M. Foucault visto da Tullio Pericoli
L’eterno ritorno del teorema Foucault
Roberto Esposito
Roberto Esposito
Gilles Deleuze racconta che Michel Foucault non era percepito come una persona, ma come un moltiplicatore di effetti: «Quando entrava in una stanza provocava un cambiamento di atmosfera, una specie di evento, si determinava un campo elettrico o magnetico». A questa capacità di modificare opinioni consolidate, di sollecitare nuovi sguardi sulla realtà, è legata la forza e la durata del suo pensiero. Certo, la sua influenza si è spostata di livello nel corso del tempo. Se negli anni Settanta, quando egli stesso era impegnato nella lotta per la riforma delle istituzioni carcerarie, ha influenzato in maniera diretta soggetti e movimenti politici, successivamente la sua voce è parsa affievolirsi nell’ambito della sfera pubblica. Ma poi, poco alla volta, è tornata a insediarsi al centro del dibattito teorico, fino a diventare forse la più influente nella filosofia continentale.
A cosa si deve tale presenza? E, più in generale, cosa resta oggi vitale all’interno della sua opera? La traduzione del Corso al Collège de France del 1972-73, edita per Feltrinelli con il titolo La società punitiva, a cura di Pier Aldo Rovatti e Deborah Borca, con una postfazione di Bernard Harcourt, può costituire l’occasione per rispondere a questi interrogativi. Quel corso, anticipando i temi del libro apparso due anni dopo, Sorvegliare e punire, è dedicato a una ricerca sul ruolo sociale dell’istituzione carceraria a partire dagli inizi dell’Ottocento. Ma, come sempre avviene in Foucault, l’analisi storica, o più propriamente genealogica, sul passato, getta un intenso fascio di luce sul presente. È questo singolare incrocio tra erudizione profonda e potenza teoretica, tra storia e attualità, il tratto più caratteristico del suo pensiero, che ne fa il riferimento obbligato per l’apertura di sempre nuovi cantieri di ricerca.
Il punto di partenza del libro è la domanda su quali siano i rapporti di potere che, alla fine del XVIII secolo, hanno reso possibile l’emergenza storica di qualcosa come la prigione. Prima di allora essa esisteva, ma con una funzione più detentiva che punitiva. Mentre le punizioni si inscrivevano sul corpo del colpevole con un effetto terribilmente teatrale — gogna, rogo, supplizi, esecuzioni di piazza — a partire dai primi dell’Ottocento l’intero sistema penale inizia a ruotare intorno al sistema carcerario. Più che alle teorie riformiste in campo penale, come quelle di Beccaria e di Brissot, tale trasformazione risponde per Foucault a un’esigenza funzionale dell’organizzazione capitalistica. Benché la prigione non facesse affatto diminuire il numero dei criminali, anzi spesso lo aumentasse, essa aveva un doppio ruolo strategico nella società del tempo. Quello di controllo e sorveglianza. E quello di un disciplinamento sociale della manodopoera confacente al modo di produzione capitalistico.
A partire da tali premesse prendono forma gli elementi più generali di ciò che, adoperando un suo stesso termine, potremmo definire il “dispositivo Foucault”. Al suo centro vi è un decisivo spostamento nell’analitica del potere, che prende le distanze da tutte le interpretazioni classiche. Il primo passaggio di paradigma riguarda la sua relazione intrinseca con ciò che Foucault chiama “guerra civile”. Diversamente da quanto sostiene Hobbes, il potere non solo non interviene per mettere fine al conflitto, ma da esso si genera, prima di riprodurlo a sua volta. La guerra civile non coincide con lo stato naturale, ma è interna e costitutiva dell’ordine politico. Ciò non significa che il ruolo di legittimazione della legge venga meno, ma esso, anziché situarsi a monte, è l’esito delle lotte e dei rapporti di forza che di volta in volte queste determinano.
Il secondo vettore che dal testo di Foucault si irradia nella filosofia contemporanea è costituito da una radicale applicazione del programma avviato da Nietzsche ne La genealogia della morale. All’origine della transizione del sistema penale dalla messa in morte pubblica nell’ancien régime alla carcerazione moderna vi è la moralizzazione della criminalità operata dai quaccheri che, in rottura con la tradizione inglese della pena di morte, affidano alla prigione un compito di redenzione del condannato.
È a partire dalla secolarizzazione di tale concezione che la borghesia crea una società disciplinare destinata a reprimere ogni deviazione rispetto alle nuove esigenze produttive. In questo modo l’antico dissidente diventa un vero e proprio criminale. Egli non è più punito perché offende il re, ma perché ostacola il meccanismo di produzione sociale. È allora che gli illegalismi dei ceti più poveri, prima tollerati o addirittura favoriti nelle pieghe del codice giuridico, vengono repressi e sanzionati con una sorta di legge del contrappasso: come il salario compensa il tempo del lavoratore regolare, così il carcere sequestra il tempo di chi rompe le norme sociali, condannandolo all’inoperosità.
A questo spostamento dal regime sovrano — ancora legato ai rituali dei pubblici supplizi — alla società disciplinare, volta al controllo normativo delle anime e dei corpi, si connette il terzo orientamento che gli studi contemporanei assorbono dalla lezione di Foucault. Si tratta dello spostamento dell’analisi del potere dai piani alti della politica a quello, meno in vista ma più esteso, delle dinamiche sociali. Il potere non passa solo per gli apparati ideologici dello Stato, come voleva Althusser, ma anche e soprattutto per i luoghi quotidiani della famiglia, del lavoro, della sessualità, della scuola. Esso non si concentra in un singolo punto, ma è diffuso lungo tutto lo scenario della vita quotidiana.
Nel successivo saggio La volontà di sapere e nei contemporanei corsi sulla biopolitica il progetto di Foucault trova la sua espressione più compiuta, investendo l’intero ambito dell’esperienza contemporanea. Il potere va colto, assunto o combattuto, non tanto nel suo effetto repressivo, ma in quello produttivo. Ciò che conta non è quanto impedisce, ma quanto sollecita. Non i suoi divieti, ma le sue seduzioni. Non è questo l’enigma intorno al quale ruota ancora la nostra vita, senza riuscire a venirne a capo?
Repubblica, 19 maggio 2016, p. 37
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