19 maggio 2016

LE DONNE NELLA STORIA ANTICA



Negli ex-voto delle giovani andate spose nella Locri del V secolo a.C. emerge l'immaginario femminile dell'epoca. Una straordinario occasione di conoscenza, visto che quasi mai nella storia antica è considerato il punto di vista femminile.

Giuseppe Pucci

Pinakes di Locri. Le donne magnogreche prendono la parola

Che il matrimonio sia per tutte le società umane, tanto antiche che moderne, un fondamentale rito di passaggio fu dimostrato all’inizio del secolo scorso da Arnold Van Gennep, uno dei padri dell’antropologia moderna. L’antica Grecia non faceva eccezione. Più tardi, Jean-Pierre Vernant avrebbe affermato che «il matrimonio sta alla ragazza come la guerra sta al ragazzo». Ma la celebre formula, se evidenzia con efficacia l’equivalenza tra guerra e parto – entrambe prove di coraggio e di dovere civico – nella mentalità antica, non rende sufficientemente conto di altre asimmetrie nella costruzione dei generi nella cultura greca.

Per l’uomo il matrimonio era un obbligo sociale, serviva a dare figli allo stato e ad assicurare la trasmissione del patrimonio. I sentimenti c’entravano poco. Ma per la donna? Sappiamo abbastanza di quanto una società fondamentalmente maschilista si aspettava da lei, molto poco di quanto lei stessa si aspettava dalla sua nuova condizione, e di come si preparava a entrarvi.

Per fortuna oltre ai testi letterari – che, appunto, ci hanno trasmesso pressoché esclusivamente il punto di vista maschile – esistono i monumenti figurati. Il complesso più eccezionale è quello costituito dagli oltre 1000 pinakes trovati ai primi del Novecento a Locri Epizefiri, in Calabria, negli scavi del santuario extraurbano di Persefone.

Sono tavolette di terracotta decorate a rilievo che le fanciulle locresi offrivano come ex-voto alla dea protettrice delle spose, e che documentano l’immaginario del matrimonio nella Magna Grecia del V sec. a.C. dall’angolazione femminile. Si è dovuto aspettare un secolo per avere un’edizione integrale di questo ingente corpus, ma grazie a questa oggi uno fra i nostri maggiori archeologi, Mario Torelli, ha potuto riprendere in mano e portare a compimento – insieme alla sua brillante allieva Elisa Marroni – una ricerca che aveva iniziato quarant’anni fa. L’obolo di Persefone Immaginario e ritualità dei pinakes di Locri (Edizioni ETS, pp. 127, e 20,00) offre un’interpretazione di quei documenti nella quale la ricerca storico-antiquaria si combina sapientemente con quella iconologica e antropologica, e sostituisce a improbabili interpretazioni di stampo escatologico una coerente analisi del sistema di immagini e del loro codice comunicativo.

Scopriamo così che le tavolette illustrano il rito di passaggio nella sua completezza, dalla realtà prematrimoniale agli effetti della nuova condizione, utilizzando un linguaggio che contamina abilmente un doppio registro, quello deittico e quello simbolico, riuscendo a rappresentare non solo un insieme concreto di atti cerimoniali ma anche, cosa ancor più rilevante, la mentalità ad essi sottesa, che è poi quella dei ceti subalterni cui verosimilmente appartenevano le dedicanti.

Torelli parla a ragione di Volkskunst a cui risulta estraneo il rigore dell’arte ‘mimetica’ classica. Allo stato prenuziale si allude metaforicamente con scene di attività non produttive (la raccolta di fiori e di frutti) e ludiche (la caccia alla cicala). L’offerta alla dea della palla e di altri giocattoli sancisce la transizione dall’infanzia (le fanciulle si sposavano appena puberi) all’età adulta, con tutte le responsabilità connesse al nuovo status.

L’«evento disintegratore» (Torelli mutua qui una icastica espressione del grande storico delle religioni Angelo Brelich) della condizione esistenziale viene figurativamente trasposto nella sfera del mito: il ratto di Proserpina da parte di Ade. In alternativa, per attenuare la traumaticità dell’atto, si rappresenta un rapimento consensuale da parte di un giovane eroe di rango regale (una specie di principe delle favole).

Anche dietro ai sacrifici rituali traspaiono le aspettative emozionali di queste spose-bambine: il gallo offerto alla dea rappresenta simbolicamente il maschio i cui assalti attendono trepidanti le vergini neo-spose. Le nozze coincidevano per la donna con un mutamento radicale della propria condizione. È vero che un matrimonio poteva essere sciolto e che la stessa donna poteva andar sposa a un altro uomo, ma sbaglia chi vi vede semplicemente un «rito di appropriazione che rimuove una persona da una sfera per incorporarla in un’altra» (Gloria Ferrari) e non un trapasso irreversibile: tale era in effetti per la donna la consumazione delle prime nozze.

Le tavolette alludono anche a ciò che seguirà allo sposalizio. Il cesto usato per contenere la lana rappresenta la futura attività domestica della sposa, ma simboleggia allo stesso tempo il ventre femminile, destinato a contenere il frutto di quel particolare lavoro «socialmente utile» a cui la donna è chiamata. Ed è appunto al santuario che appare demandato nell’antica Locri il controllo sociale del matrimonio. Era il santuario a farsi garante delle transazioni private tra le famiglie, quelle che avevano implicazioni legali ed economiche significative (la dote e il corredo in primo luogo); e per tale servizio riceveva in cambio offerte in natura e in oggetti di bronzo: l’obolo di Persefone, appunto, un importante strumento di scambio in un’economia basilarmente non monetaria come quella di Locri.

Il Manifesto – 27 marzo 2016

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