Vincenzo Consolo ha avuto modo di conoscere bene la Sicilia anche perchè, fin da ragazzo, accompagnava il padre camionista in giro per i paesi siciliani. Ecco di seguito il racconto del suo primo incontro con il paese dove regnava don Calò.
Doveva
certo divertirsi, per il mio stupore di fronte a ogni scoperta,
paesaggio, paese o persona, per le mie tante domande, la mia
petulanza nel volere risposte. Divertirsi, ché altrimenti non si
capisce il motivo per cui, finita la guerra, ripresi i suoi viaggi
d'affari, portasse sempre me, moccioso com'ero, sopra il camion per
strade sconnesse, per paesi ancora distrutti, me e non Cono o
Delfino, i fratelli più grandi, già con la peluria sul labbro, le
brache lunghe e la brillantina sulla chioma all'umberta. Divertirsi,
oppure era mia madre che gl'imponeva me, quale simbolo minuto e
incosciente della grossa famiglia che lasciava partendo, quale monito
vivo a pensare solo al lavoro, al suo dovere di padre e fors'anche di
marito leale. Pericoli tanti, uuuhhh, per le strade, per quel mondo
ancora sconvolto, truppe dovunque, e intorno, intorno a caserme e
bivacchi, sbandati, sbandate surtutto, schiere di femmine che,
saltate regole, usanze, perso ritegno, s'erano sdate.
Erano
stati prima brevi viaggi lungo la costa, viaggi a Caronia, Santo
Stefano, Tusa, e a Capo d'Orlando, Brolo, Gioiosa. E poi venne quello
lungo, di tante giornate, su per le Madonie e giù fino al centro,
nel più dentro dell'isola.
«Me
lo porto, va bene» sentii che disse a mia madre. «Preparagli bluse,
brachette...»
Mi
diedi poi arie coi compagni, dissi che all'oratorio non potevo più
andare, stare più nella squadra, che sarei partito, andato
lontano... L'autista, Agatone, aveva preparato il Ceirano, la cerata
lustra sopra il cassone, la rossa cabina brillante e odorante di
petrolio all'interno. Infilò la manovella nel buco, Agatone, girò
con tutta la forza, e il motore, sussultando, cominciò ad andare. Si
mise al volante, ed io in mezzo, tra lui e mio padre.
Al
balcone, erano madre e sorelle, ansiose e attente; sul marciapiedi, i
fratelli, le mani in tasca, il sorriso beato. Le donne agitarono le
mani nel salutare, i due «Ciao, pa'» dissero con le voci fonde e
insieme stridule, e a me «Ciao, Zigaca», ch'era il soprannome che
da tempo m'avevano dato.
Partiti,
vidi nello specchietto mia madre che si passava sugli occhi il dorso
della mano.
Andammo
lungo la costa, fra la piana e i colli d'agrumi, d'ulivi e il mare.
Dalla torre del Lauro sopra lo scoglio, da quella di Torremuzza,
Raisigerbi, al nostro passaggio, si levavano in volo gracchiando
aironi e calandre. Lontana, sporgente sul mare, era la gran rocca
rotonda di Cefalù. I lunghi ponti sopra le fiumare erano stati
distrutti, e al Furiano, al Tusa, al Pollina, andammo giù fra le
pietre e la fanghiglia dei letti. In quel mezzo settembre, le fiumare
erano ancora secche, fiorite alle sponde d'oleandri e di agavi.
Passata
Finale, cominciammo a salire, andare su per i monti, verso i pizzi e
i vasti altipiani delle Madonie.
Cambiava
man mano il paesaggio. Gli ulivi possenti e contorti divenivano
sempre più radi e lasciavano il campo ai faggi, ai lecci, agli olmi,
ai sugheri, che man mano infittivano, si facevano bosco. Scampanìi
di mandrie s'udivano qua e là, frullìi d'uccelli, abbai di cani.
Mio
padre indicava e nominava le vette, Torretta Carbonara Cervi, e gli
affastellati paesi sugli altipiani scoscesi, Pollina San Mauro Castel
di Lucio Collesano Caltavuturo Polizzi Scillato, il fiume Imera giù
nella valle.
«Cambia
marcia, adagio, frena!...» intimava ad Agatone mio padre. E quello,
ridendo «Principale, mi lasciasse guidare». Il radiatore poi si
mise a bollire, a fumare. «L'acqua ci vuole, l'acqua. Ferma!»
Eravamo fuori dal bosco, su una sella calva dove, da una parte e
dall'altra s'aprivano valli. In una, nel fondo, sovrastato da rocche,
era una masseria con alte mura intorno, con grate, feritoie, e,
dietro, stazzi, recinti di mandrie. Uomini si muovevano nel baglio,
dai comignoli s'alzavano fumi. Agatone, versata l'acqua nel
radiatore, con la tanica in mano, guardò giù e «Ah che ricotta,
che formaggio devono fare!...» esclamò. «Ho capito, hai fame.
Andiamo, vah.» Lasciato il camion sul bordo, dietro la carcassa
annerita d'un carrarmato tedesco, andammo giù per il viottolo.
Varcato il portale del baglio, i pastori, tacitando i cani, ci
vennero incontro.
«E
chi siete, da dove venite, che cercate per queste montagne?»
cominciarono a chiedere. Ci fecero entrare nel magazzeno fumoso,
accomodare sugli sgabelli di fèrula. «Dalla marina veniamo» disse
mio padre, «dalle parti di Capo d'Orlando, dov'è tutto limoni,
aranci e ulivi. Cerchiamo granaglie, orzo fave frumento. C'è tanta
penuria da noi, affamati siamo, uomini e bestie.» «Granaglie?»
dissero. «Le trovate più avanti, a Geraci, a Petralia, a Gangi, o
più giù a Leonforte e Villalba.»
Agatone
intanto fissava la mensola con sopra a colare caci e ricotte dentro
fiscelle. Il pomo aguzzo gli andava su e giù per il collo. Puntò
poi gli occhi su una cesta con dentro bei pani tondi colore dell'oro.
«Ci vendereste un po' di pane e formaggio, pane e ricotta?» chiese
mio padre. «Vendere?» fecero quelli, «che siamo alla bottega al
paese? Favorite, favorite!» e stesero un tovagliolo di lino sopra
una cassa, vi posero sopra pane, ricotta e formaggio. Agatone tirò
fuori dalla tasca il coltello, afferrò il pane, l'affettò. Lo
stesso fece con la ricotta, che, molle e odorosa, s'adagiò sopra le
fette di pane. Il pecorino col pepe emanò poi un odore più forte,
pungente. Sapori nuovi erano per me, come di erbe, di fiori, di
frutta. Riprendemmo quindi la strada, coi pastori che nel mezzo del
baglio là in fondo ci salutavano.
Traversammo
un boschetto di frassini, gli alberi della manna, prima di giungere a
Castelbuono. Un paese, questo, dominato dal vasto e possente
castello. Ci fermammo in mezzo alla bella piazza per riempire alla
fontana la tanica. Tutti s'affacciarono, da vicoli, case, per
guardare, guardare noi e il camion col suo lungo muso, il cofano, i
parafanghi, la cabina coperti di polvere. Poi le soste furono a
Geraci e, oltre il Salso, a Sperlinga, a Nicosia. Passando ancora per
boschi, per infinite distese desertiche pezzate di giallo o di nero.
Poi verde e verde di vigne nelle vallate. Sopra le alte rocche,
scabre, precipiti, erano castelli diruti, immensi palazzi solitari. E
pure i paesi, Gangi Sperlinga Nicosia stavano sopra o contro le
rocche, le case sembravano come germinate dalla pietra, con essa si
confondevano, tranne i castelli in alto, le chiese e i conventi che
spiccavano contro il cielo con le loro masse imponenti, coi loro
aguzzi campanili di smalto.
In
ogni piazza, mio padre ordinava ad Agatone di fermarsi. Si recava dal
commerciante locale, e così caricava sul camion qua uno o due sacchi
di orzo, là di grano duro. «Le fave più belle sono a Leonforte»
disse, e proseguimmo per Leonforte. Erano belle davvero, larghe e
bianche, con la striscia nera sulla testa. «Sono fave da 38» disse
orgoglioso il commerciante.
Era
già sera, e sostammo a Leonforte. Mangiammo alla bettola, dormimmo
nel fondaco dov'erano tanti paglioni, e tanti a dormire. Mio padre mi
tenne con sé, stretto per non farmi scivolare a terra.
«Le
lenticchie più belle sono a Villalba» disse l'indomani. E partimmo
per Villalba, ch'era lontana, molto lontana da Leonforte. Passammo
sotto la rocca di Castrogiovanni, bianca di nebbia, riattraversammo
il Salso e, dopo ore e ore, dopo petraie e deserti arrivammo a
Villalba. Là il commerciante ci disse che aveva sì le lenticchie,
da 26, 24, ma solo due sacchi, non più. Appena caricati, spuntò il
maresciallo dei carabinieri che ordinò: «Alt, da qui le lenticchie
non partono. Anche qui c'è penuria». Il commerciante poi,
nell'orecchio a mio padre: «Venisse con me». Mio padre allora
lasciò Agatone a guardia del camion, prese me per la mano e
«Andiamo» disse a quello. Il commerciante dopo un po' bussò a un
portone. Nell'ingresso apparve un vecchio con gli occhiali e il
bastone. «Che c'è?» chiese. Il commerciante, afflitto,
cerimonioso, raccontò la vicenda delle lenticchie e del maresciallo.
Il vecchio stette zitto, scrutandoci bene. Poi, risoluto, battendo il
bastone sull'impiantito, «Fra mezz'ora potete partire con le
lenticchie».
Mio
padre non volle, in piazza, fece scaricare subito i due sacchi. «Mi
dispiace» disse al commerciante.
E
lungo la strada, a me: «Lo vedi? In questi paesi ci sono persone che
comandano più dei marescialli. Quando tornerai a scuola, lo
scriverai questo in un bel copiato».
Il
copiato, più o meno bello, è questo che ho scritto qui, dopo quasi
sessantanni. A scuola, nei libri imparai poi a leggere le Madonie, la
storia dei paesi suoi medievali, del latifondo, dei conflitti che in
quei luoghi s'erano svolti tra contadini e feudatari, contadini e
gabelloti, imparai della ribellione dei Fasci del 1893 e dei morti di
Caltavuturo; delle lotte contadine nel secondo dopoguerra e dei
contadini e capilega ammazzati dalla mafia. Imparai del grande
capomafia di Villalba, don Calò Vizzini, quello che comandava più
del maresciallo, che insieme a mio padre avevo incontrato in quel
lontano 1943.
Vincenzo Consolo, La
mia isola è La Vegas, Mondadori 2012, pp.170-174.
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