08 maggio 2016

FELICIA E PEPPINO IMPASTATO



Il primo volantino ciclostilato che rivela l'origine mafiosa del delitto

L’altrove di Felicia e Peppino Impastato

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«Il proprio osso frontale gli taglia la strada, egli si batte la fronte contro la propria fronte fino a sanguinare», annota Franz Kafka nel 1920. Per lo scrittore boemo il confronto con l’origine – che coincidesse con Praga «matrigna» o con un padre ostile – fu sempre un’esperienza che, se generava frustrazione, era allo stesso tempo un’occasione di conoscenza.
L’origine, nella prospettiva di Kafka, non se ne sta immobile alle nostre spalle ma è sempre davanti a noi, o meglio in noi, l’osso frontale che ci taglia la strada. Ciò che ininterrottamente siamo.
Una condizione che trova nella cosiddetta «sicilianità», quella di cui Leonardo Sciascia descriveva il potenziale metaforico, una sua specifica declinazione. Una materia caotica e ambigua che il luogo comune addomestica elevando il termine «radici», e tutto ciò che gli è connesso, a una piccola religione, motivo di commozione e orgoglio, oggetto idealizzato se non ideologizzato.
Nel presumere di dirci come siamo fatti, l’ideologia delle radici ci fornisce spiegazioni, o meglio giustificazioni, ancora più esattamente alibi. A ciò che siamo, dice l’ideologia della sicilianità, non c’è alternativa, e dunque non ci resta che prenderne atto e allargare fatalisti le braccia, o addirittura sollevarle al cielo per celebrare la nostra origine-destino che da tutto ci assolve.
Tra la fine degli anni ’50 e l’inizio dei ’60, quando Peppino Impastato passava dalla preadolescenza alla prima giovinezza cominciando a costruirsi una fisionomia adulta, il contesto socioculturale in cui viveva – il suo osso frontale – era molto definito. Durante il fascismo suo padre, Luigi, aveva trascorso tre anni al confino per attività mafiose; contrabbandiere, aveva relazioni dirette tanto con il vecchio capomafia di Cinisi, Cesare Manzella, quanto con il nuovo, Gaetano Badalamenti.
Nel ’47, il matrimonio di Luigi con Felicia Bartolotta – che provò a prendere le distanze dalle implicazioni criminali del marito –, non riuscì ad alterare in modo significativo il milieu in cui Peppino, che nascerà l’anno dopo, sarebbe cresciuto: la logica del compromesso, così come la pratica della compromissione, erano la sostanza del quotidiano, ciò di cui si era fatti. Un puro e semplice adattarsi all’ambiente poteva essere considerato, per Peppino, automatico ed elementare: persino inevitabile, l’unica direzione in cui procedere. E invece tra la fine dei ’50 e l’inizio dei ’60 accade qualcosa che non solo non ha a che fare con la manutenzione-perpetuazione delle radici, ma si configura come una loro reinvenzione.
Come se l’Impastato adolescente si fosse messo nelle condizioni di scegliersi una nuova origine. Non è possibile sapere con certezza che cosa determinò l’abiura e il drastico cambiamento di rotta; fatto sta che a partire dai quindici anni Peppino si allontana dal padre, prende a militare nell’area del Psiup di Cinisi, fonda «L’idea Socialista», partecipa con Danilo Dolci alla Marcia della protesta e della pace e acumina il suo strumentario analitico, dando luogo a un processo di «sradicamento» culturalmente esemplare; un’autocritica – che è al contempo una critica della realtà – in gran parte agita attraverso il linguaggio.
Per averne un riscontro empirico basta ascoltare in rete le registrazioni di Onda Pazza, la trasmissione «satiro-schizofrenica» che Impastato conduceva ogni venerdì su Radio Aut (da lui stesso fondata nel ’76): dalla sigla di testa – quell’antifrastico Facciamo finta che… cantato da Ombretta Colli – all’uso ironico del García Lorca di Erano le cinque della sera, dai calembour alla rumoristica improvvisata, dall’uso sistematico del paradosso al bozzetto che parodiava «Tano Seduto» Badalamenti e gli altri «grandi capi delle grandi famiglie indiane di Mafiopoli», in quel programma dove essere fantapolitici serviva a essere realistici era proprio il linguaggio, in tutta la sua vitalità eversiva, a venire reclutato per conseguire un obiettivo ben preciso: svelare il ridicolo costitutivo del pensiero e delle pratiche mafiose.
Ciò che dunque individua il connotato tragico del percorso di Peppino Impastato e di sua madre Felicia – che dall’uccisione del figlio nel ’78 fino alla morte nel 2004 ha aperto la sua casa e ha affrontato a viso aperto Gaetano Badalamenti arrivando a vederne, nel 2002, la condanna all’ergastolo – è che quello a cui entrambi hanno reagito non era esterno ma prima di tutto interno, intrinseco; non era un boss a cento passi da casa, e neppure un padre nella camera accanto, ma era la propria camera, la propria persona, il cumulo di impliciti che nel tempo era sedimentato nella propria cultura, nel proprio immaginario, persino nel proprio istinto.
Ciò a cui Peppino Impastato e Felicia Bartolotta si sono contrapposti è quello a cui l’ideologia delle radici considera impossibile sottrarsi: l’origine come alibi. Entrambi, scontrandosi con il proprio osso frontale, hanno patito, hanno insistito: si sono fabbricati un altrove.
Il 10 maggio andrà in onda su Rai 1 Felicia Impastato, il film di Gianfranco Albano con Lunetta Savino nel ruolo della madre di Peppino. È una storia che ha senso attendere con fiducia, augurandosi che chi l’ha raccontata abbia eluso quell’inerzia che imprigiona buona parte delle narrazioni televisive italiane persuase di dover edificare educatissimi santini seriali, e abbia invece percepito e messo in scena la strutturale contraddittorietà della vicenda di questo figlio e di questa madre (in quest’ordine: perché la sensazione è che alla sua morte il figlio sia diventato la matrice culturale della madre: Peppino l’origine di Felicia).
Una materia che si fa racconto nei pressi di Sofocle, Shakespeare e Racine, nel magma dell’identità, tra gli eversori della propria origine, laddove per riuscire a fissare il nemico negli occhi occorre per prima cosa guardarsi allo specchio e fermarsi a comprendere chi si è stati e chi si è, immaginando che oltre alle radici fameliche che tutto divorano ci sono i rami, che potranno anche essere fragili ma tendono naturalmente ad allungarsi verso l’alto: verso quell’altrove dove ognuno può correre il rischio di decidere chi vuole essere.

Articolo  uscito su Repubblica  e ripreso da  http://www.minimaetmoralia.it/


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