Alla ricerca dell'anima profonda di un paese ancora lontanissimo dall'Occidente.
Chiara Fenoglio
La luce dell’India
nasce dal buio
Che cosa significa, oggi, dopo Forster o Herman Hesse, Manganelli o Moravia, compiere un viaggio a Bombay, Calcutta, New Delhi? E ancora, come si può letterariamente «vedere» il Kerala o Madras, nel tempo del turismo globalizzato e low cost ? Per un verso l’India coincide ancora con il mistero della Verità cosmica, ma essa è anche un luogo ad alta tensione culturale da decifrare sfruttando alcune chiavi d’accesso (i libri dei Veda , Naipaul oppure Kipling) necessarie per stabilire quei percorsi mentali a cui il viaggiatore europeo non può rinunciare.
Ne Il buio dell’India (Guanda) Giorgio Montefoschi oscilla continuamente tra questi due poli e costruisce un libro che non è semplicemente il resoconto di un viaggio: piuttosto è la narrazione di una persistenza, di trent’anni di lunga fedeltà, di «corpo a corpo intenso e sfibrante» con le millenarie tradizioni di un luogo superbamente altro. Altro perché lontanissimo dall’Occidente, altro perché vi convivono modernità incipiente e ritualità dalla forza atavica, dal cui contrasto si produce la percezione di una «inaccessibilità» che la ragione e la pigrizia europee tendono a eludere, a non considerare come oggetto di interrogazione. Questa inaccessibilità è invece la domanda fondante di tutto il libro, espressa da Montefoschi nelle forme di un metodo conoscitivo, di una regola che vale per tutte le cose della vita, per l’amore come per i romanzi: «Le cose che riusciamo a descrivere meglio sono quelle che desideriamo e non possediamo».
Nel primo incontro
con l’India (datato 1987) domina la contrapposizione di vuoti e
pieni, di luci e colori che contraddicono il buio, dei rumori urbani
contigui al silenzio dei templi. L’esibizione di poveri miseri e
storpi convive con la percezione religiosa di un ondeggiare oscuro,
del fluire indistinto di materia e spirito: di fronte a tutto ciò il
neofita dell’India rimane interdetto, muto in una sorta di ottusa
fissità, come di fronte a un formicaio di cui si tentasse di
razionalizzare la vita minima. I l buio dell’India è dunque
l’oscuro ondeggiare del cosmo da cui veniamo e in cui ci perderemo,
ma è altresì, e ben più tragicamente, la miseria desolata e
ineliminabile che colpisce una «popolazione di cani randagi». La
luce tropicale, accogliente, mai aggressiva, velata, protettiva, è
anche luce che sgomenta, che nasce dal buio e lo conserva come una
indelebile memoria e come destino.
La tappa più rappresentativa è certamente Benares, dove Montefoschi (come già Pasolini e Moravia) assiste alla cerimonia di cremazione delle salme lungo le sponde del Gange: il fiume, il rito di purificazione, la folla, i barcaioli e il pedaggio che occorre pagare alla guida locale, tutto richiama un inferno dantesco dove al buio si aggiunge un odore così pungente da produrre tuttavia una reazione del tutto dissimile dalla fascinazione pasoliniana. Le profondità della religione indù non sono esplorabili: nessuna esperienza diretta rende dicibile questo luogo, nonostante i capitoli iniziali di introduzione alla filosofia orientale tentino di offrire un’almeno parziale guida. La mistica indiana rimane un mistero: addirittura, basta una lieve «sfasatura del pensiero», una minima disattenzione e la rarefazione, la saggezza, la ritualità si mutano in «una situazione che già si compone ai confini del mondo». Qui a Benares tutto è «immobile e presente», sospeso e «avvolto in una garza primordiale», ma sempre sul punto di svelare, dietro il rito, l’orrore dei corpi derelitti, l’odore di carne bruciata.
Tuttavia, questo segno dei tempi è più apparente che reale: il quadrilatero del benessere è assediato da cumuli di rifiuti e povertà, masse di vecchi storpi e bambini seminudi, emblemi perenni della stolidità e dell’egoismo umani. È passato il tempo che ci tortura, scrive Montefoschi di ritorno da uno degli ultimi viaggi, ma tutto è insistentemente uguale e immutabile
Al pathos pasoliniano, che riconosceva nell’India il Friuli della propria infanzia, al razionalismo manganelliano, che ironizzava su quel luogo «ad alto tenore di Dio», si affianca ora lo sguardo affettuoso e insieme perplesso di Montefoschi: il suo è un libro di interrogativi, che restano per lo più senza risposta, o rispetto ai quali si tentano zoppicanti e imperfette ipotesi interpretative. Trent’anni di viaggi non bastano a «capire meglio»: l’India è una sorta di abisso colmo di contraddizioni inconciliate, uno spazio inaccessibile e sfuggente, un modo di essere infinitamente lontano dal nostro Logos e dalla nostra inquieta brama di felicità.
La tappa più rappresentativa è certamente Benares, dove Montefoschi (come già Pasolini e Moravia) assiste alla cerimonia di cremazione delle salme lungo le sponde del Gange: il fiume, il rito di purificazione, la folla, i barcaioli e il pedaggio che occorre pagare alla guida locale, tutto richiama un inferno dantesco dove al buio si aggiunge un odore così pungente da produrre tuttavia una reazione del tutto dissimile dalla fascinazione pasoliniana. Le profondità della religione indù non sono esplorabili: nessuna esperienza diretta rende dicibile questo luogo, nonostante i capitoli iniziali di introduzione alla filosofia orientale tentino di offrire un’almeno parziale guida. La mistica indiana rimane un mistero: addirittura, basta una lieve «sfasatura del pensiero», una minima disattenzione e la rarefazione, la saggezza, la ritualità si mutano in «una situazione che già si compone ai confini del mondo». Qui a Benares tutto è «immobile e presente», sospeso e «avvolto in una garza primordiale», ma sempre sul punto di svelare, dietro il rito, l’orrore dei corpi derelitti, l’odore di carne bruciata.
Tuttavia, questo segno dei tempi è più apparente che reale: il quadrilatero del benessere è assediato da cumuli di rifiuti e povertà, masse di vecchi storpi e bambini seminudi, emblemi perenni della stolidità e dell’egoismo umani. È passato il tempo che ci tortura, scrive Montefoschi di ritorno da uno degli ultimi viaggi, ma tutto è insistentemente uguale e immutabile
Al pathos pasoliniano, che riconosceva nell’India il Friuli della propria infanzia, al razionalismo manganelliano, che ironizzava su quel luogo «ad alto tenore di Dio», si affianca ora lo sguardo affettuoso e insieme perplesso di Montefoschi: il suo è un libro di interrogativi, che restano per lo più senza risposta, o rispetto ai quali si tentano zoppicanti e imperfette ipotesi interpretative. Trent’anni di viaggi non bastano a «capire meglio»: l’India è una sorta di abisso colmo di contraddizioni inconciliate, uno spazio inaccessibile e sfuggente, un modo di essere infinitamente lontano dal nostro Logos e dalla nostra inquieta brama di felicità.
Il Corriere della sera –
19 maggio 2016
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