16 maggio 2016

UNA LUCE NEL BUIO

Il Trionfo della Morte (600x642 cm) conservato nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo

        Un mio caro amico ha pubblicato la settimana scorsa un originale elogio del buio. Il saggio, malgrado qualche ridondanza, è molto bello e stimolante. Ripropongo di seguito il suo inizio per invogliare i più curiosi a leggerlo per intero su https://www.scribd.com/doc/311459248/Elogio-Del-Buio-03-05-16


        Un mondo in frammenti, tanti pezzi che volano dalla strada al cielo. Una polverizzazione senza coscienza unificante. Una nebulosa di simboli e di segni che vagano in cerca di significato. Da Occidente ad Oriente si susseguono i deserti delle afasie, gli enormi depositi tecnologici, agglomerati disumani che combinano dati ed informazioni per generare ancora nuove lande e nuove steppe, polverose ed abbacinanti di riflessi metallici. Fabbriche di dominio h24. Celle insonorizzate in cui rinchiudere a fila serrate unità senzienti.

        Restano bandoli di rapporti sfilacciati, frammenti di divari comunicativi, piattaforme politiche sospese sul nulla. Resistono al più le antipatie e gli odi duraturi. Gli amori remoti mai ricambiati. Esili tracce di ego, di esperienze individuali che si sfiorano senza toccarsi e che si lasciano dietro un alone di tossicità.

         Da questo mondo esploso che richiama alla mente la scena finale di Zabriskie Point (M. Antonioni, 1970) emerge, come una marea nera, il bisogno del buio. Una nuvola nera (“La nube della non – conoscenza”), una notte fitta dove subentrare per ritrovare, nell’ordine, i sensi, il corpo, la mente, le idee, l’anima, la comunità.

        Staccare gli occhi dalla luce del monitor per gettarli nel buio, il luogo dove non si trova, dove il dubbio prevale, dove si disegna con le dita la mappa muta di una geografia senza nomi: la geografia del dubbio e dell’incerto: la non risposta.

        Non ci sono sentenze a dare una luce sozza al cammino.

        La visione è il luogo della conoscenza. Le tenebre il luogo della non – conoscenza. Così è detto.

        Ma quali occhi sono in grado di vedere nella sterminata ed abbacinante landa dei segni, ognuno dei quali è un granello di polvere? Un vento infuocato a volte si alza trasformando il pulviscolo in nuvole di frecce arroventate. Un fuoco ci avvolge e mille e mille byte ci mordono, gettandoci in fuga e disperdendoci lungo l’ennesima pista che domani sarà cancellata da un altro vento ancora.

        Invochiamo l’epico passaggio dall’ “ON” all’ “OFF”.

        La fuga dal deserto dei siti, dal molteplice che si rigenera inseguendo l’algoritmo dell’eternità artificiale, dell’informazione che si autoproietta incessantemente alla velocità della luce.

        È il momento di non sapere.

        Nel momento del Nirvana oppiaceo Lou Reed mormorava And I guess I just don’t know
And I guess that I just don’t know…(“Heroin” testo di L.Reed, 1964) e dentro di noi sapevamo che in quella beatitudine, sebbene artificiale, c’era qualcosa di giusto. Il buio avvolgeva quella non – visione struggente.

        Una non - visione (forse) inconsapevole ma che lasciava, contraddittoriamente, che il junkie si facesse trafiggere prima dall’ago e poi inondare dal flash (lampo di luce) dell’eroina, antidoto al nero - buio della non – conoscenza e dunque medium inadeguato e fisicamente crudele. Un modo per farsi raccontare il mondo da una voce fuori campo. E dunque cecità e non buio.

        Passata quell’epoca si vada al di là. Verso il buio in cui discendere. Verso la dimensione unificante della tenebra: In solitaria Patris caligine [1][1]. Un cammino che restituisca senso ad una libertà da cercare. Un luogo dove non si compiono progressi, dove non c’è alcuna crescita culturale , nel puro buio della non –conoscenza. Dove non ri/conosco. Dove chiedo “che cosa?”. Dove chiedo “chi è?”.

        Nella nube avviene l’incontro che determina l'inizio del cammino dell'uomo. Bisogna però andare a ritroso, ripercorrere vertiginosamente il cammino dell'uomo tornando a fidarci di Mosè e del suo viaggio raccontato nel libro dell'Esodo (19; 24; 33) laddove ogni volta la teofania avviene nel segno dell'oscurità, della nube. Una 'non visione' suggellata dal Salmista: “caligine sotto i suoi piedi” (17, 10), “si avvolgeva di tenebre come di velo, acque oscure e dense nubi lo coprivano” (17, 12), “nubi e caligine lo avvolgono” (96, 2) [2][2].

        Dubito. Nel buio dubito. Nel buio posso credere alla mia incertezza senza sentirne il peso. La leggera inquietudine dell’incertezza. Così vuota di senso eppure così amata.

        Spegnete l’epoca dei lumi. “La lussuria e lu focu c’addumava li specchi”, cantava Rosa Balistreri rendendo poeticamente allucinatoria l'immagine di un'invasione (“Li pirati a Palermu” nel testo di I. Buttitta) attraverso una luce, un fuoco moltiplicato dagli specchi, da cui promana una violenza insonne ed eterna, l'insano cocktail di adrenalina e benzedrina che rende la bestialità sub specie umana un carattere specifico, ontologico, dell' Homo sapiens sapiens.

        Nessuna rapina avvenne mai con conclamata e reiterata chiarezza come quella della falsità moltiplicatrice del capitale. Oggi rapisce milioni di occhi fissi su monitor illuminati, le fibre ottiche trasmettono milioni di ordini che costringono gli umani a rinunciare alla notte, al sonno.

        A perpetrare la veglia degli operai meridionali emigrati al Nord che dormivano nelle stazioni con una sveglia al collo: l'occhio del sorvegliante che trasforma la notte in una perenne ora diurna.

        24 ore di luce, energia al lavoro, la schiavitù nera al lavoro nei campi di cotone bianco di padroni bianchi. Sciur padrun da li beli braghi bianchi”. Il sole bianco delle filiere sporche, da Rosarno all'astigiano, dove si muore di lavoro. Luce dell'ineguaglianza. Tortura della luce. Le celle insonorizzate perennemente illuminate del carcere di massima sicurezza di Stammheim. Le gabbie arroventate di Guantanamo. Il panopticon . (continua in  https://www.scribd.com/doc/311459248/Elogio-Del-Buio-03-05-16)











1 commento:

  1. Il titolo dato da Fab. al suo saggio ha un significato dialettico: anche nelle cose più cupe che oggi ci circondano è possibile scorgere una luce.

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