26 maggio 2016

UNA IPOTESI DI LETTURA DELL'OPERA DI HIERONYMUS BOSCH


Particolare de " Il giardino delle delizie" di H. Bosch


H. Bosch è uno dei più misteriosi e affascinanti pittori di tutti i tempi e la sua opera si presta a molteplici letture. Oggi proponiamo quella di Guido Araldo, ripresa da http://cedocsv.blogspot.it
 
Guido Araldo
Hieronymus Bosch. Il grande iniziato, maestro dell’archetipo
Tra i più grandi pittori di tutti tempi, a mio modesto parere, figura il fiammingo Hieronymus Bosch, che si suppone sia nato il 2 ottobre di un anno imprecisato tra il 1450 e il 1454. Un enigma lo accompagna: l'ultimo grande artista medievale o il primo grande poeta simbolico dell’età moderna? Un’unica certezza: indubbiamente un genio visionario, testimone di un’umanità irrimediabilmente derelitta, senza speranza di salvezza. Anche il suo “giardino delle delizie” è un incubo! Finora nessuno sembra aver notato che in molte sue opere sono presenti, in un autentico diluvio di simboli, la civetta e la gazza; quasi una firma segreta.
La civetta, ovviamente, non allude a superstizioni medioevali, quale messaggera di cattivo auspicio, né, tanto meno, è messaggera di morte secondo bigotte credenze popolari; ma è il simbolo di Atena, la sapienza, che osserva attonita l’umanità, a volte seminascosta al centro geodetico della scena, come nel Giardino delle delizie, appena visibile, ma essenziale e dominante, come nel mitico “one” americano, il dollaro; dove è presente, ma mimetizzata e pochissimi la vedono!
Bosch resta il più grande artista criptico, misterioso, indecifrabile. Forse ha disseminato d’impercettibili indizi la sua mirabolante opera, quasi un’odissea: la dannazione, la corruzione, la degenerazione fanno parte dell’universo fin dal suo primo palpitare. Simile concetto è attestato dal Trittico delle Delizie che, chiuso, rappresenta il “terzo giorno” della Genesi e, aperto, nello sportello di sinistra evidenzia come la razza umana sia fallace dai suoi stessi albori, in un contesto, il paradiso terrestre, che soltanto all’apparenza sembra idilliaco. L’orrore infatti affiora negli osceni animaletti emergenti dall’acqua e il mondo, appena abbozzato da Dio creatore, giocatore di biliardo nel cosmo, già si palesa sottilmente inquietante.
In alcuni quadri la civetta sovrasta emblematicamente la scena, come nel viandante o venditore ambulante, più ancora nel concerto nell’uovo e nel carro di fieno, quasi sempre posata su un emblematico ramo secco; altre volte, invece, sta nascosta come nella fronda recisa sovrastante la nave dei folli o nel paniere del prestigiatore di fronte alla più perfetta e sintetica rappresentazione dell’umanità costituita da creduloni e ladri. Soltanto un bambino dal volto stupito sembra avvedersene.

La civetta pare vigilare attonita e silenziosa e, forse, attesta che la via della salvezza è possibile, ma stretta come la cruna di un ago, e chissà: probabilmente ne conosce il percorso. Osserva e tace di fronte all’umanità persa in una caduca follia, immersa irrecuperabilmente nei suoi stravizi.La gazza, compagna della civetta in molti quadri, è notoriamente ladra, come ladra è l’umanità; ma allude anche al mondo della conoscenza occulta, poiché parente del corvo: è curiosa e sovente sfrontata. La sua presenza attesta che è possibile progredire nella conoscenza, in direzione della civetta, ovvero di Atena, la sapienza. La maturazione interiore indispensabile per non affogare nel grande incubo dell’oceano di un’umanità perduta, senza speranza di redenzione, ormai demoniaca.

A questo punto come non ricordare una leggenda illuminante? La gazza fu l’unico uccello che si rifiutò di salire sull’arca di Noè, preferendo restare appollaiata su un tetto e non fu sommersa dal diluvio. Per questo motivo si diceva che la gazza costruisca il nido su case solide, sicure, che nessuna alluvione porterà via, nessuna frana travolgerà e nessun terremoto abbatterà: la casa dell’hortus conclusus, solitamente remoto alle abitazioni degli uomini. In una simile ottica la civetta e la gazza sarebbero pertinenti al mondo metafisico e alluderebbero a una conoscenza diversa da quella tradizionale.
Hieronymus Bosch fu poeta, testimone di tutti i tempi e anche profeta che magistralmente esternò i suoi incubi e le sue arcane conoscenze in quadri senza tempo e senza spazio. Vaghi documenti lo vogliono affiliato a una confraternita segreta delle Fiandre e del Brabante di cui ne descrisse, allegoricamente, enigmi e segreti.
Jeroen Anthoniszoon van Aken, in arte Hieronymus Bosch, vissuto nella città del Bosco Ducale dalla quale non risulta si sia mai allontanato, fu artista sfuggente, indecifrabile: poeta onirico sospeso sul mondo e profeta insondabile dei destini dell’umanità.
In tempi recenti la stessa psicanalisi ha cercato una chiave di lettura nelle sue opere, senza riuscire a decifrarle: i suoi quadri sembrano immense scenografie enigmatiche, forse alchemiche, avulse alla razionalità, impregnate di messaggi trascendentali, dove il Medioevo più profondo si fonde nella modernità più futurista. Una pulsazione di vita incontenibile, inaccessibile, inafferrabile.
Di certo Hieronymus Bosch non fu un pessimista: fu, semplicemente, un osservatore disincantato del mondo, sconcertato testimone di un’umanità sgraziata, crudele, avida e allucinata. Un’umanità sul grande palcoscenico del mondo senza prospettiva di salvezza, di redenzione, poiché dannata al momento stesso della sua nascita.
Sono intimamente convinto che la drammatica poetica pittorica di Bosch sia stata ispirata dal più inquietante e misconosciuto versetto dell’Apocalisse: l’ultimo del 13° capitolo, dov’è nascosta la verità indicibile: Hic sapientia est! Qui habet intellectum, computet numerum bestiae. Numerus enim hominis est et numerus eius sescenti sexaginta sex”.
“Qui sta la sapienza! Chi ha intelletto, computi il numero della bestia. In verità, è il numero dell’uomo e il suo numero è seicento sessanta sei”. Si badi bene: “dell’uomo” e non “di un uomo” com’è comunemente tradotta la frase, in maniera fuorviante e accomodante, palese manipolazione teologica. Il 666 è numero dell’umanità, poiché il genere umano si configura come la Bestia. Ecco la verità arcana, nascosta nell’Apocalisse: l’umanità, forgiata dal fango da un demiurgo inferiore, impregnata dalle ceneri dei Titani secondo il mito di Dioniso e Orfeo, è cieca, orribile, miserabile e soggiace ineluttabilmente al Male. Una verità nota a Santa Romana Chiesa fin dalle origini, che per purificarla dal fango del demiurgo inferiore ricorre al sacramento del battesimo, rinnovato costantemente tramite l’eucarestia. Soltanto pochi eletti, secondo l’Apocalisse, grazie alle loro azioni, potranno accostarsi alla “scala del cielo” (che è doppia poiché ascendente e discendente) e sfuggire al destino dello “stagno di fuoco” che, però, sottintende la predestinazione.
Hieronymus Bosch fu pittore inquietate e seducente, che ineluttabilmente attirò l’attenzione dei grandi del suo tempo, a cominciare dall’uomo più potente dell’epoca, sul cui impero mai tramontava il sole: Filippo II di Spagna che, per quanto pio, bigotto e cattolicissimo, si sentì coinvolto in tanta inquietudine.

Troppo scarse le fonti d’archivio per tracciare una biografia attendibile: sparuti e freddi atti notarili tra il 1474 e il 1480, in cui si desume la firma di “Jeronimus, detto Joen".
E’ noto il matrimonio il 15 giugno 1481 con Aleid van de Meervenne, probabilmente più avanti di lui nelle stagioni della vita, forse vedova: un matrimonio senza progenie, che portò l’artista a vivere nella casa della moglie, in “den Salvatoer" sulla Piazza del Mercato, di fronte al municipio.
Più intrigante la sua appartenenza alla misteriosa confraternita maschile e femminile, laica ed ecclesiastica, di Nostra Diletta Signora, che aveva per simbolo un giglio tra le spine: “sicut lilium inter spinas”; altri, sicuramente più famosi (i Rosacroce), avevano la rosa al posto del giglio. I membri di quella confraternita erano noti come "i fratelli del cigno" e si diceva che fossero soliti incontrarsi in agapi rituali definite allegoricamente “i banchetti del cigno". Di certo, durante questi incontri conviviali in “stanze dai passi perduti”, non si mangiavano i cigni, come molti critici hanno supposto. Le scarse documentazioni su Bosch attestano che provvide ad allestire uno di questi banchetti in casa sua, tra il 1498 e il 1499.
Il misterioso pittore del “Bosco Ducale” fu partecipe di questa confraternita probabilmente fino alla sua morte avvenuta il 9 agosto 1516: una confraternita attiva sul piano culturale, poiché provvedeva alla pubblicazione di testi umanistici e soprattutto gestiva una “Scuola Latina” che ospitò, tra il 1485 e il 1487, Erasmo da Rotterdam, all’epoca adolescente.

Presso la Scuola Latina s’incontrarono Hieronymus ed Erasmo? Hieronymus, essendo più vecchio di tre lustri fu suo maestro ? Quien sabe? Quali suggestivi collegamenti tra “la nave dei folli” di Hieronymus e “l’elogio della follia” di Erasmo! Sussiste forse una contiguità tra la loggia di Nostra Diletta Signora e la loggia degli “homines intelligentiae”, corrispondente agli “Illuminati”, attiva a quell’epoca nelle Province Basse? Per la verità nulla è noto sul conto della loggia di Nostra Diletta Signora: per alcuni una confraternita eretica mirante all’innocenza paradisiaca del giardino delle delizie tramite l’amore, anche carnale; per altri un’arcana continuazione dell’eresia catara, mai totalmente sopita dalla Santa Inquisizione, nonostante gli innumerevoli roghi accesi in tutta Europa.
Va precisato che, per quanto concerne gli hopmines intelligentiae, è incerta l’esistenza, similmente ad altre confraternite, come i Rosacroce, che a quei tempi non potevano assolutamente operare alla luce del sole!
Tra tanti dubbi, una certezza: lo stile di Hieronymus Bosch è unico, inconfondibile: un fiore insolito sbocciato nella storia dell’arte, inedito, diverso da tutte le altre esperienze pittoriche, ricchissimo di dettagli inquietanti, allucinati, caratterizzati da una fervida creatività, con vaghi richiami all'arte della miniatura.
Problematica la stessa datazione delle opere di Bosch: poche quelle firmate, a volte con più versioni dello stesso soggetto; altre volte è persino incerta l’attribuzione, come nel caso dei “vizi capitali”. A complicare il contesto provvidero numerose imitazioni, sovente da artisti di elevata capacità tecnica. Una certezza: tutte le opere di Hieronymus Bosch furono realizzate su tavole di legno di quercia. Anni di studi, pool internazionali di ricercatori, il coinvolgimento di decine di musei, una continua ridiscussione delle sue opere non hanno accresciuto di molto le conoscenze su questo enigmatico artista.
Gli incubi e le illuminazioni di Bosch restano messaggi indecifrabili: la più sublime, implacabile, obiettiva rappresentazione dell’umanità, dal destino apocalittico, persa in miraggi allucinati, sprofondata nei suoi peccati; l’idiozia umana che si rinnova per omnia sæcula sæculorum.
L’insondabile pittore di Bosco Ducale è un genio anticipatore illogico del surrealismo, artefice di un immaginario collettivo nuovo e nel contempo antico, costellato da visioni apocalittiche inquietanti, terrorizzanti, mai tranquillizzanti. Quasi un viaggiatore del tempo in fuga dal futuro, a bordo di chissà quale macchina del tempo, approdato per caso nelle brume del Nord Brabante. Tolkien, Disney, George Lucas, Collodi e Lewis Carroll devono essersi affacciati sul suo universo insondabile, che palesemente trascende le gargolle, gli angeli, i demoni, i bestiari medioevali. Il mistero sembra accomunare Hieronymus Bosch, Omero e Shakespeare.
Il suo messaggio sta sospeso inesplicabile, inestricabile, insondabile tra il lento crepuscolo del Medioevo fiammingo e la nuova stagione di Erasmo da Rotterdam e di Martin Lutero, in un’Europa prossima ad ardere tra le fiamme di una guerra di religione che si rivelò il più grande olocausto di tutti i tempi. La sua pittura fu l’ultimo esorcismo del Medioevo e la prima visione pittorica postmoderna, impregnata di una teatralità inedita, di cui nessuno riuscì a coglierne l’eredità.
Le sue opera trasudano di cosmica fragilità, d’apocalittica drammaticità, d’alchemica allucinazione: un percorso soltanto all’apparenza bizzarro che si diparte dal venditore ambulante, vagabondo con una scarpa e una pantofola in un mondo in dissoluzione, per approdare alla “morte dell'avaro”, di fronte al più insondabile enigma di tutti i tempi che è l’ultima porta, al di là della quale sta l’ignoto, nonostante le certezze di tutte le verità rivelate.

C’è rassegnazione, non denuncia, nel trittico del “carro del fieno”, sospeso tra la malinconia del paradiso terrestre e l’inferno dell’apocalisse che verrà. E’ la perfetta raffigurazione dell’umanità senza destino, senza meta, nella processione eterna del carro di fieno dove trionfa l’avidità universale, tra lussuria e orgoglio: le tre fiere di Dante (lonza lupa e leone). L’intero mondo ne è partecipe: dall’imperatore al papa, dal laico al chierico, dal ricco al mendicante, nessuno escluso: tutti desiderosi d’accaparrarsi un’inutile porzione di fieno, a qualsiasi costo, a qualsiasi prezzo, anche ricorrendo all’omicidio. Tutti ignari del comune destino: diretti verso il Leviatano, il pannello sulla destra, inestricabile campionario di sadismo.
Nella visione metafisica di Hieronymus Bosch non esiste il purgatorio, o meglio: il purgatorio è questo stesso mondo folle in cui si consuma l’esistenza umana. L’inferno musicale del giardino delle delizie è perfettamente pertinente all’umanità che sprofonda sempre di più nelle sue allucinazioni, nei suoi deliri, nei suoi vizi: la Valle di Siddim, Sodoma e Gomorra, in attesa del fuoco dal cielo, dell’Apocalisse.
Eppure l’unico quadro riferito all’Apocalisse dipinto da Bosh: san Giovanni a Patmos è caratterizzato da serafica beatitudine, a eccezione dell’inquietante “grillo” in armi in basso a destra e dell’uccello appiedato, quasi attonito e solitario in basso a sinistra. San Giovanni peraltro è giovanissimo, mentre la tradizione vuole abbia scritto l’Apocalisse nell’isola di Patmos vecchissimo, ormai novantenne.

In tutti i soggetti religiosi di Bosch, anche più semplici, a volte idilliaci, affiorano dettagli inquietanti, sovente antropomorfi. Esemplare il San Girolamo penitente intento a pregare di fronte a uno stagno dove galleggiano zucche rotte e psichedeliche, in compagnia dell’immancabile, enigmatica civetta e di una gazza lontana, indifferenti al caos universale e al suo dramma personale. Come negare che nell’opera enigmatica di questo grande artista sia presente un’etica nascosta?
Fu proprio questa sua seduzione criptica a determinare lo straordinario successo delle sue opere: principi, re, prelati, borghesi ne restarono sedotti poiché, forse, inconsciamente condividevano il messaggio occulto presente nei suoi quadri. Secoli dopo, a stupirsi della sua criptica opera, furono i critici d’arte i cui pareri, come sempre in simili casi, furono pesantemente influenzati da considerazioni soggettive.
Bosch è il pittore del mistero, l’indagatore della perduta anima mundi di un’umanità derelitta in balia della follia. L’artista si compiace nel descriverla con disincanto. Il tema “cardine” dell’opera di Bosch è infatti l’umana follia, che si palesa compiutamente in tre dipinti: l’estrazione della pietra della follia (1475 – 80), il concerto nell’uovo (1480 circa) e la nave dei folli (1490 – 1500). Tematica sottilmente presente in molte altre opere di Bosch.
La pietra della follia era un proverbio molto diffuso nelle Fiandre: si credeva vi fosse un sassolino nel cervello in grado di far sragionare gli uomini. Esemplare il chirurgo con l’imbuto in testa, simbolo di stupidità, intento ad estrarre il sassolino dalla testa del paziente, più ignorante di colui che dovrebbe curare.
A sua volta la nave dei folli era una simbologia presente nell’immaginario collettivo europeo già al tempo del Medioevo, se non in epoca più antica: un’allegoria che oggi appare sempre più attuale, in un mondo stravolto dall’inquinamento, minacciato da armi di distruzione di massa apocalittiche, invaso da milioni migranti senza radici e identità, imbevuto di dilaganti fanatismi religiosi. Il villaggio planetario postmoderno acquisisce sempre di più le connotazioni di una nave di folle gaudenti alla deriva nella palude del mondo, dedite al panem, circenses, x factor e grande fratello. Una nave prossima ad affondare mentre la civetta sta nascosta tra la fronde, indifferente al ladro, alla follia, al delirio, alla deriva.

Più enigmatico il concerto nell’uovo cosmico e alchemico, sotto la supervisione della civetta e della gazza, più altri uccelli altrettanto simbolici come i corvi e il pellicano, alcuni finiti in pentola. Anche in questo caso non manca il personaggio con l’imbuto in testa. Un’altra nave di folli, questa volta cosmica, vagante nel tempo e nello spazio con improbabili inni (gregoriani?).
In Bosch il messaggio è sottile e conduce a una verità spiacevole: impossibile qualsiasi forma di redenzione. L’umanità è dannata! Un messaggio per i posteri, oggi finalmente comprensibile, agli albori del XXI secolo.

Anche nel quadro del vagabondo o venditore ambulante o figliol prodigo il riferimento alla follia è sottinteso: chi mai è questo personaggio, se non il Matto dei Tarocchi? O, forse, è Hieronymus Bosch stesso, vagabondo in un mondo disarmonico, popolato da un’umanità squallida, dedita al vizio, ai piaceri, con steccati chiusi da squadre e case in rovina?
In questo quadro la civetta, sempre poggiata su un emblematico ramo secco, sembra ravvivarsi: non sta seminascosta come nella borsa del prestigiatore o al centro del giardino delle delizie, né si atteggia indifferente come negli altri quadri; ma pare voler indicare la strada al vagabondo o pellegrino.


E’ la via iniziatica della “loggia del cigno”, di Nostra Diletta Signora? Il cigno, vale la pena ricordarlo, trainava il cocchio aquatico di Afrodite, simile a grande conchiglia. Il male insito nell’umanità è perfettamente raffigurato nell’ecce homo (1470): impossibile la redenzione collettiva vagheggiata dal cristianesimo. Soltanto l’individuale via iniziatica può forse costituire una speranza: similmente alla Veronica nella folle mostruosità umana della Salita al calvario”, per il santo telo che tiene tra le mani; ma, forse, è anch’essa soltanto una ladra, soddisfatta di quanto è riuscita a realizzare, a procurarsi, che probabilmente venderà per pochi denari, come squallida meretrice.
Jeroen Anthoniszoon van Aken sta in attesa dell’Apocalisse, che verrà; anzi, è già sospeso sul confine del mondo.
Nella Salita al calvario di Gand, ben più incisiva di quella di Vienna, ogni speranza di redenzione si è dissolta: gli esseri umani sono rappresentati come esseri abominevoli. Non ce n’è uno che si salva! Aspetti demoniaci, oggi si direbbe zombi, per i quali non sussiste speranza di ravvedimento, di riscatto, di salvezza: similmente a papa Clemente V in Dante, sono esseri i cui simulacri sono sulla terra, mentre già stanno in incubi infernali.

La salvezza non può essere intesa come un fenomeno di massa, similmente all’illusione cristiana che ha marchiato i secoli: l’umanità è dannata, perduta, irrecuperabile. Dio invierà un nuovo diluvio universale e, questa volta, non ci sarà Noè con la sua arca. Un sottile filo conduttore attraversa l’opera di Bosch, sotto il segno della civetta e della gazza: l’anelito alla salvezza, se mai esiste, può essere soltanto individuale, quasi misantropo.
Valga ad esempio il trittico delle tentazioni di Sant’Antonio, attorniato dal più assoluto delirio di un’umanità più bestia di tutte le bestie, sprofondata in un mondo corrotto, in rovina, debordante di violenza, orrore, irrazionalità e concupiscenza. Un mondo che in pieno Rinascimento era soltanto intuibile a un visionario straordinario qual era Hieronymus, che sembra intuire le devastanti guerre di religione nelle Fiandre e in tutte le contrade del Nord Europa ridotte a cimitero.
Un mondo che sulla soglia del terzo millennio si va palesando in tutta la sua drammaticità, con 7.500.000.000 d’individui degni dei peggiori bestiari medievali che si aggirano famelici e devastanti su un pianeta allo stremo, prossimo al collasso, in cui la stessa esistenza degli altri esseri viventi è negata.
Viva panem, circenses e l’isola dei famosi!
Guido Araldo

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