Negli ex-voto delle giovani andate spose nella Locri del V secolo a.C. emerge l'immaginario femminile dell'epoca. Una straordinario occasione di conoscenza, visto che quasi mai nella storia antica è considerato il punto di vista femminile.
Giuseppe Pucci
Pinakes di Locri. Le
donne magnogreche prendono la parola
Che il matrimonio sia per
tutte le società umane, tanto antiche che moderne, un fondamentale
rito di passaggio fu dimostrato all’inizio del secolo scorso da
Arnold Van Gennep, uno dei padri dell’antropologia moderna.
L’antica Grecia non faceva eccezione. Più tardi, Jean-Pierre
Vernant avrebbe affermato che «il matrimonio sta alla ragazza come
la guerra sta al ragazzo». Ma la celebre formula, se evidenzia con
efficacia l’equivalenza tra guerra e parto – entrambe prove di
coraggio e di dovere civico – nella mentalità antica, non rende
sufficientemente conto di altre asimmetrie nella costruzione dei
generi nella cultura greca.
Per l’uomo il
matrimonio era un obbligo sociale, serviva a dare figli allo stato e
ad assicurare la trasmissione del patrimonio. I sentimenti
c’entravano poco. Ma per la donna? Sappiamo abbastanza di quanto
una società fondamentalmente maschilista si aspettava da lei, molto
poco di quanto lei stessa si aspettava dalla sua nuova condizione, e
di come si preparava a entrarvi.
Per fortuna oltre ai testi
letterari – che, appunto, ci hanno trasmesso pressoché
esclusivamente il punto di vista maschile – esistono i monumenti
figurati. Il complesso più eccezionale è quello costituito dagli
oltre 1000 pinakes trovati ai primi del Novecento a Locri Epizefiri,
in Calabria, negli scavi del santuario extraurbano di Persefone.
Sono tavolette di
terracotta decorate a rilievo che le fanciulle locresi offrivano come
ex-voto alla dea protettrice delle spose, e che documentano
l’immaginario del matrimonio nella Magna Grecia del V sec. a.C.
dall’angolazione femminile. Si è dovuto aspettare un secolo per
avere un’edizione integrale di questo ingente corpus, ma grazie a
questa oggi uno fra i nostri maggiori archeologi, Mario Torelli, ha
potuto riprendere in mano e portare a compimento – insieme alla sua
brillante allieva Elisa Marroni – una ricerca che aveva iniziato
quarant’anni fa. L’obolo di Persefone Immaginario e ritualità
dei pinakes di Locri (Edizioni ETS, pp. 127, e 20,00) offre
un’interpretazione di quei documenti nella quale la ricerca
storico-antiquaria si combina sapientemente con quella iconologica e
antropologica, e sostituisce a improbabili interpretazioni di stampo
escatologico una coerente analisi del sistema di immagini e del loro
codice comunicativo.
Scopriamo così che le
tavolette illustrano il rito di passaggio nella sua completezza,
dalla realtà prematrimoniale agli effetti della nuova condizione,
utilizzando un linguaggio che contamina abilmente un doppio registro,
quello deittico e quello simbolico, riuscendo a rappresentare non
solo un insieme concreto di atti cerimoniali ma anche, cosa ancor più
rilevante, la mentalità ad essi sottesa, che è poi quella dei ceti
subalterni cui verosimilmente appartenevano le dedicanti.
Torelli parla a ragione
di Volkskunst a cui risulta estraneo il rigore dell’arte ‘mimetica’
classica. Allo stato prenuziale si allude metaforicamente con scene
di attività non produttive (la raccolta di fiori e di frutti) e
ludiche (la caccia alla cicala). L’offerta alla dea della palla e
di altri giocattoli sancisce la transizione dall’infanzia (le
fanciulle si sposavano appena puberi) all’età adulta, con tutte le
responsabilità connesse al nuovo status.
L’«evento
disintegratore» (Torelli mutua qui una icastica espressione del
grande storico delle religioni Angelo Brelich) della condizione
esistenziale viene figurativamente trasposto nella sfera del mito: il
ratto di Proserpina da parte di Ade. In alternativa, per attenuare la
traumaticità dell’atto, si rappresenta un rapimento consensuale da
parte di un giovane eroe di rango regale (una specie di principe
delle favole).
Anche dietro ai sacrifici
rituali traspaiono le aspettative emozionali di queste spose-bambine:
il gallo offerto alla dea rappresenta simbolicamente il maschio i cui
assalti attendono trepidanti le vergini neo-spose. Le nozze
coincidevano per la donna con un mutamento radicale della propria
condizione. È vero che un matrimonio poteva essere sciolto e che la
stessa donna poteva andar sposa a un altro uomo, ma sbaglia chi vi
vede semplicemente un «rito di appropriazione che rimuove una
persona da una sfera per incorporarla in un’altra» (Gloria
Ferrari) e non un trapasso irreversibile: tale era in effetti per la
donna la consumazione delle prime nozze.
Le tavolette alludono
anche a ciò che seguirà allo sposalizio. Il cesto usato per
contenere la lana rappresenta la futura attività domestica della
sposa, ma simboleggia allo stesso tempo il ventre femminile,
destinato a contenere il frutto di quel particolare lavoro
«socialmente utile» a cui la donna è chiamata. Ed è appunto al
santuario che appare demandato nell’antica Locri il controllo
sociale del matrimonio. Era il santuario a farsi garante delle
transazioni private tra le famiglie, quelle che avevano implicazioni
legali ed economiche significative (la dote e il corredo in primo
luogo); e per tale servizio riceveva in cambio offerte in natura e in
oggetti di bronzo: l’obolo di Persefone, appunto, un importante
strumento di scambio in un’economia basilarmente non monetaria come
quella di Locri.
Il Manifesto – 27 marzo
2016
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