Alcuni anni fa ho avuto la
fortuna di ascoltare dal vivo George Steiner mentre parlava con entusiasmo del
capolavoro di Salvatore Satta, Il giorno del giudizio. Dalle
parole di Steiner sono stato spinto a leggere il libro del grande scrittore e giurista sardo: un libro davvero
strordinario che invito tutti a scoprire.
Di seguito ripropongo un saggio che il grande critico ha
dedicato al capolavoro di Satta:
GEORGE STEINER - Mille anni di solitudine
Nel calore biancastro e coriaceo le
colline rocciose della Sardegna assomigliano alla spina dorsale di una
lucertola antidiluviana. Nel sole del primo mattino, l’aria tremola e fuma
dalla roccia morta scistosa. A mezzogiorno è immobile, ma taglia come gli
aculei del filo spinato. Anche il mare è silenzioso. Nell’entroterra, la luce
picchia con forza sugli improvvisi vuoti d’ombra nera tra le sordide case con
le imposte sbarrate. Il calore si infiltra tra le ombre. Là dove una delle
vertebre dorsali è più puntuta, se ne sta appollaiata la città di Nuoro. Ancora
più in alto, in cima a una strada tortuosa color della cenere, sorge Orgosolo,
nota ancora oggi per Io spietato banditismo e per la subdola interminabilità
delle sue faide sanguinose. Mia moglie e io non siamo mai arrivati a quel luogo
celebre e inaccessibile. A Nuoro, quando siamo scesi dalla macchina a nolo,
soffocavamo per il caldo, nell’immobile fornace del mezzogiorno. Ed era solo
giugno.
A Nuoro c’è una libreria. La maggior parte
della sua offerta è costituita da libracci di attualità e da riviste un po’
volgari. Ma nel retrobottega c’è un angolo nostalgico con libri più vecchi, tra
i quali le prime edizioni di Grazia Deledda, che con le sue maestose,
romanticheggianti narrazioni sulla vita sarda vinse il premio Nobel nel 1926.
Ma io ero entrato per cercare un pezzo ancora più raro. Il 18 maggio 1979, in
un caffè di Nuoro c’era stato un dibattito, una tavola rotonda in cui si
era discusso di un libro: II giorno del giudizio, di Salvatore Satta.
Leonardo Sole, Maria Giacobbe e il padre gesuita Giovanni Marchesi avevano
proposto la loro lettura su diversi aspetti dell’opera. Dal pubblico, Natalino
Piras aveva dato voce a una sua «lettura altra». Questi interventi erano stati
poi pubblicati in una brochure di ventinove pagine a cura della biblioteca
locale, che prende il nome da un altro membro della famiglia Satta. Sorpreso
dalla mia richiesta, il proprietario della libreria aveva tirato fuori e mi
aveva venduto quella che aveva tutta l’aria di essere l’ultima copia rimasta,
non senza prima averle dato una spolverata.
Mentre aspettavamo che il caldo perdesse
almeno un po’ della sua virulenza, mia moglie e io andammo a vedere il caffè
(che nel libro si chiama Tettamanzi), il Corso, e il cimitero su uno sperone
contorto di roccia sbiancata. Ci fermammo in piazza Sebastiano Satta, con il
suo assemblaggio di menhir dall’aria preistorica. Il respiro che esce dalla
bocca della fornace del giorno è quello del silenzio. Quando il tardo pomeriggio
lascia libere le ombre, queste si muovono, ha scritto Satta, «alla maniera di
un sogno in quella landa bruciata». Il viaggio fin lì è monotono e riarso;
Nuoro è un luogo chiuso. Ma visitare Nuoro è davvero l’unico modo di
visualizzare appieno uno dei capolavori della solitudine nella letteratura
moderna, se non addirittura di tutti i tempi, e di percepirne lo scheletro. A
parer mio, e se mi baso sul mio orecchio, la traduzione di Patrick Creagh del
Giorno del giudizio non riesce ad afferrare appieno il genio della prosa di
Satta – la sua marmorea ferocia, il suo lento bruciare dentro la pietra. Il
latino di Tacito e lo stile di Hobbes sono ciò che maggiormente gli si
avvicina. Poter disporre del Giorno del giudìzio in inglese è comunque motivo
di compiacimento e di gratitudine. Un altro accordo in maggiore viene ad
arricchire il catalogo delle nostre identità.
La somiglianza con Tacito e con Hobbes non
è casuale. Salvatore Satta (1902-1975) trascorse gran parte della vita
insegnando diritto e giurisprudenza a Roma, e la sua sensibilità si formò sulla
dura, lapidaria latinità degli storici e dei giureconsulti romani. Il Commentario
al Codice di procedura civile è un’opera monumentale, e rappresenta un
classico nell’insegnamento del diritto in Italia. Il suo De profundis,
memoria laconica e straziante delle esperienze del periodo bellico, che Satta
pubblicò nel 1948, è pervaso di latinità e di quell’elevato dolore di cui è
impregnata l’immagine tacitiana dell’insensatezza politica umana. Sembra che
Satta abbia portato dentro di sé per mezzo secolo il materiale e il progetto di
un libro sulla nativa Nuoro e sullo sclerotizzato, sonnambolico epilogo degli
antichi costumi della città. Aveva accantonato molte volte questo lavoro per
proseguire la propria carriera accademica. Il giorno del giudizio è
stato pubblicato solo nel 1979. E un libro postumo non soltanto perché è
apparso dopo la morte di Satta, ma soprattutto perché per molti aspetti è un
libro sui morti e per i morti. Un sardo, un nuorese può ammettere che un unico
luogo è ricco: il cimitero.
Il giorno del giudizio è un libro diffìcile da
descrivere. La voce stoica del cronachista si inserisce chiedendo a sé stessa
se sia il caso di richiamare la presenza spettrale delle vicende, dei gesti,
delle dramatis personae della Nuoro di prima e dopo la Grande Guerra –
se i morti non debbano accollarsi, come dice Cristo in una delle sue più
enigmatiche e sdegnose ingiunzioni, di seppellire i morti. Satta si prende
gioco della vanità della sua impresa, della sua pretesa di resurrezione. Allo
stesso tempo, riconosce il diritto al ricordo, l’appello garbato ma insistente
dei defunti alla memoria dei vivi. Nessuno scrittore della memoria, a parte
Walter Benjamin, comunica in modo più toccante di Salvatore Satta (si noti il
presagio contenuto nel suo nome di battesimo) il diritto degli sconfitti, dei
ridicoli e degli apparentemente insignificanti a essere dettagliatamente
rievocati. Nei climi nordici, il mormorare del vento tra le foglie, segno della
loro venuta, è concesso una volta l’anno, alla vigilia della festa di
Ognissanti. A Nuoro quella notte dura tutto l’anno. I defunti sono perennemente
vicini, a implorare, a supplicare l’elemosina del ricordo. Le reazioni di Satta
sono beffarde: «Scrivo queste pagine che nessuno leggerà, perché spero di avere
tanta lucidità da distruggerle prima della mia morte». Per chi le scrive
dunque? Per i morti, il cui ascolto denso e palpabile dà a Satta il senso
di una dimestichezza con il tempo e con la terra calcinata che nessun individuo
di una communitas tradizionale può, o vorrebbe, conseguire da solo.
La composizione del testo, allo stesso
tempo episodica e fittamente intrecciata al proprio interno, richiama alla
lontana quella dell ’Antologia di Spoon River, ci sono momenti di
vivace satira sociale, voci pompose o tumultuose come quelle che si odono in Sotto
il bosco di latte. Ma né Edgar Lee Masters né Dylan Thomas hanno
l’intelligenza filosofica, la pazienza della sensibilità che consentono a Satta
di realizzare una struttura formale pressoché priva di difetti. Migliore
analogia la troviamo nei pittori. Gli effetti raggiunti nel Giorno del
giudizio possiedono la misteriosa autorità che vive nella grana delle
cose in uno Chardin, l’opaca luminosità che ci arriva dai corpi umani di La
Tour.
La casa e la famiglia di Don Sebastiano
Sanna Carboni fanno da asse al «romanzo antropologico» di Satta (questa la
classificazione del libro proposta da alcuni critici italiani, ma esatta solo
se riteniamo che nell’«antropologia» sia inclusa una descrizione filosofica
della condizione di fondamentale nudità dell’uomo). La famiglia, o clan, è
molto grande: sentiamo parlare di sette figli. Ma uno stentoreo, aspro silenzio
impera tra Don Sebastiano e sua moglie, Donna Vincenza. Le cene di famiglia provocano
nel padrone di casa attacchi di vertigini. Mangia da solo, nella stanza al
piano superiore dove coltiva, come un ragno la sua tela, le arti tenaci del
patrocinio e del consulto legale. Gli interminabili studi dei figli,
l’immemoriale inerzia nuorese che sembra stagnare nelle loro ossa fanno
infuriare Don Sebastiano. Forse che i figli dei milionari della lontana,
fantasmagorica America da giovani non si guadagnano da vivere vendendo
giornali? Donna Vincenza, portata oltre i limiti del martirio dalla fredda
rabbia del marito, dall’usura delle faccende domestiche sul suo fisico
sfiorito, dalla claustrale monotonia e dalle delusioni della carne paralizzanti
come vecchi sogni, leva la sua voce di protesta. La gente in America «ha tutte
le comodità», dice. «Non sono come noi.» La risposta del marito è una sentenza
tra le più feroci della letteratura – è letteralmente una sentenza di morte:
«Tu stai al mondo soltanto perché c’è posto». La traduzione di Creagh – «You’re
only in this world because there’s roorn for you» — è più o meno esatta, ma
non è all’altezza dell’originale. L’italiano evoca una nicchia oscura,
predestinata in cui sono immesse le vite insignificanti e prigioniere, e dalla
quale non c’è via d’uscita. Ed è proprio la mancanza di vie d’uscita che
conferisce a queste vite la loro logica contingente del tutto umiliante.
Per certi versi l’intera opera si snoda a
partire da questo raggelante verdetto. A Nuoro, di quasi tutti, uomini, donne e
bestie, si può dire che stanno sulla loro incenerita terra natia unicamente
perché c’era un’effimera menzione del loro passaggio terreno nel Libro del
giorno del giudizio. Maestro Fadda, dai tristi lineamenti che ricordano quelli
di un re etrusco, è li per insegnare a una quarta e a una quinta nella scuola di
Nuoro e per divertire gli sfaccendati al caffè. Chischeddu «era uno di quei
rottami che, non si sa per quale ragione, approdano nelle chiese, e vengono
ammessi da Dio o dal parroco a partecipare alla vita dello spirito come
scaccini, sacristi». Fileddu, il demente, è il buffone ufficiale quando i venti
soffiano dall’Africa come fuochi che ardono sotto la cenere. Queste vite che ci
vengono presentate hanno una realtà? Prendiamo Pietro Catte: Non c’è il
minimo dubbio che Pietro Catte in astratto non sia una realtà, come non lo è
alcun altro uomo su questa terra: ma il fatto è che egli è nato ed è morto (lo
attestano quegli irrefutabili atti), e questo gli dà una realtà nel concreto,
perché la nascita e la morte sono i due momenti in cui l’infinito diventa finito;
e il finito è il solo modo di essere dell’infmito. Pietro Catte ha tentato di
sottrarsi alla realtà impiccandosi all’albero di Biscollai: ma la sua è stata
una vana speranza, perché non si può annullare il proprio essere nati. Per
questo io dico che Pietro Catte, come tutù i miseri personaggi di questo
racconto, è importante, e deve interessare tutti: se egli non esiste nessuno di
noi esiste.
Lo spontaneo imperativo dell’esistenza si
è prodotto, certamente nel mondo anteriore al 1914, quasi in forma atemporale.
Per i pastori delle colline e i mezzadri non ci sono né passato né futuro,
solo la coercizione della tradizione. Le percezioni e le gioie hanno la
pazienza senza profondità di un ordine delle cose anteriore
all’alfabetizzazione. Satta risulta innovativo e convincente nella sua analisi
indiretta dei modi in cui analfabetismo e prealfabetizzazione stanno in
rapporto con l’atemporalità:
Donna Vincenza era intelligentissima,
anche se sapeva appena leggere e scrivere, e perciò traboccava d’amore, senza saperlo:
amava quei poveri mobili della sua casa, i ricami sulle federe alle quali
attendeva con la madre tutto il giorno [...], la cortita di casa, coi fichi e i
pomodori messi a seccare sulle tavole tra il canto avido delle api e delle
vespe, amava soprattutto l’orto, nel quale ancora si aggirava cogliendo i fiori
e la frutta, anche se le sue gambe ingrossate la reggevano sempre meno. E aveva
amato Don Sebastiano, quest’uomo che era venuto a chiederla in sposa e
l’avrebbe condotta in un’altra casa.
Anche per coloro che hanno una cultura,
per i figli di Don Sebastiano e per i canonici o gli avvocati, i testi scritti
non implicano, come per noi, un progresso. Vecchi libri, pandette obsolete,
commentari tarlati mantengono la propria autorità in un polveroso presente. Le
campane, che svolgono un ruolo magico nell’architettura del Giorno del
giudizio, suonano i rintocchi dell’immutabilità. Il fidanzamento tra Ludovico e
Celestina dura dodici anni. Si conclude con una separazione. La castità si
rimodula impercettibilmente in pienezza e in conforto del lutto.
Eppure la narrazione brulica di azioni:
solenni, comiche e violente. L’assassinio e il suicidio non mancano. L’uva
appena vendemmiata entra nella corte di Don Sebastiano in ottobre, una di
quelle «onde di ricordi che si accavallano in un assurdo disordine, come se
tutta l’esistenza si fosse svolta in un solo istante». Il portale viene
spalancato «in una severa attesa» (un’espressione caratteristica di Satta). I
buoi incespicano come se i loro grandi occhi fossero ciechi. Dentro ai tini
cavernosi i grappoli pigiati dai rulli spargono il loro profumo inebriante nel
buio notturno della casa:
Ma c’è, in quella massa iridata, un Dio
nascosto, perché non passeranno molte ore, ed ecco un’orlatura violacea
apparirà tutto lungo il bordo: allora la massa si solleverà come in un respiro,
perderà la sua innocenza, e rivelerà in un sordo gorgoglio il fuoco che la
divora. [...] Tutto avverrà di notte, perché la vita e la morte sono figlie
della notte.
L’allusione è molto precisa: rimanda alla
cosmogonia preclassica greca e mediterranea. I riti dell’esistenza di Nuoro
sono antichi almeno quanto Omero. Ma quando Satta racconta di come l’artificio
di un’autodichiarazione di povertà costruisca barriere contro l’opulenza e la
generosità naturali del mondo, l’intonazione e l’ironia sono quelle degli
autori latini di satire e dei moderni.
Un altro capitolo virtuosistico narra
l’arrivo dell’illuminazione elettrica a Nuoro, in una gelida sera d’ottobre.
Tutto il paese si è riunito, pieno di diffidenza e vagamente risentito,
addirittura con la speranza che succeda il peggio:
E d’improvviso, come in un’aurora boreale,
queste candele si accesero, e fu fatta la luce per tutte le strade, proprio da
San Pietro a Sèuna, un fiume di luce, tra le case che restavano immerse nel
buio. Un urlo immenso si levò per tutto il paese, che sentiva misteriosamente
di essere entrato nella storia. Poi, gli occhi stanchi di guardare, la gente
infreddolita rientrò piano piano nelle proprie case o nei propri tuguri. La
luce rimase accesa inutilmente. Si era levata la tramontana, e le lampade
sospese nel Corso coi loro piatti si misero a oscillare tristemente, luce e
ombra, ombra e luce, rendendo angosciosa la notte. Questo coi fanali a petrolio
non avveniva.
Il brano successivo scava ancor più in
profondità. I fanali a petrolio di Nuoro, che ormai non servono più ma che
qualcuno rimpiange, vengono venduti a Oliena, un paese dall’altra parte della
vallata. Quando cade la sera, i nuoresi vanno a vedere Oliena che si illumina
«un fanale dietro l’altro, che si potevano contare», scrive Satta. «E chissà se
anche là i ragazzini non correvano appresso al lampionaio, a raccogliere i
fiammiferi spenti.» Solo nei Morti di Joyce risuona
in maniera tanto commovente il passo del tempo che mai più tornerà.
E difficile resistere alla tentazione di
citare – dai capitoli condotti con brio che hanno per tema i raggiri
ecclesiastici e le morti solitarie e implacabili, da un altro che descrive
l’oratoria politica e le elezioni a Nuoro, o dalle analisi sulle trasformazioni
portate da coloro che ritornavano dal fronte e dalle città nel periodo
1915-1918. Il testo però dovrebbe essere assaporato come un tutt’uno, e una
sola lettura non è sufficiente per scandagliarne il riso e la desolazione. Il
più delle volte questi due elementi sono inseparabili. Ormai moribondo, Prete
Porcu trova le forze per un’ultima preghiera nella casa di Dio. Riesce con
fatica a superare la salita lastricata del Corso. Sguardi di curiosità seguono
la sua spettrale sortita. Poi la sua voce risuona nel silenzio: «Signore,
vedete come sono vecchio e malato. Prendetemi con voi. Io non posso più nemmeno
dirvi la Messa, perché non mi reggo in piedi. Signore, prendetemi con voi. E
per il bene della chiesa, prendetevi anche l’arciprete. Così tutto sarà pace».
«Take Canon Floris as well. Then all will be at peace» – il contrappunto
dell’originale è irriproducibile.
La migliore introduzione a questo
capolavoro è dello stesso Satta: Come in una di quelle assurde processioni
del paradiso dantesco sfilano in teorie interminabili, ma senza cori e
candelabri, gli uomini della mia gente. Tutti si rivolgono a me, tutti vogliono
deporre nelle mie mani il fardello della loro vita, la storia senza storia del
loro essere stati. Parole di preghiera o d’ira sibilano col vento tra i
cespugli di timo. Una corona di ferro dondola su una croce disfatta. E forse
mentre penso la loro vita, perché scrivo la loro vita, mi sentono come un
ridicolo dio, che li ha chiamati a raccolta nel giorno del giudizio, per
liberarli in eterno dalla loro memoria.
Il lettore non se ne libererà facilmente,
né avrà il desiderio di liberarsene.
19 ottobre
1987
da: George Steiner “Letture. George Steiner su “New Yorker”, Garzanti 2010, pag. 353-360
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