A 700 anni dalla morte
si ricorda il filosofo che con la sua «ars combinatoria» affascinò
Bruno, Descartes e Leibniz.
Maria Bettetini
Raimondo Lullo (1233-1316)
Lo hanno definito«dottore
illuminato», ma anche christianus arabicus, di sé diceva di essere
phantasticus, che allora significava pazzo, folle, anche un po’
idiota. Era Ramon Llull, maiorchino contemporaneo di Tommaso, di poco
più anziano di Dante e Giotto. La sua vita, come si intuisce dagli
aggettivi che lo hanno definito, fu un’esplosione di intuizioni,
studi, viaggi, libri, contatti con i mondi più diversi, con momenti
altissimi, come la composizione della sua arte combinatoria, ed altri
che ci lasciano perplessi, come l’istigazione a un’altra
crociata, dopo il fallimento delle ultime. Richiamo inascoltato, per
fortuna. Dalla sua morte sono passati sette secoli esatti, molte sono
le iniziative di questo anno “lulliano” che si concluderà il 27
novembre.
Il rischio è dunque quello di perdersi tra una vita ricca e brillante, forse chiusa con un martirio che avrebbe motivato la sua beatificazione, tra duecentottanta opere, tra i suoi studiosi che spesso sono veri e propri fans: per evitarlo, prendiamo in considerazione solo due aspetti del beato Raimondo Lullo. Il primo, l’intuizione che ancora oggi fatichiamo a comprendere – della necessità di studiare le lingue e le culture del mediterraneo per poter raggiungere pace e unità. Il secondo, la sua ars, oltre pregiudizi e incomprensioni.
Un valido aiuto viene dalla pubblicazione del primo di tre volumi di magistrale fattura, in cui Pere Villalba i Varneda, lullista di fama, ha trascritto la vita di Raimondo, inserendo documenti, immagini, e brani o sunti delle opere, tutto in ordine cronologico, tutto in catalano (che non è così astruso per chi si muove tra italiano, francese, latino e qualche dialetto del nord Italia).
Una sorta di database di carta,
ottima carta, nato grazie all’appoggio di Elsa Peretti, che proprio
a Barcellona ha mosso i primi passi nel mondo della moda e del
design, prima di diventare disegnatrice per Tiffany, che le ha
chiesto l’esclusiva fino al 2033, quando la signora sarà quasi
centenaria. Il volume contiene anche un dvd italiano (con sottotitoli
in molte altre lingue), in cui i professori Tessari (Padova) e
Rigobon (Venezia) ricostruiscono le vicende della vita e delle opere
di Lullo.
Il ragazzo frequentò la
bella società, fu apprezzato e premiato a corte, si sposò ed ebbe
due figli: non perdette mai lo stato di laicità, solo dopo i
quarant’anni si fece terziario francescano (e questo già è un
elemento di grande modernità, se si pensa che è solo con l’ultimo
Concilio che i laici hanno iniziato ad aver sempre più voce nelle
questioni ecclesiastiche). A trent’anni, in età matura per quei
tempi, riceve un’illuminazione e ha delle visioni di Cristo in
croce, ma solo dopo diversi mesi e un colloquio con un santo
domenicano si risolve ad abbandonare i beni e la famiglia
(quest’ultimo un elemento non proprio moderno e positivo), per
dedicarsi a una sola missione: l’unificazione dei tre monoteismi.
Tutti discendenti dall’unico padre nella fede Abramo, a Ebrei e
musulmani manca poco per arrivare alla verità, pensa Lullo. Un
cammino da percorrersi non con forzature o prediche, ma seguendo la
logica che non può portare se non al vero. La buona logica,
naturalmente: un’«arte»che Lullo studia in Aristotele (nei testi
tornati in Europa proprio attraverso gli arabi), in Cicerone, ma non
solo nel pensiero occidentale.
Il novello missionario infatti ritiene fondamentale conoscere la lingua e la cultura di chi deve essere accompagnato verso la vera religione, ed eccolo chiedere a un servo saraceno di insegnargli l’arabo, studiare il provenzale, l’ebraico, senza trascurare greco e latino e ancora altre lingue.
Le sue opere sono in catalano, latino, arabo, spesso da lui tradotte da una lingua all’altra. Temendo di essere travisato, ogni opera contiene l’indice delle precedenti: anche così però non si poté evitare, alla sua morte, la contemporanea comparsa di decine di libri a suo nome, quasi tutti di alchimia, la passione che avrebbe attraversato i due secoli successivi.
Accadde così che
Giordano Bruno nel 1598 pubblicò a Strasburgo un’antologia del
Lullo vero e di quello spurio, commentando tutto dalla sua
particolare visione panteista, la stessa che gli costò il rogo in
Campo de’ Fiori. Su Lullo, come fosse stato maestro di Bruno, cadde
il silenzio, rotto solo secoli dopo. In teoria. Nella pratica l’ars
lulliana rimaneva come punto di riferimento per tutti quelli che
cercavano il «linguaggio universale», una mathesis, una clavis che
consentisse la lettura dell’universo intero, spirito e materia,
scienza e mistica
Pertanto le «ruote» in cui Lullo collocava le nove dignitates divine e poi attraverso altre cinque o dodici ruote concentriche garantiva di poter esprimere tutte le possibili combinazioni dell’universo, ecco questa sorta di vecchio disco orario, in cui noi si combinavano solo giorno, mese, ora, esercitò un fascino enorme su Descartes, su Leibniz, su Newton, sui matematici del Novecento, su Turing.
Tutti uomini tesi a scrivere il libro migliore del mondo, in cui si leggono tutte le domande possibili e tutte le risposte. E come Turing, coi suoi cilindri, per trovare la combinazione cifrata dei messaggi militari tedeschi doveva provarne tantissime, così dalle ruote di Lullo uscivano anche combinazioni false, da escludere come i mucchi di lettere senza senso, ma necessarie per trovare le combinazioni giuste. Descartes, che un po’ per prudenza un po’ per vanità non citava mai nessuno, nel Discorso intorno al metodo nomina Lullo, e in sintesi afferma: io non faccio come lui, che cerca cose che non ci sono attraverso cose che non servono. Ed ecco come una grande mente può farsi scappar dalle mani il metodo scientifico, che procede, come sappiamo ormai, per tentativi ed errori, per esperimenti “inutili” alla ricerca di qualcosa che non sa, ancora, se mai esista.
Il Sole 24Ore – 22 maggio 2016
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