Il Trionfo della Morte (600x642 cm) conservato nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis a Palermo
Un mio caro amico ha pubblicato la settimana scorsa un originale elogio del buio. Il saggio, malgrado qualche ridondanza, è molto bello e stimolante. Ripropongo di seguito il suo inizio per invogliare i più curiosi a leggerlo per intero su https://www.scribd.com/doc/311459248/Elogio-Del-Buio-03-05-16
Un mondo in frammenti, tanti pezzi che volano dalla strada al cielo. Una
polverizzazione senza coscienza unificante. Una nebulosa di simboli e di segni
che vagano in cerca di significato. Da Occidente ad Oriente si susseguono i deserti
delle afasie, gli enormi depositi tecnologici, agglomerati disumani che
combinano dati ed informazioni per generare ancora nuove lande e nuove steppe,
polverose ed abbacinanti di riflessi metallici. Fabbriche di dominio h24. Celle
insonorizzate in cui rinchiudere a fila serrate unità senzienti.
Restano bandoli di rapporti sfilacciati, frammenti di divari
comunicativi, piattaforme politiche sospese sul nulla. Resistono al più le
antipatie e gli odi duraturi. Gli amori remoti mai ricambiati. Esili tracce di
ego, di esperienze individuali che si sfiorano senza toccarsi e che si lasciano
dietro un alone di tossicità.
Da questo mondo esploso che richiama alla
mente la scena finale di Zabriskie Point
(M. Antonioni, 1970) emerge, come una marea nera, il bisogno del
buio. Una nuvola nera (“La nube della non – conoscenza”), una notte fitta dove
subentrare per ritrovare, nell’ordine, i sensi, il corpo, la mente, le idee,
l’anima, la comunità.
Staccare gli occhi dalla
luce del monitor per gettarli nel buio, il luogo dove non si trova, dove il
dubbio prevale, dove si disegna con le dita la mappa muta di una geografia
senza nomi: la geografia del dubbio e dell’incerto: la non risposta.
Non ci sono sentenze a
dare una luce sozza al cammino.
La visione è il luogo
della conoscenza. Le tenebre il luogo della non – conoscenza. Così è detto.
Ma quali occhi
sono in grado di vedere nella sterminata ed abbacinante landa dei segni, ognuno
dei quali è un granello di polvere? Un vento infuocato a volte si alza trasformando
il pulviscolo in nuvole di frecce arroventate. Un fuoco ci avvolge e mille e
mille byte ci mordono, gettandoci in fuga e disperdendoci lungo l’ennesima
pista che domani sarà cancellata da un altro vento ancora.
Invochiamo l’epico
passaggio dall’ “ON” all’ “OFF”.
La fuga dal deserto dei
siti, dal molteplice che si rigenera inseguendo l’algoritmo dell’eternità
artificiale, dell’informazione che si autoproietta incessantemente alla
velocità della luce.
È il momento di non
sapere.
Nel momento del
Nirvana oppiaceo Lou Reed mormorava And I guess I just
don’t know
And I guess that I just don’t know…(“Heroin” testo di L.Reed, 1964) e dentro di noi sapevamo che in quella beatitudine, sebbene artificiale, c’era qualcosa di giusto. Il buio avvolgeva quella non – visione struggente.
And I guess that I just don’t know…(“Heroin” testo di L.Reed, 1964) e dentro di noi sapevamo che in quella beatitudine, sebbene artificiale, c’era qualcosa di giusto. Il buio avvolgeva quella non – visione struggente.
Una non - visione (forse) inconsapevole ma che lasciava,
contraddittoriamente, che il junkie si facesse trafiggere prima dall’ago
e poi inondare dal flash (lampo di luce) dell’eroina, antidoto al nero - buio
della non – conoscenza e dunque medium inadeguato e fisicamente crudele. Un
modo per farsi raccontare il mondo da una voce fuori campo. E dunque cecità e
non buio.
Passata quell’epoca si vada al di là. Verso il buio in cui
discendere. Verso la dimensione unificante della tenebra: In solitaria Patris caligine [1][1]. Un cammino che restituisca senso ad
una libertà da cercare. Un luogo dove non si compiono progressi, dove non c’è
alcuna crescita culturale , nel puro buio della non –conoscenza. Dove non
ri/conosco. Dove chiedo “che cosa?”. Dove chiedo “chi è?”.
Nella nube avviene l’incontro che determina
l'inizio del cammino dell'uomo. Bisogna però andare a ritroso, ripercorrere
vertiginosamente il cammino dell'uomo tornando a fidarci di Mosè e del suo
viaggio raccontato nel libro dell'Esodo (19; 24; 33) laddove ogni volta la
teofania avviene nel segno dell'oscurità, della nube. Una 'non visione'
suggellata dal Salmista: “caligine sotto i suoi piedi” (17, 10), “si avvolgeva
di tenebre come di velo, acque oscure e dense nubi lo coprivano” (17, 12),
“nubi e caligine lo avvolgono” (96, 2) [2][2].
Dubito.
Nel buio dubito. Nel buio posso credere alla mia incertezza senza sentirne il
peso. La leggera inquietudine dell’incertezza. Così vuota di senso eppure così
amata.
Spegnete l’epoca dei lumi. “La
lussuria e lu focu c’addumava li specchi”, cantava Rosa Balistreri rendendo poeticamente
allucinatoria l'immagine di un'invasione (“Li
pirati a Palermu” nel testo di I.
Buttitta) attraverso una luce, un fuoco moltiplicato dagli specchi, da cui
promana una violenza insonne ed eterna, l'insano cocktail di adrenalina e benzedrina
che rende la bestialità sub specie umana un carattere specifico, ontologico,
dell' Homo sapiens sapiens.
Nessuna rapina avvenne mai con conclamata e reiterata
chiarezza come quella della falsità moltiplicatrice del capitale. Oggi rapisce
milioni di occhi fissi su monitor illuminati, le fibre ottiche trasmettono
milioni di ordini che costringono gli umani a rinunciare alla notte, al sonno.
A perpetrare la veglia degli operai meridionali emigrati al
Nord che dormivano nelle stazioni con una sveglia al collo: l'occhio del
sorvegliante che trasforma la notte in una perenne ora diurna.
24 ore di luce, energia al lavoro, la schiavitù nera al
lavoro nei campi di cotone bianco di padroni bianchi. “Sciur padrun da li beli braghi bianchi”. Il sole bianco delle filiere sporche, da Rosarno
all'astigiano, dove si muore di lavoro. Luce dell'ineguaglianza. Tortura della
luce. Le celle insonorizzate perennemente illuminate del carcere di massima
sicurezza di Stammheim. Le gabbie arroventate di Guantanamo. Il panopticon . (continua in https://www.scribd.com/doc/311459248/Elogio-Del-Buio-03-05-16)
Il titolo dato da Fab. al suo saggio ha un significato dialettico: anche nelle cose più cupe che oggi ci circondano è possibile scorgere una luce.
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