Esce oggi per Effigie il saggio di Gianna D’Agostino Pensiero corsaro. Una biopolitica dell’esistenza, di cui pubblichiamo un estratto. Il libro tenta un confronto tra l’ultimo Pasolini e l’ultimo Foucault; entrambi pronti a interrogarsi sull’azione del potere sui corpi; entrambi interessati all’economia politica come agente di trasformazione della vita umana, l’uno studiando quella che battezzò «biopolitica», l’altro dedicando il proprio impegno giornalistico ad indagare la mutazione antropologica.
19 maggio 2016
Di quale corpo ha bisogno la società oggi?
di Gianna D’Agostino
Quando Pasolini parla di
politicità del coito, esige che la questione dell’aborto venga
ricollocata nel contesto che le è proprio, quello ecologico,
dimostrando una precoce sensibilità nei riguardi di una forma di potere
che comincia a prendere in carico l’intera vita umana. Questo
allargamento di prospettiva è tipico della sua ultima produzione.
Pasolini riesce così ad articolare in modo originale la critica al
neocapitalismo tramite un approccio che egli stesso definisce
esistenziale, aprendo la prospettiva a quella che si può definire una biopolitica dell’esistenza.
Ho spiegato, nel primo
capitolo, come secondo Michel Foucault la genesi del nuovo potere vada
ricercata nelle istanze che la borghesia cominciò ad attuare alla fine
del Settecento per fortificare e perpetuare il proprio corpo sociale e,
attraverso di esso, la propria egemonia politica. Già alla fine del suo La volontà di sapere Foucault definisce «bio-potere» la
tecnologia che investe i corpi singoli attraverso le discipline e il
corpo sociale attraverso i meccanismi di regolazione, evidenziandone
l’importanza per la nascita del capitalismo. Esso infatti permette
l’inserimento dei corpi all’interno dell’apparato di produzione e, quel
che più ci interessa in sede di critica antropologica alla società
neocapitalistica, permette un adattamento dei fenomeni della popolazione
ai processi economici. Foucault parla infatti di «bio-politica della popolazione»,
e scrive: «Bisognerà parlare di “bio-politica” per designare quel che
fa entrare la vita ed i suoi meccanismi nel campo dei calcoli espliciti e
fa del potere-sapere un agente di trasformazione della vita umana». È
un nuovo modo di intendere il rapporto tra vita e storia che emerge
nella riflessione foucaultiana: la vita si configura come limite
biologico della storia, con la morte, e allo stesso tempo è interna allo
storicità umana poiché assorbita nelle sue dinamiche di potere-sapere.
È in primis la
gestione della sessualità che permette a tutta una serie di tecnologie
di potere di applicarsi alla vita: tra queste spiccano la gestione del
corpo della donna, il controllo delle nascite, la comparsa della
demografia, il rilancio della famiglia eterosessuale mononucleare. Si
tratta di una messa a valore della vita. Attraverso qualifiche, misure,
apprezzamenti, gerarchie il potere estrae dai corpi potenzialità utili
all’intera società. Il suo obiettivo non è più, dunque, il far valere un
divieto, ma creare distribuzioni all’interno di una range di
possibilità tollerate. Foucault scrive: «la società normalizzatrice è
l’effetto storico di una tecnologia di potere centrata sulla vita».
Lo stesso concetto di norma
acquista infatti un valore particolare. Foucault dedicherà l’intero
Corso al Collège de France del 1974-75, Gli anormali, a discutere
della normalizzazione e delle tecnologie di potere che si sviluppano
intorno alla norma. Qui mi preme sottolineare che queste tecnologie di
normalizzazione sono studiate dal filosofo francese ponendo l’accento
ancora un volta sugli aspetti di inclusività e produttività che
caratterizzano questo tipo di potere: si tratta del lavoro incessante
della norma all’interno dell’anomia. Come abbiamo visto anche per
Pasolini è il potere che, tollerando il diverso, «crea ghetti». Questo
gli permette di creare distribuzioni intorno a una serie di regolarità
accettate, che funzionano come dispositivi di regolazione e di
inclusione della differenza. L’argomentazione di Foucault prende le
mosse da un esempio storico paradigmatico, l’inclusione dell’appestato
in contrapposizione all’esclusione del lebbroso: «Non si tratta di
cacciare, ma di stabilire, di fissare, di dare il proprio luogo, di
assegnare dei posti, di definire delle presenze e suddividerle. Non
rigetto, ma inclusione». Si tratta «di un tentativo di massimizzare la
salute, la vita, la longevità, la forza degli individui. Si tratta di
produrre una popolazione sana».
All’inizio dell’epoca
moderna, secondo il filosofo, si ha il passaggio da un potere che puniva
e controllava, minacciando di uccidere e perpetrando uccisioni rituali,
a un potere che controlla lasciando vivere, promuovendo e potenziando
la vita. Quello che Pasolini ci dice infatti sull’aborto non è tanto che
è sacrilego uccidere un feto, quanto che per la specie umana è
diventato sacrilego, nella realtà del mondo capitalistico, mettere al
mondo nuovi figli. La riflessione pasoliniana esprime il doppio senso
del termine latino sacer, che dà il titolo ad un altro articolo
coevo. In questo modo Pasolini evidenzia una contraddizione all’interno
dell’universo del progresso, della liberazione e dell’opulenza, un
pericolo che viene dall’interno stesso del suo corpo: la prole è ormai
maledetta, non più benedetta, poiché l’aumento demografico ha raggiunto
la soglia di saturazione. Il potere interviene così regolando le
nascite, e la legalizzazione dell’aborto rientra in questa serie di
misure di regolazione. L’effetto di questo tipo di potere sulla
popolazione è, secondo Foucault, dell’ordine della massificazione. Nel corso Bisogna difendere la società riguardo
alla biopolitica il filosofo spiega: «Per mezzo dell’equilibrio
globale, piuttosto che attraverso l’addestramento individuale, tale
tecnologia ha di mira qualcosa come un’omeostasi: la sicurezza
dell’insieme in relazione ai suoi pericoli interni».
D’altra parte Foucault fin da La volontà di sapere
è molto chiaro nell’affermare che, se il potere investe la vita in
tutte le sue manifestazioni, è proprio a livello dei corpi che si aprono
anche le possibilità di resistenza:
[…] quel che si rivendica e
serve da obiettivo è la vita, intesa come bisogni fondamentali, essenza
concreta dell’uomo, realizzazione della virtualità, pienezza del
possibile. […] la vita come oggetto politico è stata in un certo qual
modo presa alla lettera e capovolta contro il sistema che cominciava a
controllarla. È la vita, molto più del diritto, che è diventata allora
la posta in gioco delle lotte politiche, anche se queste si formulano
attraverso affermazioni di diritto. Il «diritto» alla vita, al corpo,
alla salute, alla felicità, alla soddisfazione dei bisogni.
Ricondurre la polemica
corsara all’interno di lotte politiche che hanno come fulcro il
tentativo del potere di investire la vita e le resistenze che attorno ad
essa si sviluppano, ci fa capire meglio quale sia la portata della
critica antropologica di Pasolini: svela le contraddizioni di un potere
bifronte. Esso, mentre pretende di liberare, normalizza, mentre
istituisce una serie di dispositivi per proteggere e rafforzare la vita,
circoscrive il numero delle nascite legalizzando l’aborto. Se da una
parte suscita, moltiplica e diffonde il corpo bello e sano, dall’altra
mette in moto una serie di meccanismi che utilizzano a scopo mediatico
ed economico questa bellezza, spossessandone il soggetto.
Ho specificato che la
biopolitica pasoliniana concerne l’«esistenza»: la parola «esistenziale»
e l’aggettivo «esistenzialmente» ricorrono, infatti, spessissimo nei
suoi scritti degli anni Settanta, proprio quando prende in esame la
mutazione antropologica. Tematica dell’esistenza e azione del potere
sulla vita sono strettamente legate: il particolare esistenzialismo
pasoliniano, infatti, afferisce da una parte alla sfera semantica della
prassi contro quella dell’ideologia, dall’altra a quella della vita in
contrasto con l’artificialità della mutazione. L’esistenza a cui fa
riferimento Pasolini è contrapposta al luogo delle convinzioni
ideologiche, la coscienza. Essa è il luogo della vita in quanto bios,
secondo l’accezione greca: modo in cui viviamo, modo di vita, che
concerne cioè la vita in senso etico-politico e non solamente biologico.
Parlare di biopolitica dell’esistenza e
non semplicemente di biopolitica permette, inoltre, di ricomporre
quello scarto che si apre tra Pasolini e Foucault intorno al termine bios, o vita per Pasolini. Come abbiamo visto in Pasolini il modo di vita è infatti strettamente legato a una cultura. Quando Foucault inaugura lo studio del biopotere in La volontà di sapere, invece,
il richiamo al termine greco non definisce il modo di vita, ma la
semplice esistenza organica, quella che Aristotele avrebbe chiamato zoé:
l’umanità è oggettivata come «popolazione», per quanto concerne la sua
esistenza prettamente biologica. A metà degli anni Settanta il pensiero
foucaultiano mostra un’oscillazione tra i due termini, biopotere e
biopolitica, che verrà decisamente superata alla fine del decennio in
favore del secondo. Questa scelta lessicale è concomitante a un
progressivo spostamento verso il significato antico del termine greco bios.
La biopolitica, come abbiamo visto, riguarda infatti le relazioni, il
desiderio, il consumo di libertà, l’emergere del soggetto consumatore
come lo conosciamo oggi: l’homo oeconomicus in quanto punto di
articolazione tra il desiderio e la libertà, piuttosto che le sue
funzioni meramente biologiche. Pasolini va un poco oltre: ci mostra come
l’azione del potere modifichi non solo i corpi, ma anche le esistenze e
le anime definendo, dunque, una propria personale biopolitica. In Teorema, che ho analizzato sopra, se ne potevano intravedere gli albori. Negli Scritti corsari
ne dispiega l’intera portata attraverso le analisi della mutazione
antropologica, del «nuovo fascismo» e del «genocidio culturale».
[…]
La televisione è un bersaglio
polemico privilegiato da Pasolini in quegli anni, ma non è demonizzata
in sé, quanto per l’uso che ne viene fatto. Del discorso che Eugenio
Cefis, allora presidente della Montedison, pronuncia agli allievi
dell’Accademia di Modena, fa notare Pasolini, nessuno ha parlato in
televisione. Infatti vi si trovano limpidamente espresse le istanze del
nuovo fascismo: il suo carattere transnazionale, l’accanimento nel
perseguire il progresso tecnologico, la distanza dalla realtà:
[…] leggete quel discorso di
Cefis agli allievi di Modena che citavo prima, e vi troverete una
nozione di sviluppo come potere multinazionale – o transnazionale come
dicono i sociologi – fondato tra l’altro su un esercito non più
nazionale, tecnologicamente avanzatissimo, ma estraneo alla realtà del
proprio paese. Tutto questo dà un colpo di spugna al fascismo
tradizionale, che si fondava sul nazionalismo e sul clericalismo.
Il discorso di Cefis doveva apparire tal quale come snodo centrale di Petrolio. Pasolini infatti individuava già allora i movimenti globali del potere consumistico. Proprio la prospettiva che ho definito biopolitica dell’esistenza gli consente
di mettere in luce una contraddizione strisciante nell’universo del
consumo e dello sviluppo privo di progresso che in quegli anni si stava
affermando. Se da una parte, come abbiamo visto, il nuovo potere mette a
prodotto i corpi per creare una popolazione più forte, più sana e più
produttiva, più docile all’imperativo del consumo; dall’altra lo fa a
rischio costante della distruzione di quello stesso corpo sociale che
mira a rafforzare. Si tratta di una contraddizione rilevata anche da
Foucault proprio agli albori della sua riflessione biopolitica: il
potere di morte – Foucault si riferisce alle guerre e agli olocausti del
ventesimo secolo – è complementare al potere che si esercita
moltiplicando la vita. Il filosofo scrive:
La situazione atomica è oggi
il punto di arrivo di questo processo. […] Se il genocidio è il sogno
dei poteri moderni, non è per una riattivazione del vecchio diritto di
uccidere; è perché il potere si colloca e si esercita a livello della
vita, della specie, della razza e dei fenomeni massicci di popolazione.
Lo spettro dell’atomica da
una parte e del genocidio dall’altra sono immagini ricorrenti negli
ultimi anni di produzione di Pasolini. A questo proposito è emblematica
una scena del film di montaggio La rabbia, del 1963. Dopo una
lunga sequenza di guerra e di bombardamenti che si chiude sulle immagini
della guerra di liberazione algerina, con corpi straziati dalle bombe, e
la voce fuori campo che scrive su ognuno di quei corpi la parola
libertà, appare il volto di Marilyn Monroe appena preceduto da queste
parole: «..in mille parti dell’anima la guerra non è cessata, anche se
non vogliamo ricordare la guerra è un terrore che non vuole finire,
nell’animo nel mondo».
Nonostante la vittoria dei
partigiani algerini la guerra rimane inscritta nelle coscienze: il
montaggio di Pasolini alterna le immagini della folla festante dopo la
fine della guerra nel 1962, alla ricognizione minuta sui corpi segnati
dalle ferite. E, poco prima di passare al volto di Marilyn, inserisce la
lunga sequenza a rallentatore di un’esplosione atomica. Senza stacco,
al fungo atomico si sostituisce il bel volto della diva, seguito da una
serie di immagini poco note dell’infanzia e adolescenza dell’attrice,
poi quelle dei tabloid che resero il suo corpo un’icona globale.
Seguono le riprese del funerale e infine di nuovo lei bambina, la
«povera sorellina minore». Il corpo sano e splendido di Marilyn, la cui
immagine infinitamente riprodotta aveva saturato l’immaginario
collettivo, è inserito tra due sequenze mute di esplosioni atomiche.
Fuori campo la voce di Giorgio Bassani recita:
Ma tu continuavi ad essere
bambina, / sciocca come l’antichità, crudele come il futuro, / e fra te e
la tua bellezza posseduta dal potere / si mise tutta la stupidità e la
crudeltà del presente. / […] // La tua bellezza sopravvissuta dal mondo
antico, / richiesta dal mondo futuro, posseduta / dal mondo presente,
divenne così un male mortale.
Pasolini dipinge una Marilyn
inconsapevole della propria bellezza, sorellina minore che sta sempre un
passo indietro ai fratelli maggiori, obbediente. La sua bellezza è tale
perché inconsapevole. Il potere, moltiplicando e riproducendo questa
bellezza, non solo in qualche modo la produce, ma se ne appropria.
Marilyn così impara la propria bellezza dal potere, mentre esso la svela
all’intera umanità: «e così la tua bellezza non fu più bellezza»,
trasformata in un male mortale. Pasolini legge forse nel suicidio della
diva un modo per riappropriarsi della fulgida inconsapevolezza perduta e
per abbandonare il mondo al proprio destino di morte.
All’ultimo fungo nucleare che
chiude la sequenza di Marilyn, segue una lunga sequenza di immagini di
concorsi di bellezza e di ricche feste borghesi. La voce fuori campo di
Bassani commenta con queste parole:
La classe padrona della bellezza fortificata dall’uso della bellezza
giunta ai supremi confini della bellezza, dove la bellezza è soltanto
bellezza. La classe padrona della ricchezza, giunta a tanta confidenza
con la ricchezza da confondere la natura con la ricchezza. Così
perduta nel mondo della ricchezza da confondere la storia con la
ricchezza. Così addolcita dalla ricchezza da riferire a Dio l’idea della
ricchezza.
In Marilyn vive ancora una
bellezza che è sopravvivenza del mondo antico, essa viene riprodotta,
amplificata e infine irrimediabilmente snaturata dal mondo moderno. Già a
quest’altezza si può individuare, dunque, l’orizzonte che porterà
Pasolini ad abiurare alla sua Trilogia della vita. La classe
borghese è letteralmente «fortificata» dalla bellezza: parte della sua
egemonia sociale è quindi dovuta all’esposizione e alla cura del proprio
corpo. Il potere neocapitalistico è fotografato nell’atto di suscitare e
produrre un corpo splendido, riproducibile all’infinito. Questa
splendida giovinezza dovrebbe essere il suo emblema, ma allo stesso
tempo Pasolini ce ne mostra anche la faccia nascosta: la minaccia della
distruzione dell’intero corpo sociale tramite l’atomica.
Col suo magistrale montaggio
il regista illustra la nuova razionalità biopolitica del potere: da una
parte si applica alla vita tramite l’imperativo di gioventù e bellezza e
produce il corpo sano, giovane e forte della borghesia. Dall’altra,
però, proprio quella gioventù è mandata a morire in guerre dai risvolti
di potere globali – si pensi alle immagini di Marilyn in visita alle
truppe americane tornate dal Vietnam – e la minaccia di morte prende le
sembianza di un’apocalisse atomica.
Testo e immagine riprese da http://www.leparoleelecose.it/?p=23042
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