegese e l’altro svedese, e le giurie sono nettamente distinte). Mo Yan è dunque uno scrittore la cui grandezza è riconosciuta anche in patria, ma resta uno scrittore – un grande scrittore – disturbante e irrequieto, che non si adagia certo sugli allori. Tutti i suoi romanzi hanno basi culturali profonde e molto popolari, anche perché Mo Yan è una specie di autodidatta che ha trovato l’ispirazione nell’esperienza diretta, nella storia della sua famiglia e del suo villaggio, nel mondo dei contadini, e cioè nei racconti realistici del loro vissuto e favolosi del loro immaginario, un immaginario depositato nei secoli e rinnovato da Mo Yan con eccezionale adesione alle sue radici. È questo a fare di lui un grande scrittore. Se dovessimo pensare a un corrispettivo d’altrove, si correrebbe subito a certo Faulkner, un autore che Mo Yan confessò a Magris di aver letto con vera passione, il Faulkner servito da modello a tanti grandi scrittori dei Sud del mondo, africani asiatici latino-americani. In Italia, forse, l’unico paragone che mi viene di fare è con un bel romanzo dimenticato di Paolo Volponi, «Il pianeta irritabile».

Fonte: Avvenire 12 ottobre 2012

Nessun commento:

Posta un commento