25 ottobre 2012

RILEGGIAMO ITALO CALVINO








Il volume che raccoglie le interviste rilasciate da Italo Calvino dal 1951 al 1985 mi sembra una buona occasione per ricordare il grande scrittore.  Lo facciamo oggi con l’aiuto di un articolo di  Bernardo Valli, pubblicato ieri da La repubblica:
 
 
 
Bernardo Valli - Memorie di Calvino

Il volume in cui sono raccolte, in sei-centocinquantotto pagine, centouno interviste orali o scritte date da Italo Calvino tra il 1951, quando non aveva ancora trent’anni, e il 1985, suo ultimo anno di vita, puo’ suscitare una reazione singolare, ma non poi tanto strana: la gelosia dei ricordi. Capita spesso che i tuoi non coincidano con quelli degli altri. O che si allontanino sempre più dalla supposta realtà. Da quel ricco, bel volume, curato da Luca Baranelli, un fedelissimo di Calvino, e con l’introduzione di Mario Barenghi, suo costante, altrettanto fedele cultore, emerge spesso un Calvino allergico alla parola («questa roba che esce dalla bocca, informe, molle molle…»), un Calvino che rivendica la laconicità, un uomo di carattere piuttosto chiuso, se non ombroso, refrattario all’uso dell’io, ai richiami autobiografici (Sono nato in America, Mondadori). Anche se generoso nel rilasciare interviste, poiché le centouno pubblicate non sono neppure la metà di quelle rintracciate. Ho comunque conservato di Calvino un’immagine personale: quella di un meraviglioso attore.
È vero che non c’è nulla di meno assoluto e di più relativo del ricordo, ma la prima reazione mi conduce a credere che con quel libro, in cui si può rintracciare un sia pur vago, sfuggente, autoritratto in divenire, si sia infiltrato nella mia memoria un dubbio devastatore, un virus capace di sfocare le immagini che vi galleggiano come relitti. Un virus assassino che tenta di spegnere la luminosa figura di un Calvino conservata come un’icona, irreale ma ben disegnata nella mente, da quella tarda estate del 1985 in cui ho assistito alla sua sepoltura nel cimitero sul mare di Castiglione della Pescaia. E nasce poi l’inevitabile, contraddittorio sospetto che a tradirmi sia la mia stessa memoria, in cui i ricordi oltre a sfilacciarsi, ad annebbiarsi, si adeguano a desideri inconsci. Nei ricordi si è conservatori.
Il volume dedicato alle interviste di Calvino mi ha lasciato dunque nell’incertezza. Ma non per molto. Il mio ricordo è stato sopraffatto o si è appannato? Il tempo riduce all’essenziale l’immagine delle persone scomparse e non dimenticate. Ed io vedo ancora, appunto, Calvino come un grande attore, capace di sprigionare con lo sguardo espressioni chiare, chiarissime: rigetto, noia, ironia, comprensione, indifferenza, fastidio, amicizia, simpatia, a volte persino un entusiasmo candido, ingenuo; e con la parola capace di suscitare forti emozioni. Era un padre tenero, e apprensivo, quello che all’aeroporto di Fiumicino, mi affidò la figlia Giovanna, adolescente, che veniva a trascorrere le vacanze nella casa di Danielle, a Hammamet.


 
Parlando Calvino si inceppava spesso, si interrompeva, emetteva frammenti e rottami aforistici, ricorda Pietro Citati, suo amico da quando aveva ventiquattro anni, nella Torino grigia di quello che era ancora il dopoguerra. Allora Calvino era un giovane luminoso, con uno sguardo fresco e gentile, che si innamorava spesso. Era un ingenuo, di una limpidezza provinciale. Poi ha subito una lunga metamorfosi, è diventato un grande narratore, ma anche un uomo via via sempre più tormentato dalla imperativa necessità dello scrittore di mettere in movimento delle idee. E anche il suo sguardo si è via via oscurato. Questo dicono coloro che hanno seguito Calvino in tutto l’arco della sua vita.
L’ho conosciuto soltanto negli ultimi dieci anni, soprattutto in quelli parigini, e quindi non ho termini di paragone. Lo ricordo come un meraviglioso attore perché in varie occasioni l’ho visto uscire dal suo silenzio, dalla sua riservatezza, in cui sembrava rinchiuso come in una bolla di vetro. Ho assistito a evasioni dalla laconicità simili a esplosioni, che mandavano in frantumi la timidezza. E non accadeva soltanto quando aveva a disposizione un pubblico e scattava quello che oso chiamare il suo istinto d’attore.
Lo rivedo al Beaubourg, una sera, mentre parlava a centinaia di giovani parigini che straripavano sulla piazza, sotto gli altoparlanti, dai quali usciva il suo accentato, caldo francese. Le parole scorrevano senza esitazioni. Senza inciampi. Il tema della conferenza era la pittura metafisica di De Chirico. Un argomento ideale per l’autore delle Città invisibili e delle Cosmicomiche. E fu un successo, da grande spettacolo. Ci furono lunghi applausi, quasi come quelli all’Opéra Garnier, il giorno in cui andammo insieme a vedere il Simon Boccanegra,
e lui, Calvino, era il solo a non indossare lo smoking, allora quasi di rigore alle prime, e il suo vestito grigio chiaro risaltava nella platea come una macchia bianca. Situazione che non lo imbarazzava affatto, anzi che lo rendeva di buon umore. La sua ironia era in quell’occasione smagliante. Al Beaubourg gli applausi prolungati lo resero felice. Era appagato. Non sprecava certo le parole. Ma era pronto ad aprirsi. A mio avviso, da giovane, gli è capitato di voler essere un attore.
Roland Barthes, che fu un suo ammiratore, ricorreva a una parola antica (lui diceva settecentesca) per definire quel che vedeva nell’arte di Calvino, e quel che traspariva dell’uomo da quel che scriveva: une sensibilité. Aggiungeva: un’umanità. Avrebbe voluto dire anche una bontà, ma la parola gli sembrava troppo pesante da portare e quindi da infliggere. Per Barthes in tutta l’opera di Calvino c’è un’ironia mai offensiva, mai aggressiva, e anche un costante distacco e un sorriso. Tutto questo era ben visibile anche nel personaggio non solo nei suoi scritti. Ed io, testardo come Cosimo, il Barone rampante, conservo questa immagine.
Le interviste sono da centellinare. Non da leggere tutto d’un fiato come un racconto. Luca Baranelli è stato un bravo ingegnere: ha ricostruito una lunga strada zigzagante, piena di curve, con sensi unici che all’improvviso prendono direzioni opposte. Insomma un itinerario con tante inevitabili contraddizioni. In trentaquattro anni di vita, quanti sono quelli in cui sono state concesse le interviste, gli umori, le situazioni, i sentimenti, le idee cambiano. E cambiano gli interlocutori, di incostante qualità. Calvino si adegua. Se la cava a volte ricorrendo allo scritto. Scrive persino le domande. Gli capita di recitare. Come quando dice che quando si esprime, sia a voce che per scritto, “è un disastro”.
Lo vedo ancora al Café de Flore, a Saint-Germain-des-Prés, davanti alla casa in cui aveva un piccolo appartamento, proprio accanto alla Brasserie Lipp. Poche stanze, affacciate su un cortile interno, comperate dopo avere lasciato il quasi periferico Square de Chàtillon dove aveva vissuto per anni con la moglie Chichita e la figlia Giovanna.
Lui pensava che al Flore, un tempo frequentato da Sartre e Beauvoir, e da tante altre celebrità letterarie (la non sua amica Marguerite Duras abitava nell’attigua rue Benoit), e poi finito in mano a una clientela turistica, le uova strapazzate al salmone, una specialità della casa, fossero esageratamente care. Aveva ragione. Ed è quindi davanti a una bottiglia di acqua minerale che cominciò a parlarmi di Stevenson.
C’era stata un’ennesima nuova edizione del Master of Ballantrae e dovevo fargli un’intervista per Repubblica. Ma ci sbrigammo presto, perché nella conversazione fece irruzione Conrad. E allora iniziammo un gioco: una specie di gara a chi conosceva meglio le trame dei suoi romanzi e racconti: Lord Jim (del quale credo avesse cominciato e poi interrotto la traduzione), Tifone, La linea d’ombra, Il negro del Narciso, Il corsaro, L’agente segreto, La follia di Almayer… Si era laureato con una tesi su Conrad, ma lo ignoravo. Fui spesso corretto, e in definitiva largamente battuto. Non umiliato perché era indulgente. Mi redarguiva col sorriso. Aveva una memoria rapida, scattante. I nomi dei personaggi conradiani, e le loro vicende, gli uscivano precisi. Parlava senza incepparsi. Sciolto. Animato. Davanti al bicchiere d’acqua minerale posato sul tavolino del Flore, era un grande attore. E così amo ricordarlo.

Bernardo Valli, La Repubblica 24 ottobre 2012

---------


  Anche per riaprire un dibattito sull’opera complessiva del grande scrittore, riproponiamo un articolo pubblicato su La Stampa il 12 settembre 2010:


Marco Belpoliti - Le lezioni di Calvino oggi non bastano più

Quando nella notte tra il 18 e il 19 settembre di venticinque anni fa Italo Calvino si spense nell’Ospedale di Siena, dopo che i medici avevano inutilmente tentato di salvarlo operandolo alla testa, lo scrittore ligure era arrivato quasi al culmine della sua popolarità e fama. In quei mesi era intento a redigere le sue Lezioni americane, da tenersi di lì a poco ad Harvard, il cui sottotitolo era «sei proposte per il prossimo millennio». In quelle lezioni si va dalla «leggerezza» alla «molteplicità», toccando l’esattezza, la rapidità e la visibilità. La sesta lezione sarebbe stata intitolata Consistency, coerenza. Calvino non ha fatto in tempo a scriverla, ma restano degli appunti, e si sa che si sarebbe riferita a un racconto di Melville, Bartleby.
Oggi che molte delle sue previsioni intellettuali, per quanto riguardanti in primis la letteratura, sembrano essersi avverate – la leggerezza è una delle parole passepartout del postmoderno -, forse la conferenza che ci sarebbe servita di più è quella sulla «coerenza». Bartleby, il personaggio della novella, è un impiegato di Wall Street; lavora presso un avvocato e trascrive atti giudiziari. Se non che, a un certo punto, smette di farlo, e oppone alle richieste del suo principale una frase: «Avrei preferenza di no». Un modo manierato per sottrarsi a ciò che gli è richiesto. Il racconto, che è diventato oggetto di commenti di tanti scrittori e filosofi (da Deleuze ad Agamben, da Borges a Perec), finisce tragicamente con Bartleby che si ritira su se stesso, ostinato, costringe l’avvocato a cambiare studio, resta lì, e infine messo in prigione muore d’inedia.
In questa lezione mancante si concentra tutta l’attualità e l’inattualità di Calvino, il suo appartenere allo stesso tempo al XX secolo e al XXI: un autore della transizione. Il narratore sorgivo del Sentiero dei nidi di ragno e quello riflessivo di La giornata di uno scrutatore, nonché di Palomar, è stato uno degli scrittori per cui all’idea di letteratura si accompagnava anche quella di un impegno per creare una società più giusta. Pasolini, Sciascia, Volponi, Morante, ma anche Manganelli, sono stati antifascisti, iscritti o simpatizzanti del Partito comunista, in altre parole degli intellettuali-scrittori (non scrittori-intellettuali), che hanno fatto della letteratura uno dei punti fondamentali della loro attività. Narratori, certo, ma anche saggisti, polemisti, presenti sui giornali, nelle riviste, dediti alla politica in senso forte. Prima intellettuali e poi letterati, senza piegare la letteratura alle ragioni di partito. Ma pochi anni prima che Calvino morisse, qualcosa è cambiato di colpo. La letteratura, come questi scrittori la concepivano, è finita. Nasceva qualcosa di diverso sul piano sociale, e dunque anche letterario. A spiegarlo è un altro scrittore, forse l’unico erede di Calvino, e proprio per questo divergente da lui: Gianni Celati. È Celati a far conoscere a Calvino la novella di Melville, e anche Wakefield, il racconto breve di Hawthorne, altro riferimento di Consistency.
In entrambe le storie ci sono due personaggi che si sottraggono alla relazione sociale – lavorativa in Bartleby e famigliare in Wakefield -, alle convenzioni, in nome di una coerenza che trae il proprio fondamento da un disincanto che si è installato nella vita sociale. Con la morte di Moro e l’inizio degli anni Ottanta inizia il cosiddetto «riflusso», va in crisi la politica tradizionale, c’è la fuga dall’impegno. Finisce il mondo di cui Calvino era uno degli interpreti più ariosi, leggeri, e insieme intensi. La società umana, quella italiana, non sa più bene su cosa si fondi il legame che tiene insieme gli individui. Calvino sta su questa soglia e per molti aspetti non sa più che pesci pigliare, come si vede molto bene nei racconti di Palomar. La sua crisi era già iniziata, e si annunciava lunga e complessa. Forse non aveva più, nonostante la sua indubbia intelligenza gli strumenti adatti per interpretare il cambiamento. Per questo si era rivolto nel 1968 a Celati, il suo Marco Polo, il viaggiatore, mentre lui retrocedeva al ruolo di Kublai Kan, il vecchio imperatore immobile delle Città invisibili, il suo capolavoro, ma anche il suo punto più alto di scacco. Tuttavia Celati non era bastato, e neppure più i vecchi e nuovi maestri parigini. All’inizio degli anni Ottanta Calvino era un intellettuale-scrittore in panne, il cui motore, perfetto e oliato, girava a vuoto. Era sospeso nel vuoto della fine del XX secolo. Somigliava sempre più a Bartleby, e come lui incarnava un lutto; e l’accentuarsi del suo manierismo letterario era anche la conseguenza del suo «avrei preferenza di no».
Ora non sappiamo cosa avrebbe scritto riguardo alla «coerenza», però un’ipotesi, seguendo il suo Marco Polo, si può formulare. Bartleby, ha scritto Celati, è la figura che pone il problema delle sacche di estraneità che si formano all’interno della vita sociale. Problema che nasce con la nascita delle grandi masse anonime nella vita urbana, «dove non si possono più nascondere le distanze assolute che separano gli individui». La solitudine è l’esperienza fondamentale della contemporaneità su cui s’innestano, pur nella loro diversità, sia il fascismo novecentesco sia il Grande Fratello. Calvino sta al di qua di questa soglia, indica il problema, ma non fornisce soluzioni. Un grande scrittore, senza dubbio, un grande moralista, e insieme un agilissimo saggista. Ma per andare avanti non basta più, bisogna cercare altrove. Dopo Calvino.





Nessun commento:

Posta un commento