Il fenomeno giacobino
è stato complessivamente poco studiato in Italia. Uno dei contributi
più importanti è stato quello di Renzo De Felice, più conosciuto
(nel bene e nel male) per la sua monumentale biografia di Mussolini.
Francesco Perfetti
Il misticismo dei
giacobini
L’immagine di Renzo De Felice studioso del giacobinismo italiano è sopraffatta dalla notorietà dello studioso dell’Italia fascista. Tuttavia, fino alla metà degli anni Sessanta, gli interessi storiografici di De Felice ruotarono attorno alla breve stagione rivoluzionaria dell’Italia napoleonica e post-napoleonica. Ciò fu dovuto alla frequentazione con Delio Cantimori, uno storico con grande sensibilità per la filosofia, il pensiero politico, la storia religiosa, la storia della cultura. Nacquero, così, i saggi dedicati agli ebrei nella Repubblica Romana del 1798-99, a figure dell’evangelismo rivoluzionario, agli aspetti socio-economici della realtà romana e laziale nel periodo rivoluzionario, oltre al volume Note e ricerche sugli “Illuminati” e il misticismo rivoluzionario (1960).
Emersero subito, da
questi scritti, sia la capacità di De Felice di analizzare i fatti
riconducendoli nell’alveo del «concreto sviluppo storico» sia la
sua tendenza a rifiutare qualsiasi tipo di vulgata storiografica.
Al dibattito sul giacobinismo De Felice offrì un contributo notevole attraverso lavori, che suggerivano l’importanza dell’approccio biografico e dell’analisi dell’opinione pubblica e della stampa periodica. In particolare, suscitò interesse la sua definizione del giacobinismo. Per De Felice il giacobinismo fu, sul piano politico, un movimento repubblicano democratico che si tradusse, sul piano sociale, in un egualitarismo che postulava la redistribuzione della proprietà privata, mentre, sul piano religioso, creò nuove forme di culto e, sul piano psicologico, rivelò una sensibilità intessuta di attese escatologiche sulla capacità rigeneratrice della rivoluzione. Walter Maturi commentò icasticamente la tipologia dello studioso osservando che se qualcuno si fosse permesso di chiamare giacobino un tizio che non avesse avuto quei quattro connotati, sarebbe stato «fulminato ipso facto» da un De Felice «intransigente come un domenicano».
La polemica
accompagnò sempre la pubblicazione degli studi di De Felice.
All’inizio degli anni Sessanta non fu risparmiata da critiche una
sua antologia del giornalismo giacobino italiano (I giornali
giacobini), che richiamò l’attenzione sul ruolo politico e di
rinnovamento sociale della stampa giacobina e fece emergere temi che
avevano agitato il mondo giacobino: libertà di stampa e diritto di
«censura pubblica», rapporti con i francesi, diffidenza delle
masse, difficoltà di formare uno «spirito pubblico» rivoluzionario
e via dicendo. Dagli studi di De Felice – come dimostrò anche il
volume antologico Giacobini italiani, curato insieme a Cantimori –
emergevano le varie anime di un movimento ideologicamente variegato e
composito.
La pubblicazione, nel 1965, di Italia giacobina costituì, se non l’ultima, una delle ultime incursioni defeliciane sul terreno dell’Italia rivoluzionaria e napoleonica prima del dirottamento di interessi verso il periodo fascista. Il volume conteneva un suggestivo profilo della storia d’Italia in età rivoluzionaria, risalendo fino al 1789, quando «nel cielo italiano» avevano cominciato «a dardeggiare i primi raggi del sole della Rivoluzione» senza attendere che con il 1796 la rivoluzione varcasse le Alpi al seguito delle armate francesi: il periodo 1789-1796 appariva a De Felice importante per individuare gli sviluppi che «i fiori italiani erano portati ad avere prima che la mano del giardiniere francese li selezionasse e li coltivasse secondo le esigenze del suo mercato».
Gli avvenimenti
successivi al 1796, il cosiddetto «triennio rivoluzionario»,
venivano letti alla luce della politica francese. Il Direttorio non
aveva concepito la campagna d’Italia come «guerra di liberazione»,
ma come operazione secondaria rispetto ad altri scacchieri, un mezzo
per appoggiare la campagna dell’armata del Reno, assicurarsi
territori utilizzabili come merce di scambio, rimpinguare le casse
dell’erario, sovvenzionare le altre armate e autofinanziare quella
d’Italia.
Invece, Bonaparte aveva presentato la campagna come
«guerra rivoluzionaria», ma lo aveva fatto per facilitarsi le
operazioni militari e impostare una politica personale da imporre a
Parigi. In conclusione, De Felice faceva vedere come sia la politica
del Direttorio sia quella di Bonaparte, diverse nelle premesse,
avessero finito, dal punto di vista italiano, per risultare
identiche, puntando entrambe a impadronirsi delle ricchezze italiane
e a impedire la creazione di governi popolari dotati di prestigio e
forza propri e capaci di opporsi alla politica di sfruttamento
economico della penisola o a scambi franco-austriaci o
franco-spagnoli di territori italiani.
Il che spiegava perché
le amministrazioni provvisorie, le municipalità, i governi insediati
dai francesi o costituiti al seguito delle truppe francesi si fossero
rivelati «screditati e passivi strumenti» della politica francese.
Tuttavia, De Felice respingeva la condanna, basata sul canone
storiografico della «rivoluzione passiva», che presentava il
triennio giacobino come fase storica negativa ed effimera e sosteneva
invece che «il movimento rivoluzionario italiano fu un fenomeno, pur
nelle sue peculiarità locali e regionali, squisitamente unitario».
Gli scritti di De Felice chiusero una fase della discussione sul giacobinismo, ma, al tempo stesso, costituirono la premessa dei suoi successivi studi sul fascismo. Egli, infatti, non avrebbe mai tralasciato di sottolineare motivi riconducibili ai precedenti interessi: la dimensione rivoluzionaria, per esempio, del movimento fascista; la mentalità democratica e illuminista presente nell’idea mussoliniana dello Stato educatore; la vocazione giacobina e totalitaria del fascismo.
Il Sole 24ore – 22
maggio 2016
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