“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
30 giugno 2016
DOSTOEVSKIJ E TOLSTOJ
Ripropongo qui una riflessione dell'interessantissimo Kirill Pomeranc. L'avevo postata su FB due anni fa, ma qui rimane indicizzata:
"In Tolstoj Napoleone viene semplificato fino a renderlo come un lacchè, in Dostoevskij un lacchè comincia a pensare e a vedere le cose come un Napoleone.
Tolstoj affida il processo a Katjuša a un procuratore incompetente e in debito di sonno, a un avvocato incompetente e a un presidente di corte incompetente e di fretta; Dostoevskij si immagina un procuratore competente, un avvocato geniale, il risultato è lo stesso: un errore giudiziario; la tendenza è la stessa: mostrare che i nuovi tribunali borghesi non sono meglio di quelli vecchi e feudali, che l'uomo non può giudicare l'uomo. Ma leggere l'arringa di Fetjukovic è molto più interessante che leggere la minestra riscaldata delle arringhe di 'Risurrezione'".
Da http://candadi.blogspot.it/2016/06/tostoevskij.html
29 giugno 2016
SULLA TRAGICA COMMEDIA DELLA VITA
Mi pare evidente il legame tra questi due aforismi:
1. Chi cerca trova; e chi trova rimane inquieto. ( Dai Vangeli apocrifi)
2. Esistono due tipi di tragedie nella vita. Una è non riuscire ad ottenere ciò che più si desidera; l'altra è ottenerlo. (G. Bernard Shaw)Che ne pensate voi?
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/aforismi/vita/frase-109856>
DON MILANI E PASOLINI EDUCATORI
Con questo
giudizio [1] Pier Paolo Pasolini nel 1967
recensiva in un documentario televisivo la Lettera a una professoressa
della Scuola di Barbiana, diretta da Don Lorenzo Milani: il priore
era morto il 28 giugno dello stesso anno, ucciso dalla leucemia che lo divorava da tempo, ma che non gli aveva impedito di portare avanti per lunghi tredici anni (dal 7 dicembre del 1954),
l’esperienza di una scuola severa e austera, laica e senza secondi fini, messa su tra le umili genti della parrocchia di S. Andrea a Barbiana sul monte Giovi (Mugello) al solo scopo di «dare la parola» a chi non l’aveva, figli di poveri operai e contadini analfabeti, a loro volta destinati all’analfabetismo e alla miseria.
era morto il 28 giugno dello stesso anno, ucciso dalla leucemia che lo divorava da tempo, ma che non gli aveva impedito di portare avanti per lunghi tredici anni (dal 7 dicembre del 1954),
l’esperienza di una scuola severa e austera, laica e senza secondi fini, messa su tra le umili genti della parrocchia di S. Andrea a Barbiana sul monte Giovi (Mugello) al solo scopo di «dare la parola» a chi non l’aveva, figli di poveri operai e contadini analfabeti, a loro volta destinati all’analfabetismo e alla miseria.
Spesso gli amici mi chiedono come
faccio a fare scuola e come faccio ad averla piena, insistono perché io scriva
per loro un metodo, che io precisi i programmi le materie la tecnica didattica.
Sbagliano la domanda. Non bisogna preoccuparsi di come bisogna fare per fare
scuola ma di come bisogna essere per potere fare scuola. Bisogna avere le
idee chiare in fatto di problemi sociali e politici, non bisogna essere
interclassisti, ma schierati. [2]
Schierato con gli ultimi, con i Gianni figli di
contadini perennemente bocciati contro i Pierini figli della borghesia,
con la classe operaia e con gli obiettori di coscienza contro i
benpensanti e il clero: negli anni della guerra fredda, del patto
tra DC e Chiesa cattolica, dell’isolamento dei comunisti,
questa volontà di schierarsi Don Lorenzo Milani l’aveva ben pagata,
sin da quando venne «esiliato» nel 1954 dalla curia in una
parrocchia dell’Appennino in stato di abbandono e in via di chiusura,
per una campagna di diffamazione condotta contro quel prete
scomodo, che nella sua opera pastorale faceva scuola agli operai
e tuonava contro l’ingiustizia sociale; e ancora, dieci anni
dopo, quando venne addirittura processato per aver risposto con
una lettera pubblica agli insulti dei cappellani militari contro
gli obiettori di coscienza. [3]
Ma il giudizio di Pasolini sul libro di Barbiana
presenta una complessità che non può essere attribuita solo alla
simpatia per la trasgressione e il contenuto antiborghese dell’esperienza
donmilaniana: attraverso quel giudizio è possibile ricostruire e tessere i fili di un confronto proficuo tra due maestri, due pedagoghi della società italiana, un parallelismo che affonda le radici nell’analogia di alcune scelte biografiche e si dipana attraverso la passione per il ruolo dell’educazione, praticata da entrambi in modi alternativi e anticonvenzionali, e attraverso l’intransigenza critica testimoniata dai due nel primo come nell’ultimo degli scritti e degli interventi, anche a prezzo di trovarsi sempre esclusi e posizionati al confine dell’utopia.
donmilaniana: attraverso quel giudizio è possibile ricostruire e tessere i fili di un confronto proficuo tra due maestri, due pedagoghi della società italiana, un parallelismo che affonda le radici nell’analogia di alcune scelte biografiche e si dipana attraverso la passione per il ruolo dell’educazione, praticata da entrambi in modi alternativi e anticonvenzionali, e attraverso l’intransigenza critica testimoniata dai due nel primo come nell’ultimo degli scritti e degli interventi, anche a prezzo di trovarsi sempre esclusi e posizionati al confine dell’utopia.
Pedagogia, metodo didattico e importanza della lingua
L’insegnante [...] deve svegliare
nell’alunno la coscienza dell’intelligenza; da qui nascerà la voglia di
studiare. [...] Bisogna provocare la curiosità, poi qualsiasi
obiettivo è buono, la costruzione del verbo videor come il rapporto tra i
sessi, l’ a priori di kant come le ballerine del varietà. [4]
[...] è facile intuire quale dovrebbe essere la funzione dell’educatore– insegnante: dovrebbe essere un lavoro di liberazione e depurazione (ecco perché è assurda l’obbligatorietà dell’insegnamento religioso: la religione è una conquista non un acquisto) in seguito a cui venga riprovocata nell’impube la sua vera natura, ripercorrendo a rebours le cristallizzazioni dell’autorità.[5]
[...] è facile intuire quale dovrebbe essere la funzione dell’educatore– insegnante: dovrebbe essere un lavoro di liberazione e depurazione (ecco perché è assurda l’obbligatorietà dell’insegnamento religioso: la religione è una conquista non un acquisto) in seguito a cui venga riprovocata nell’impube la sua vera natura, ripercorrendo a rebours le cristallizzazioni dell’autorità.[5]
L’importanza di dare spazio alla curiosità e
all’inventiva, alla relazione educativa tra maestro e allievo intrisa di
amore, ma anche di rispetto per la sua intelligenza, era la cifra che
Pier Paolo Pasolini riconosceva come propria di un maestro:
la passione del rapporto che rivitalizza l’insegnamento e rende la scoperta
di una poesia fonte di felicità [6], nasceva e si alimentava della profonda
convinzione, politica, che il privilegio di classe (così come il principio
di autorità) andasse infranto nel rapporto con gli allievi di classe
sociale inferiore. Non ancora sedotto dal sottoproletariato,
nell’esperienza friulana il giovane maestro Pasolini sentiva l’importanza
della reciprocità come veicolo di insegnamento: condivisione di vita con i
ragazzi, a cui non solo insegnava la grammatica ma con cui giocava al
calcio, e ai cui occhi appariva giovane e soprattutto “povero” come loro.
[...]
La stessa condivisione di destini e marginalità legava ineffetti il prete Don Milani ai suoi allievi di Barbiana. Anche il priore, come tutti i grandi educatori, non sceglie un metodo teoricamente accreditato: ha alcune idee chiare e sperimenta; se si può parlare di metodo si deve dire che il suo è la ricerca costante di soluzioni di lavoro insieme collettive ed individuali, basate sul dialogo, il confronto quotidiano e l’aiuto reciproco.
[...]
La stessa condivisione di destini e marginalità legava ineffetti il prete Don Milani ai suoi allievi di Barbiana. Anche il priore, come tutti i grandi educatori, non sceglie un metodo teoricamente accreditato: ha alcune idee chiare e sperimenta; se si può parlare di metodo si deve dire che il suo è la ricerca costante di soluzioni di lavoro insieme collettive ed individuali, basate sul dialogo, il confronto quotidiano e l’aiuto reciproco.
La pedagogia così com’è io forse la
leverei. [. . . ] Poi forse si scoprirà che ha da dirci una cosa sola. Che
i ragazzi son tutti diversi, son diversi i momenti storici e ogni momento
dello stesso ragazzo, son diversi i paesi, gli ambienti, le famiglie.
Allora di tutto il libro basterebbe una paginetta [... ] A Barbiana
non passava giorno che non si entrasse in problemi pedagogici. Ma non con
questo nome. Per noi avevano sempre il nome di un ragazzo. [7]
La pedagogia di Don Milani è una pedagogia della
cooperazione che mira ad educare gli alunni sul piano civico,
tramite la conquista della lingua, la presa di coscienza della
propria sovranità e la responsabilità nei confronti del prossimo più
debole. Una scuola senza orari, compresa la domenica. E per non scambiare
mezzi e finalità, Lettera a una professoressa dichiara apertamente
il fine di questa scuola, che salva i ragazzi dall’alternativa di ripulire
dal letame le stalle: una scuola “schierata” socialmente con i diseredati,
gli oppressi e gli ultimi in nome dell’eguaglianza.
Non diversamente Pasolini aveva scritto:
Non diversamente Pasolini aveva scritto:
la critica dovrebbe essere la prima
cosa da coltivare in un ragazzo, anche se questo dovesse costare la caduta
di un’infinità di idoli: primo idolo da far cadere è l’insegnante stesso. [8]
Testo tratto da Annamaria
Palmieri, Maestri di scuola, maestri di pensiero
La scuola tra letteratura e vita nella seconda metà del Novecento: Pasolini,
Sciascia, Mastronardi, Aracne, Ariccia, 2015.
La scuola tra letteratura e vita nella seconda metà del Novecento: Pasolini,
Sciascia, Mastronardi, Aracne, Ariccia, 2015.
Note
1. L''intervento è reperibile nel documentario
“Don Lorenzo Milani e la sua scuola”, in Viaggio
nella lingua italiana—Scrittori non si nasce , a cura di Tullio
De Mauro, Giorgio Pecorini, Brunella Toscani, EMI, 1979. Si tratta di
un documentario realizzato dalla Radio televisione della Svizzera
italiana, poi pubblicato nella collana “Documenti. Voci, volti, memoria”.
2. da Progetto Lorenzo, Centro Documentazione Don Lorenzo Milani, Scuola di Barbiana, 1998.
3. Don L. Milani, “Lettera ai cappellani militari” in L’obbedienza non è una virtù, Editrice fiorentina, 1996.
4. “Scolari e libri di testo”, in P.P. Pasolini, Un paese di temporali e primule, Guanda, Parma, 2001., p. 270.
5. P.P. Pasolini, “Scuola senza feticci”, in Un paese di temporali e primule, cit., p. 277–278.
6. «Noi ricordiamo ancora con piacere la felicità di alcuni nostri scolari (dai dieci ai tredici anni) allorché leggemmo loro Il capitano di Ungaretti: la felicità consisteva nel meccanismo voluttuoso della scoperta. Si trattava insomma di scostare i fili d’erba per spiarvi l’insetto misterioso. Quando io scostai le difficoltà non fantastiche ma logiche, ed essi, dietro le parole difficili, lessero una storia, una leggenda, si ebbero il batticuore, l’interesse, l’impegno». Da “Scolari e libri di testo”, cit., p. 272.
7. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, parte III, in Storia d’Italia Einaudi, p.101.
8. P.P. Pasolini, “Scuola senza feticci”, cit., p. 27
2. da Progetto Lorenzo, Centro Documentazione Don Lorenzo Milani, Scuola di Barbiana, 1998.
3. Don L. Milani, “Lettera ai cappellani militari” in L’obbedienza non è una virtù, Editrice fiorentina, 1996.
4. “Scolari e libri di testo”, in P.P. Pasolini, Un paese di temporali e primule, Guanda, Parma, 2001., p. 270.
5. P.P. Pasolini, “Scuola senza feticci”, in Un paese di temporali e primule, cit., p. 277–278.
6. «Noi ricordiamo ancora con piacere la felicità di alcuni nostri scolari (dai dieci ai tredici anni) allorché leggemmo loro Il capitano di Ungaretti: la felicità consisteva nel meccanismo voluttuoso della scoperta. Si trattava insomma di scostare i fili d’erba per spiarvi l’insetto misterioso. Quando io scostai le difficoltà non fantastiche ma logiche, ed essi, dietro le parole difficili, lessero una storia, una leggenda, si ebbero il batticuore, l’interesse, l’impegno». Da “Scolari e libri di testo”, cit., p. 272.
7. Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, parte III, in Storia d’Italia Einaudi, p.101.
8. P.P. Pasolini, “Scuola senza feticci”, cit., p. 27
M. LUZI, Una viva attesa
Era una viva attesa che raggiava
in te paura e tremito ed in me
sensibile delizia d'inoltrarmi
fra gli alberi, di bere alle fontane.
Il barbaglio delle acque vaghe, il cielo.
le ombre quiete nell'aria animata,
anche il vento moveva in me il sorriso...
Mario Luzi, da Quaderno Gotico, 1947
UNA STORIA ISLAMICA DELLE CROCIATE
Paul M. Cobb, nel suo
"La conquista del Paradiso" traccia una panoramica delle
Crociate e del mondo arabo tra l’XI e il XV secolo, rivelando come
già allora il jihad fosse soprattutto una carta a disposizione della
politica.
Vermondo Brugnatelli
Giochi di alleanze tra
Islam e Cristiani
All’epoca del feroce
Saladino, quando Riccardo Cuor di Leone ottenne il permesso per i
cristiani di circolare liberamente a Gerusalemme, i due eserciti –
stabilita la tregua – «fraternizzarono, forse durante un
banchetto». Lo si apprende, insieme a molti altri fatti d’arme,
scenari geopolitici e aneddoti interessanti, dalla vivida descrizione
di Paul M. Cobb nel suo volume La conquista del Paradiso Una
storia islamica delle Crociate (traduzione di Chiara Veltri,
Einaudi, pp. 367, euro 32,00), che disegna un vasto panorama di
storia del mondo arabo nel medioevo, prendendo in considerazione un
buon mezzo millennio di storia, dall’XI° al XV° secolo.
Per Cobb, che non si
limita a tracciare una semplice «storia delle crociate», è
importante partire dal contesto generale del confronto-scontro in
atto per molti secoli tra il mondo islamico e quello cristiano, fin
dalla prima espansione araba nel VII° secolo. Dopo la fase iniziale
che vide un ampliamento quasi travolgente dei territori della «Casa
dell’Islam», le conquiste musulmane presero a rallentare, a
segnare il passo, e fu proprio intorno al mille che cominciò, su più
fronti, una lenta ma sensibile «riconquista» delle posizioni
perdute da parte del mondo cristiano, sia nella penisola iberica
(al-Andalus), sia in Sicila, sia, infine, nelle regioni prossime
all’Anatolia che un tempo era stata bizantina. Le «crociate» vere
e proprie, dal punto di vista del mondo islamico, non furono che una
fase di questa offensiva generale su più fronti da parte dei sovrani
cristiani.
È una storia molto
dettagliata e basata su un saldo impianto di fonti di prima mano
quella che l’autore tratteggia nei nove capitoli del suo lavoro,
permettendo di apprendere un gran numero di informazioni sulle
dinamiche interne al fronte musulmano che, lungi dal costituire
un’entità compatta vedeva invece interagire numerosi attori,
divisi per stirpe, lingua, fazione religiosa, alleanze
politico-militari. Le conquiste e le perdite di territori, appaiono
così inquadrate in una prospettiva ben più approfondita di quanto
apparirebbe dalla sola elencazione delle battaglie e dei nomi dei
guerrieri che vi parteciparono. Dal punto di vista
etnico-linguistico, accanto agli arabi – ormai in netto declino,
col tramonto del califfato iniziato ben prima del sacco di Baghdad
del 1258 – compaiono sullo scacchiere popolazioni e dinastie turche
di varia origine (selgiuchidi, turcomanni, kipcapi, ottomani), ma
anche curdi, iranici, corasmi, georgiani, armeni, berberi, mongoli…
Mentre dal punto di vista religioso si sovrapponeva il frazionamento
tra sunnismo, sciismo, le diverse sette sciite, nonché i cristiani
di varia obbedienza.
Lo sviluppo degli eventi
era dettato principalmente da un gioco di alleanze che ben poco
avevano a che vedere con una guerra di religione. Seguendo il filo
della storia colpisce come fosse tutt’altro che raro il caso di
alleanze tra cristiani e musulmani di una fazione contro i musulmani
di un’altra. Così pure erano frequenti i cambi di fronte
repentini, come quello del selgiuchide Ridwan di Aleppo che per
qualche tempo fece invocare nelle moschee i nomi dei califfi fatimidi
(sciiti), salvo poi tornare, dopo poche settimane, a invocare il nome
del califfo abbaside (sunnita) e del suo sultano Barkiyaruq.
Chi oggi non si capacita
di come la diplomazia e le pressioni internazionali non riescano a
venire a capo del ginepraio siriano potrebbe trarre da questo libro
alcune lezioni interessanti su come, nel complesso, da secoli a
questa parte, questi territori siano al centro di contese tra un
incredibile numero di attori, piccoli e medi potentati locali, non di
rado mossi da forze esterne alla regione. Anche allora, infatti,
sullo sfondo agivano, come ispiratrici o a volte con interventi
diretti, potenze ai margini della frontiera: non solo i cristiani
d’Europa, Bizantini o Franchi, ma anche, per esempio, la terribile
setta sciita dei nizariti (i famosi «assassini»), che agivano in
Siria e in Mesopotamia, ricevendo direttive dalla fortezza iranica di
Alamut, o l’impero mongolo, entrato di prepotenza nella regione e
fermato solo dai mamelucchi di Baybars.
Paul M. Cobb non si
limita ai dati evenemenziali delle guerre e delle paci, ma indaga e
espone con chiarezza anche i molti aspetti economici e commerciali
che sottostavano alle politiche dei vari governanti, obbedienti
soprattutto a queste logiche, facendo uso della giustificazione
religiosa solo saltuariamente e perlopiù in chiave opportunistica,
quando occorreva rinsaldare le proprie forze con alleanze altrimenti
labili o problematiche; ma avendo sempre presente l’opportunità di
mantenere per quanto possibile rapporti di buon vicinato con tutti,
indipendentemente dalla fede religiosa dei governanti.
Già allora il jihad era
più una carta a disposizione della politica che un reale impegno
morale. Dei tre grandi condottieri passati alla storia per avere
fermato e respinto i regni crociati, Nur ad-Din, Saladino e Baybars,
il secondo è forse il più noto per aver legato la sua fama alla
guerra ai cristiani, ma dalla ricostruzione di Cobb si ricava come la
maggior parte del suo sforzo bellico sia stata profusa nel combattere
rivali del campo islamico, e come il suo jihad contro i cristiani sia
stato più che altro frutto di un tentativo di rifarsi un’immagine
di buon governante musulmano dopo le spietate campagne fratricide con
cui si era assicurato il potere.
Lo stile del racconto di
Cobb invoglia il lettore a seguire con interesse le vicende che
descrive, nonostante non sia sempre facile districarsi nella loro
complessità. Appartiene a questo stile anche il ricorso a alcune
allusioni che, pensate per un pubblico di cultura anglofona, possono
risultare poco perspicue per il lettore italiano. Per esempio,
parlando degli eventi del 1066 nel corso della conquista normanna
della Sicilia, l’autore lascia cadere, di passaggio «mentre i
familiari di Ruggero e Roberto in Normandia erano occupati ad
invadere un altro regno insulare…»: per quanto scolpita nelle
menti di qualunque scolaro del mondo anglosassone, la battaglia di
Hastings che sanzionò la conquista normanna dell’Inghilterra a
opera di Guglielmo il Conquistatore è una nozione decisamente meno
presente a quelli del nostro paese.
Alla traduzione, nel
complesso molto buona, nuocciono purtroppo un certo numero di
scivoloni, malapropismi e rese poco felici del senso originale, che
sono statisticamente quasi inevitabili in un lavoro di tale mole, ma
quando compaiono, qua e là, possono rendere problematica la
comprensione. Il lettore si domanderà, ad esempio per quale motivo
gli Almoravidi, in arabo al-Murâbitûn, avrebbero dovuto chiamarsi
«trattatevi con pazienza tra di voi», mentre il senso del termine,
reso in inglese con «those who fight together», è «coloro che
combattono strettamente uniti». Un merito notevole del libro,
rivendicato con fierezza dall’autore, è l’ampio ricorso alle
fonti arabe, spesso ignorate dagli storici occidentali o conosciute
solo tramite traduzioni invecchiate e non sempre affidabili.
Da questo punto di vista, giova ricordare che il pubblico italiano gode di un enorme vantaggio avendo a disposizione, fin dagli anni cinquanta, eccellenti traduzioni di numerosi fonti islamiche sulle crociate da parte di un arabista della statura di Francesco Gabrieli. Il suo volume Storici arabi delle Crociate è un classico, tuttora reperibile grazie a continue ristampe, e la sua lettura arricchirebbe, con la vivacità delle descrizioni di prima mano degli autori arabi, molti dettagli del panorama tracciato con precisione accademica dall’autore statunitense.
«I lettori moderni
potrebbero trarre altre lezioni da una storia islamica delle
crociate»: questa affermazione racchiusa nell’ «epilogo» del
libro non è una frase di circostanza. La sua lettura infatti, oltre
a far conoscere le vicende passate di queste terre martoriate,
permette di scoprire come le stesse vicende venivano vissute dagli
appartenenti ai due campi rivali, e consente di meditare sulle
sconcertanti analogie che molti fatti di allora presentano con la
cronaca odierna, individuando alcune costanti tuttora presenti nella
realtà geopolitica e nella mentalità generale. Molti schemi e
preconcetti diffusi presso chi ignora questa storia si
ridimensionerebbero o sparirebbero. Historia magistra vitae dicevano
gli antichi. Forse non avevano tutti i torti.
Il manifesto – 19
giugno 2016
28 giugno 2016
LAURA ANELLO, La Sicilia non profuma più
All’origine del
fenomeno la massiccia cementificazione e la scarsa redditività
Aranci, limoni e mandarini. La Sicilia non profuma più
Laura Anello
Sono il manifesto
estetico della Sicilia, il profumo sensuale vagheggiato da poeti e
viaggiatori, il luccichio tra i rami evocato da pittori e romanzieri,
il vanto dei sollazzi arabi. Fecondi, gravidi di succo, luminosi. Gli
agrumi. «Le arance dell’Isola sono simili a fiamme brillanti tra
rami di smeraldo, e i limoni riflettono il pallore di un amante che
ha trascorso la notte in lacrime per il dolore della lontananza»,
scrive nel 1160 il poeta siculo-arabo Abd ar-Rahman. «Splendon tra
le brune foglie arance d’oro», gli fa eco sette secoli dopo
Goethe, uno che si era innamorato dell’aria di quaggiù tanto da
dire che l’Italia, senza la Sicilia, «non lascia alcuna immagine
nell’anima».
Peccato che le distese di
alberi fitti stiano scomparendo drammaticamente. Secondo i dati
Istat, ripresi da Coldiretti, negli ultimi 15 anni si è
volatilizzato il 50% dei limoni, il 31 % degli aranci e il 18 % dei
mandarini. In totale, un terzo dei terreni. Al posto degli agrumeti,
distese di cemento, parchi eolici o fotovoltaici, o alberi
abbandonati dai contadini che hanno gettato la zappa alle ortiche.
Strangolati da compensi da fame: nel 2016, annus horribilis
delle arance (colpevole anche il clima asciutto che ha ridotto le
dimensioni dei frutti e il tristeza virus che ha attaccato le
piante), le industrie di trasformazione hanno pagato ai coltivatori
solo dieci centesimi al chilo. Chi ha comprato il prodotto fresco,
per lo più catene della grande distribuzione, non è andato sopra i
30 centesimi, 40 al massimo.
Allarme allora. Allarme
rosso. Tanto da convincere il Fai a dedicare a questo tema parte
della quinta edizione della manifestazione AgruMi che si svolge oggi
e domani a Milano, a Villa Necchi, con la consulenza scientifica di
Giuseppe Barbera, docente dell’Università di Palermo e studioso
del paesaggio mediterraneo. Già, l’Sos parte dal Nord. Da quel
Nord che paga un bicchiere di spremuta anche 5 euro - la stessa che
per un coltivatore siciliano vale 3 centesimi - da quel Nord che vede
negli agrumi siciliani un miraggio del caldo, dorato, vitaminico,
mediterraneo Sud. «Si incontreranno le Università siciliane -
spiega Barbera - i centri di ricerca, il distretto agrumicolo che
riunisce le principali imprese della filiera regionale, i
responsabili dei grandi mercati del Nord Italia. Bisogna comprendere
che gli agrumi non producono solo frutti ma che costituiscono l’anima
del paesaggio siciliano».
Un’anima minacciata
dall’avanzata del cemento, da politiche comunitarie più vocate al
sussidio che all’intervento strutturale, ma soprattutto dalla
concorrenza estera: alla Spagna, pure patria storica degli agrumi, si
aggiungono oggi Tunisia, Marocco, Turchia, forti di costi di
produzione bassissima. Allora addio. Addio alle lumìe di Pirandello,
ai limoni dipinti da Renato Guttuso, allo stupore di Stendhal, la cui
sindrome per la bellezza sembrava arrivare anche dagli agrumeti.
«Esiste davvero un Paese dove alberi così meravigliosi crescono in
piena terra?», si chiedeva, lui abituato a vederli d’inverno
dentro una serra.
L’unica risposta
possibile sembra la qualità. Che fa rima con tipicità. «Stiamo
lavorando per collegare sempre più strettamente le produzioni ai
nostri territori - spiega Federica Argentati, presidente del
distretto Agrumi di Sicilia, che raccoglie i produttori -
valorizzando le produzioni di eccellenza, cioè i prodotti Igp,
quelli Dop, le coltivazioni biologiche che rappresentano ormai il 40%
del totale. Vogliamo puntare sul brand degli agrumi di Sicilia. C’è
l’arancia rossa, quella di Ribera, il limone di Siracusa, il limone
Interdonato di Messina, il mandarino tardivo di Ciaculli, il limone
dell’Etna. Ogni frutto una storia, una peculiarità, un metodo di
coltivazione, un paesaggio». Strada in salita, ma almeno in buona
compagnia se c’è chi - come Pinella Costa, presidente
dell’Associazione Gusto di Campagna - lavora su agricoltura e
turismo proponendo itinerari che hanno come tappe consorzi,
ristoratori, artigiani.
Di sicuro chi oggi a
Palermo cerca la mitica Conca d’oro si vedrà indicare un centro
commerciale. Della distesa di arance intorno alla città è rimasto
solo il nome.
La Stampa 02/04/2016
I FUOCHI DI SAN GIOVANNI
Martedì
28 giugno, alle ore 16.30, a Villa Groppallo, via Aurelia 72, Vado L.
, verrà presentato “I fuochi di San Giovanni” di Giorgio Amico.
Ne anticipiamo parte dell'introduzione.
Una notte
cara ai poeti
“Tersa
per chiari fuochi
festosi,
la notte odora
acre,
di sugheri arsi
e di
fumo”.
Sono
versi di Giorgio Caproni. Festa del fuoco e dell'acqua, la notte di
San Giovanni è da sempre cara ai poeti che ne hanno cantato il
prepotente simbolismo luminoso:
“Son
Juon nou tup i quiar e pohuen sierne:
Beliere,
arlusi, fiour di quiar, luzerne“.
[San
Giovanni ci spegne la luce e possiamo scegliere: fuochi notturni,
lampi, fiori di luce, lucciole]
Così
Antonio Bodrero, poeta occitano delle valli cuneesi, esalta il
carattere solstiziale della festa collocata nel momento in cui il
sole [la luce] lentamente inizia a declinare sulla linea
dell'orizzonte.
“Questo
lungo giorno,
al
sol che gioca tra i Gemelli e il Granchio”
scrive
ancora Bodrero in un'altra poesia, questa volta in italiano, sempre
dedicata a San Giovanni Battista, in cui con poetica precisione
individua le caratteristiche astronomiche e astrologiche della festa.
Un
lungo giorno, seguito dalla notte più corta dell'anno, quella in cui
«ci sono più falò che
stelle», la più magica
delle notti, in cui il tempo è sospeso e davvero tutto può
accadere. Lo sapeva bene Shakespeare, attivo partecipante dei circoli
esoterici e rosacruciani dell'Inghilterra elisabettiana, che vi
ambientò Sogno di una notte di mezza estate, una delle sue commedie
più belle e più complesse quanto a riferimenti simbolici.
Festa
dai mille volti, solare e lunare, della luce e delle tenebre, nata
con l'agricoltura ai primordi della società umana, da tempo
immemorabile la festa di San Giovanni si inserisce nel ciclo
delle stagioni e dei lavori dei campi. Piena ancora di echi pagani,
la celebrazione cristiana dei due San Giovanni riprende il mito
antichissimo del Dio che nasce al Solstizio d'inverno per morire una
volta raccolte le messi al Solstizio d'estate. (...)
Inizio di un ciclo
cosmico, momento magico in cui il tempo è sospeso, in quella notte
gli elementi della natura acquistano poteri del tutto straordinari e
prodigiosi. L’acqua, il fuoco, le erbe diventano veicolo di
operazioni magiche. Il fuoco dei falò rende puri i campi e i
vigneti, feconda gli animali domestici e le giovani coppie che ne
attraversano le braci o ne saltano le fiamme. Certe erbe, intrise
della magica rugiada di quella notte, acquisiscono il potere di
proteggere la casa da ogni influenza negativa e dai malefici delle
streghe, oltre che arrecare prosperità e gioia a chi la abita. In
quella notte fatata tutto è davvero possibile. Ce lo ricorda la
gioiosa canzone di Oberon, il Re della Fate, che chiude la commedia
scespiriana (…).
Tutti questi elementi li
troviamo presenti nella festa di San Giovanni ad esaltare il fluire
eterno e multiforme della vita di contro alla vittoria apparente
della morte. Tra i moderni un giovanissimo Giorgio Caproni alle sue
prime prove poetiche ne ha saputo meglio di tutti trasmettere in una
manciata di versi di grande freschezza la spontanea e innocente
carica erotica:
“Voci e canzoni
cancella
la brezza: fra poco il
fuoco
si spenge. Ma io sento
ancora
fresco sulla mia pelle il
vento
d'una fanciulla passatami
a fianco
di corsa”.
Giorgio Amico
da http://cedocsv.blogspot.it/2016/06/i-fuochi-di-san-giovanni.html
Giorgio Amico
da http://cedocsv.blogspot.it/2016/06/i-fuochi-di-san-giovanni.html
27 giugno 2016
LA FRATERNITA' SOLARE DI MARIANGELA GUALTIERI
Su cosa cresce questo giugno
col suo ricco frutteto
e quei succhi dolcissimi?
...
Versi di M. Gualtieri
Una ragazza persiana spiega cosa fa invecchiare...
Le persone non invecchiano piano piano.
Le persone invecchiano con uno sguardo,
con una chiamata,
con un non posso,
con un devo andare,
con un mi dispiace.
Non sono gli attimi ad invecchiare le persone,
sono le persone che fanno invecchiare le persone.
Jasmin Efte, in Alba Persiana
M. RECALCATI, Il fascino perduto del corpo nudo
Massimo Recalcati
Il fascino perduto del
corpo nudo ai tempi del porno
Se il tabù definisce una zona proibita, inaccessibile, impossibile da violare è perché solamente dove esiste senso della Legge può esistere senso del tabù. Il corpo animale è privo di tabù. Innanzitutto di quello che ha per secoli dominato la vita individuale e collettiva dell’Occidente, quello della nudità. Il corpo animale è sempre nudo; non ha senso del pudore, né della vergogna. La nudità è per lui una condizione naturale e l’istinto la bussola che orienta senza incertezze la sua vita. Diversamente da quello dell’uomo il suo corpo non deve rispondere all’esigenza, socialmente condivisa, di ricoprire la nudità.
È il corpo umano, che è
assoggettato all’imperativo di ricoprirsi, abbigliarsi, vestirsi. È
una delle condizioni basiche che definiscono il processo di
umanizzazione della vita: non si può andare nudi per strada.
L’”annientamento dell’animale”, il suo “sacrificio” –
come direbbe Kojève lettore di Hegel – , traccia il cammino della
vita che diviene umana. Sono i corpi di Adamo ed Eva che il Dio
biblico ricopre di pelli con un gesto di tenerezza estrema dopo
averli scacciati dal giardino terrestre. Al tempo stesso però,
rovesciando i termini della questione, il corpo dell’animale
essendo sempre nudo non è mai veramente nudo.
Se la nudità è qualcosa a cui si può giungere solo dopo una svestizione, se la sua manifestazione implica la caduta dei veli, allora il corpo animale non può incontrare mai il senso più profondo della nudità. Per questo nel mondo animale esiste una vita sessuale, ma non può esistere alcuna forma di erotismo. L’erotizzazione del corpo necessita la sua velatura. Il desiderio per accendersi esige una distanza, una lontananza dal suo oggetto. È quello che distingue l’immagine erotica – che è sempre almeno un po’ vestita – da quella brutalmente pornografica – che riproduce in primo piano la meccanica degli organi genitali. Il desiderio erotico non si mobilita dalla vista della nudità, ma solo dalla nudità intravista. È necessario che il corpo sia un po’ coperto per poter apparire davvero nudo. Un dettaglio scoperto del corpo è più attraente che la vista di un corpo nudo nella sua interezza.
Il nudismo è totalmente
privo di erotismo. Persegue illusoriamente un naturalismo che
vorrebbe poter animalizzare l’uomo dimenticando che l’abito del
linguaggio non è un abito che l’essere umano può togliere o
mettere a suo piacimento. Il senso dell’osceno non scaturisce
dall’erotismo – non c’è alcuna oscenità nella vita erotica –,
ma nel corpo che vorrebbe manifestarsi come corpo nudo, libero dal
linguaggio, corpo naturale. È quello che ritroviamo nel dipinto di
Gustave Courbet L’origine del mondo dove appare un corpo anonimo di
donna a gambe spalancate che mostra il proprio sesso senza alcun
velo.
L’ideologia nudista non si accorge che nel nostro tempo l’oscenità non deriva più da una cultura repressiva che rende il corpo nudo un tabù, ma da un eccesso di nudità del corpo che rischia di estinguere lo slancio erotico del desiderio. È una constatazione facilmente condivisa: il nudo è divenuto un oggetto troppo prossimo per suscitare il desiderio. È il paradosso del tabù della nudità: quando il corpo nudo vuole essere nudo non è più un corpo nudo, ma solo una vita nuda, o, come direbbe Agamben, una “nuda vita”. Ne abbiamo una conferma in questa stagione dove le spiagge si popolano di corpi svestiti.
Che cosa troviamo
veramente osceno? Non certo l’erotismo o la bellezza del corpo,
quanto piuttosto la presenza del corpo brutto, sgraziato, che, senza
cura e senza alcun velo, si mostra placidamente perduto nella sua
nuda vita: dormire, mangiare, sudare, esporsi al sole, bagnarsi nel
mare. È quello che accade assai più traumaticamente negli ospedali
dove la malattia strazia, aggredisce i corpi denudandoli senza pietà.
Qui la vita, diversamente che nella routine confortevole della
spiaggia, è davvero drammaticamente nuda. Come accade nell’atrocità
della guerra quando la sua violenza “sveste” brutalmente i corpi:
viscere scoperte, ferite, mutilazioni.
Il corpo è davvero
osceno quando diviene un presagio di morte. È quello che Schindler’s
List di Spielberg ci ha mostrato nell’ammucchiata caotica dei corpi
degli ebrei nei campi di sterminio spogliati e sospinti a forza verso
il forno crematorio. Corpi che offrono il senso più radicale della
nudità come inermità, vulnerabilità, passività, assenza di
protezione; esposti inesorabilmente alla morte. Non è forse questo
reale innominabile – quello della morte – che il sesso scoperto
de L’origine del mondo di Courbet vorrebbe ricoprire?
È quello che insegna un
racconto di Lacan che un giorno ritornando dalla sua casa di campagna
di Guitrancourt verso Parigi incontra, in una strada solitaria, verso
sera, un coniglio cieco che staglia la sua sagoma sullo sfondo del
tramonto e che ignaro gli appare senza difese rivolto ai fari
dell’automobile in arrivo. Non è qui la nudità erotica ad essere
in primo piano, ma quella dell’esistenza, della nuda vita. Un
animale ferito, malato, ci appare sempre un po’ più umano. La sua
vita non è più la vita piena dell’istinto, ma è vita mutilata,
offesa, ferita dal linguaggio come accade per la vita umana. Non
siamo tutti simili a conigli ciechi persi su di una strada di
campagna e rivolti, smarriti, verso il tramonto?
La Repubblica – 26 giugno 2016
L' ULTIMA INTERVISTA DI LAURA BETTI
“Nuotare e godere nel forse”. Intervista a Laura Betti (Roberto Chiesi)
Roma, 5 giugno 2004
Se André Breton ha
scritto di lei, tra l’altro, che è “una leonessa che si oppone
alla miseria specifica del nostro tempo rispondendogli con la
provocazione e la sfida”, le più belle parole su Laura Betti
appartengono probabilmente a Pier Paolo Pasolini: “A trionfare è
una ragazza bionda, (…), infante, asessuale e provocante; che è
evidentemente fuori dal gioco letterario e politico (è un’attrice,
mettiamo), e quindi interviene in quel gioco con la più sfrenata
libertà, una libertà addirittura blasfema, scatologica, offensiva,
ma intelligente”.
Pasolini l’ha
assimilata al suo universo ritraendola come personaggio in alcune
sceneggiature non realizzate, scrivendo canzoni e teatro per lei,
dirigendola in cinque film e nell’unica sua regia scenica, Orgia.
Ma esiste anche una Laura Betti attrice di Fellini, Bellocchio,
Téchiné, Taviani, Jancsó, Bertolucci, Amelio, Scola,
Straub-Huillet, Breillat. Se la sua lunga, generosa e talvolta
impetuosa battaglia per difendere l’opera e la figura di Pasolini
in Italia e diffonderle nel mondo, deve ancora essere conosciuta in
tutta la sua complessità, il talento espressionista e ironico,
aggressivo e dolce, di Laura Betti è visibile nelle immagini che
mostrano le sue splendide interpretazioni dei testi pasoliniani come
nel ventaglio di maschere che ha arricchito di sfumature segrete e
della forza viscerale delle contraddizioni.
Gli attori dotati di
una forte personalità creano quasi inevitabilmente l’identità di
un personaggio che viene identificato con il loro io reale e spesso
si sovrappone prepotentemente ad ogni ruolo che interpretano. Quali
rapporti hai con il “personaggio Laura Betti”, come lo vedi
dall’esterno? Ti corrisponde, è una maschera, oppure è una figura
che t’infastidisce?
M’infastidisce. Adesso
m’infastidisce. Perché è una pura creazione di me stessa. È mia.
Allora l’avevo inventato per non dare al pubblico, alla gente, alla
stampa, niente di mio. Avevo deciso io stessa questa tattica
(sorride) e fu una decisione molto imprudente perché si finisce per
pagarla, in seguito. Infatti sono rimasta condannata da certe
etichette e luoghi comuni che mi rompono l’anima e mi fanno venire
i nervi, e molto. Certe etichette che non mi appartengono, però,
ormai sono entrate a far parte del mio personaggio.
Me le sento tirare in
faccia e ogni tanto mi chiedo: “Ma questo che cosa significa?”.
Ed è successo proprio da parte di persone che dovrebbero essere i
miei comuni amici, ma non sono poi così amici fino in fondo... Chi
lo sapeva molto bene questo, era Pier Paolo. L’aveva capito bene.
Infatti l’ha scritto in quel testo per “Vogue”, Necrologio
su una certa Laura Betti. Io dicevo sempre che non capiva un
cazzo, quindi... Questa è una cosa che adesso mi pesa moltissimo,
anche perché a volte vorrei veramente uscirne fuori. Ma il marchio
si è talmente cristallizzato...
Come la fama di
aggressività...
L’aggressività, sì
anche... ma io, per la verità, per chi mi conosce davvero
profondamente, realmente, sono molto dolce. Scatto spesso, sì, anche
con violenza, ma, in fin dei conti, non ho delle aggressività reali,
è tutto inventato. Non ho mai avuto pause nell’inventare il mio
personaggio, dalla mattina alla sera. Mi sono inventata anche il
vestito. Non avendo i soldi, io non avevo vestiti, però me li sono
inventati, una specie di uniforme e via che andavo: un vestito nero
col colletto bianco, la calzamaglia, il pullover nero per la scena.
Ero tutta costruita, ma da me stessa. Nessuno mi aveva mai messo le
mani addosso per costruirmi. Non è mai stato possibile. Me lo sono
costruita io, da sola.
È un personaggio che
spesso gioca con riferimenti ironici all’infanzia, alla fantasia e
alle disinibizioni dell’infanzia, forse perché è l’età in cui
traspaiono già le prime forme di sessualità, ma non esistono
steccati morali o moralistici...
Forse. La mia infanzia è
stata veramente molto drammatica. Ho sempre avuto la tendenza alla
risata, a ridere sfacciatamente, alla comicità, a far ridere le
persone, ma, anche in quel caso, mentendo. Quando tu fai ridere, c’è
qualcosa che nascondi. Quasi sempre. Sì, è vero che esiste in me
una dominante anarchica (sorride) molto forte, di cui io non mi sono
mai resa veramente conto. Infatti ho perfino ceduto al fanatismo del
pugno alzato, PCI PCI PCI... Macché PCI! (sorride). Sì, è vero
che traspariva una componente di godimento infantile, senza freni...
Insomma, per la verità, c’è sempre stata in me una percentuale di
anarchia enorme, ma queste cose non è che le approfondisci, le passi
al volo, le vivi così, alla giornata... Per questi motivi, forse, mi
è sempre stato così necessario recitare, perché quando reciti,
scopri i momenti di abbandono del personaggio, diventi l’altro ed è
la cosa più comoda... Perché stare sempre a scavare al fondo di se
stessi, a sondare fino in fondo quella che sei, non è facile.
Nel tuo personaggio
esisteva sempre una componente maliziosa molto vivace, la
trasgressione di rovesciare tutti i luoghi comuni del rapporto
uomo-donna...
Sì, il rapporto
uomo-donna l’ho rivoltato e squadernato in lungo e in largo, senza
scrupoli... sarà forse anche per Pier Paolo, perché mi rendevo
conto dell’impossibilità di avere un rapporto normale con
chiunque, finché c’era Pier Paolo. Me ne rendevo conto
perfettamente. Perché non potevo neanche prendere in considerazione
il fatto di avere una reale storia con Pier Paolo, no, mi faceva in
qualche modo orrore. La sua omosessualità mi dava un disagio
interiore che... un senso di grande disagio. Infatti anche quando
andavamo al mare, le nostre corse al mare, io avevo sempre terrore di
queste corse al mare... cercavo di non farle, le facevo, ma
insomma...
Il tuo personaggio era
fuori da ogni schema: non eri una vamp, ma giocavi con alcuni
stereotipi della vamp, univi la seduzione e un’ironia che poteva
essere giocosa e cattiva, una fantasia follemente carnevalesca, ma,
al tempo stesso, rivelavi spesso un temperamento tragico, una
malinconia più nascosta...
Sì, non c’era nessuna
come me (ride). La prima volta che Pier Paolo è venuto a casa mia, è
rimasto allibito, con gli occhi sbarrati dietro gli occhiali neri,
non se ne capacitava...
È stato difficile
essere quel personaggio nella società dello spettacolo di allora? Mi
riferisco all’anomalia che un’attrice fosse anche autrice di se
stessa...
A nessuno era dato
saperlo. A quei tempi veniva dato così, ero così e così dovevo
essere. Anche se non era vero. Di questa doppia immagine, sempre allo
specchio, ne ho un po’ risentito dopo. Avrei voluto, non dico fare
marcia indietro, ma almeno riposarmi dal rischio di essere un’altra
da me stessa, anche perché rischi di perdere il filo. Non voglio
arrivare a Pirandello... ma la domanda “chi sono?” finisce per
imporsi alla mente, prima o poi. Questa è una domanda perturbante,
ma qualche volta viene.
È una domanda che
ritorna spesso nel tuo libro, “Teta veleta”, e in alcune
interviste televisive...
Io non lo so davvero.
Ignoro molte cose di me. Credo che il Fondo Pasolini mi abbia fatto
bene perché mi ha dato un’esperienza di consistenza pratica, mi ha
impegnata in modo molto forte. Ho dovuto fare tante cose che non
avevo mai fatto, per esempio avere a che fare con le istituzioni. A
poco a poco l’asse della mia recitazione si è spostato: dal
recitare me stessa in spettacoli o esibizioni mondane, qua e là, mi
sono trovata a dovere recitare moltissimo con le istituzioni! E credo
di essere stata, in questo senso, bravissima... in Italia, nei primi
anni, le istituzioni non ne volevano sapere di Pier Paolo: io le
aggiravo e le raggiravo grazie ad una sapiente recitazione. Questo
l’ho fatto, mi è tornato anche comodo e mi divertiva molto. E il
buonumore è essenziale in queste cose... Ma io ho sempre avuto un
ottimo umore... è adesso che non ce l’ho più.
Dicevi che il tuo
personaggio è stato segnato dall’incontro con Pasolini, ma
esisteva già, era già delineato nella sua identità ben prima...
Io l’avevo delineato
all’arrivo a Roma (ride). Avevo già capito che i conti non
tornavano. Alcune cose che ho scritto nel mio libro, sono
verissime... (ride) avevo capito che era meglio mettere tutto al
femminile, la “oma” e le “ome”... piombi da un luogo come
Bologna nel centro di Roma dove trovi tutte le frocie d’Italia...
era un caos! Io non ho mai capito niente della mia sessualità, di
quella degli altri, un casino, ma mi sono lasciata andare... niente è
certo, tutto è forse, bisogna nuotare e godere nel forse...
In un mediometraggio
televisivo, parli di Bologna tutta chiusa, protetta, e di Roma
“divaricata, scosciata”...
Tutta aperta, tutta
sfacciata... sì, è bella Roma... come fai a lasciarla? È unica...
Ma mi disgusta dal punto vista politico perché mi pare che la città
non reagisca più.
Le tue prime
esperienze sono state di cantante jazz con Walter Chiari...
Ma anche prima, a
Bologna, ho fatto le jam session, con Nunzio Rotondo, un
artista di Bologna, un jazzista molto bravo, bravissimo. Ero
cresciuta nella cultura jazz, mi piaceva moltissimo, il jazz bianco,
avevo i miei modelli e via che andavo, la Sarah Vaughan... La rivista
con Walter, I Saltimbanchi, fu molto divertente, aveva un
pubblico enorme, enorme, quattro-cinquemila persone come ridere, e mi
impressionava. È stata anche la prima volta che ho cominciato a
cantare davanti ad un pubblico così vasto. Dietro le quinte, andò
malissimo perché io e Aroldo Tieri, ci siamo tirati dei cazzotti in
testa, insomma un putiferio... Però è stato anche molto
divertente. Io ero molto legata a Julie Robinson e siamo rimaste
molto amiche. Stava per sposare Harry Belafonte, era innamorata
pazza. Prima aveva avuto una storia con Marlon Brando. Non lei,
Marlon Brando si era innamorato di Belafonte. Arrivò a Roma per dire
alla Julie che basta, doveva ritornare a New York. Lei non tornò, ma
scappò col mio aiuto e per vari pasticci rischiai di andare in
galera... Marlon rimase in Italia e abbiamo avuto una storia molto
carina, che però non continuò perché di andare a letto con lui e
Christian Marquand non mi andava per nulla! Non è il mio genere. Io
raccontavo un sacco di balle sulle mie avventure, ma, in realtà, una
situazione di sesso a tre, no, neanche per sogno... A pensarci bene,
ero tendenzialmente fredda. Ma io non so nulla di me stessa.
E l’esperienza con
Luchino Visconti, fu importante?
Sì, ma non poi così
tanto, perché ero affascinata e attirata dal canto più che dalla
prosa. Mi attirava il fatto che, secondo me, la canzone fosse più
difficoltosa del teatro, i recital erano molto impegnativi, molto
difficili. Visconti era durissimo, ed era un attore straordinario,
riusciva ad interpretare in maniera sublime tutti i ruoli, tutti i
personaggi. Ma soffriva molto in quel periodo per suoi problemi
sentimentali ed era sempre ubriaco. Mi trattò malissimo, cosa che
non gli perdonai, ma, al tempo stesso, rimanemmo molto amici. Mi
consigliò di cambiare il mio cognome da “Trombetti” in “Betti”
e lo feci.
Nei testi di “Giro a
vuoto”, che ebbe quattro edizioni, si ha l’impressione che, pur
essendo coinvolte personalità così diverse, ci fosse come un filo
unitario...
Sì, perché provenivano
dalla stessa esperienza... Fu un’idea mia quella di cantare testi
degli scrittori che amavo. Cominciai a chiedere loro i testi e a
pensare a questo spettacolo insieme a Filippo Crivelli. È stato il
putiferio perché tutti gli scrittori volevano partecipare. Moravia
non capiva nulla di metrica... Io gli avevo anche regalato un
pallottoliere, niente, non gli veniva. Pier Paolo invece era
bravissimo. Le difficoltà con la metrica di Moravia determinarono il
coinvolgimento di musicisti contemporanei perché, se no, non se ne
sarebbe venuti a capo. Andai alla biennale di Venezia e incontrai
Strawinski che mi regalò alcune pagine di battute musicali. Io non
avevo capito quanto fossero importanti e credo addirittura di averle
perse...
Gli scrittori si
ispiravano alle suggestioni che provenivano dal tuo personaggio e
dalla tua persona: per alcuni diventavi uno strumento contro il
conformismo piccolo -borghese, per altri eri una voce tragica...
Sì, loro si trovavano
bene perché gli davo molto materiale umano mio, che fosse falso o
vero o creato. La formula consisteva anche nel parlare sempre di me,
che invece non ero affatto io... Fortini era stato travolto da me,
collaborai a lungo con Fabio Mauri, che era bravo ed era un amico
profondo... Flaiano era al di fuori di quel gruppo e lo presi io.
Nel caso di Moravia
recitavi un personaggio che discendeva direttamente e ironicamente
dalla sua narrativa...
Sì, è vero. La
mogliettina annoiata che vuole buttarsi di sotto. Esisteva un
rapporto molto preciso con tutti loro. Gli spettacoli di Giro a
vuoto vennero anche tradotti, andai a Parigi e New York. A
Parigi, André Breton aveva perso la testa. Abitava attaccato al
teatro dove recitavo e veniva tutte le sere, facendo schiamazzi
tremendi. Io, che non l’avevo riconosciuto, credevo mi stesse
prendendo in giro, invece si divertiva follemente! Era una persona
deliziosa, me lo ricordo molto bene.
Moravia ti ha definita
un’artista che appartiene “alla tradizione dei grandi solitari,
dei fantasisti più insoliti”... Ti riconosci in queste parole?
Sì, ero sola. Intanto si
è soli perché si è soli e poi ero sola sulle scene. Facemmo un
disco con Bruno Maderna dai Sette vizi capitali di
Weill/Brecht. Lui creò gli arrangiamenti, bellissimi. Mi affascinava
molto il cabaret berlinese e poi le canzoni erano belle, belle. Kurt
Weill era un grande musicista. Vittorio De Sica collaborò a Tango
Balade. Il rapporto con Bruno era meraviglioso. Eravamo molto
amici ed era anche diventato amico di Pier Paolo. Iniziò a scrivere
un balletto per Pier Paolo, Vivo e Coscienza, che purtroppo
rimase lì, non è andato avanti. Bruno lo conoscevo dai tempi di
Milano, era un personaggio molto noto e io andavo da lui di tanto in
tanto alla radio. Stava lavorando ad esperimenti di musica
dodecafonica. Una persona geniale. Beveva come una spugna e non
poteva durare più di quello che è vissuto. Lavorava soltanto di
notte. Non ne voleva sapere di lavorare di giorno. Bruno aveva un
grande ascendente sui musicisti, lo amavano, lo rispettavano tutti e
abbiamo sempre e solo fatto i turni di notte, senza controversie. Il
delirio era che queste partiture dovevano essere copiate in fretta e
furia e distribuite, così io dovevo galoppare per consegnarle. Era
una follia. I musicisti, che erano i migliori sulla piazza, le
ricevevano all’ultimo minuto.
Nel 1964 hai recitato
e cantato in un altro spettacolo che fece scalpore, “Potentissima
signora “...
L’unico difetto di
quello spettacolo fu di essere in anticipo sui tempi e sulle mode.
Era uno spettacolo molto bello e ci siamo divertiti pazzamente.
Avevamo le scene di Lida De Nobili, i pannelli di Schifano, era tutto
fuori dal tempo... Non avevamo una lira e si facevano le collette. È
rimasta storica la mia richiesta di una sovvenzione a Gianni Agnelli.
Gli avevo chiesto, credo, un milione e lui mandò cinquecentomila
lire, con tanti auguri ecc. Io gli mandai un foglio a metà: mi hai
dato metà di quanto ti avevo chiesto, quindi il testo di
ringraziamento è a metà.
Nel teatro di prosa
hai recitato con Luca Ronconi nella sua prima messinscena di Giordano
Bruno...
Ronconi volle che
interpretassi il suo Candelaio e il mio personaggio era molto
bello. Ma gli dissi: essendo uno spettacolo con tanti attori,
ricordati che pretendo molte prove perché non voglio fare la stella
solitaria. L’ho asfissiato, con prove, controprove...
Quando siamo andati in
scena, gli ho detto: “Luca, caro, io non ho capito quel che mi hai
detto. Scusami, abbi pazienza, ma io stasera cerco di fare quello che
posso”. Ho fatto tutt’altra cosa e ho ottenuto un trionfo. Non
potevo proprio fare ciò che voleva, non potevo obbedire ad una regia
molto tradizionale, d’autorità. Nello stesso periodo interpretavo
Orgia perché Pier Paolo diceva che non potevo perdere
Ronconi, e io dicevo ma sì lo perdo, è ovvio, come posso fare,
hanno le stesse date. Andò a finire che mi divisi tra i due
spettacoli.
È vero che, nei primi
anni Sessanta, il cinema non ti attraeva?
A me non piaceva un cazzo
il cinema, anzi, più che altro non mi interessava. Ero molto presa
dal mio teatro, quelle canzoni non erano facili. A me piaceva sempre
la battaglia. Per me, il cinema è cominciato con Teorema e
dopo non ho più fatto altro.
Ci sono stati
tentativi da parte dei registi della commedia italiana di
coinvolgerti nei loro film?
No, perché ero sempre
stata schedata come l’”intellettuale”, e in quell’ambiente
non giocava tanto a favore. Dovevi fare necessariamente ruoli di
comica... ma a me non interessava minimamente. La ricotta mi
piacque perché era una cosa strana, bizzarra, dove nemmeno una come
me poteva ritrovarsi. Però lì ci siamo fermati per anni. Poi sono
arrivati gli episodi di Pier Paolo, La terra vista dalla luna,
Che cosa sono le nuvole?...
Nella “famiglia”
di non attori che appartenevano al cinema di Pasolini come Franco
Citti, Mario Cipriani e altri, tu, oltre ad essere l’unica attrice
professionista, fin dai primi film hai continuamente cambiato
identità e aspetto da una pellicola all’altra. Mentre Ninetto
Davoli è sempre Ninetto, il ragazzo furbetto, allegro e innocente;
il Franco Citti di “Accattone” e “Mamma Roma”, rimane
anch’egli, più o meno, sempre una variante di se stesso, - quando
interpreta un diavolo in Canterbury e un demone nel “Fiore delle
Mille e una notte” si tratta di variazioni di un’unica identità
- e lo stesso discorso vale anche per attori professionisti come
Massimo Girotti - che ha sempre impersonato il padre - e Silvana
Mangano - la madre/Madonna - invece i tuoi personaggi cambiano
continuamente...
È vero, sì, è vero. La
verità è che lui non voleva magari ammetterlo, ma di riffa o di
raffa, la sola attrice per lui ero io. E giù scenate se per caso io
dicevo di no ad una sua proposta. Come è stato per Teorema.
Ogni volta, da parte sua, mi giungeva un’idea diversa, una proposta
differente dall’altra. Ogni volta mi vedeva in un modo, o in un
altro, o in un altro ancora.
Nei testi scritti da
Pasolini per le canzoni di “Giro a vuoto”, troviamo la “Ballata
del suicidio”, dove la voce femminile, l’io femminile è quella
di una “diversa”, è la tragedia della diversità di una donna
che ha deciso di uccidersi. In “Cristo al Mandrione”, interpreti
un’altra voce di morta, la voce d’oltretomba del cadavere nudo,
sporco e abbandonato, di una povera donna; in “Marilyn” sei un io
femminile fragile, sfruttato dalla società dello spettacolo; le due
prostitute di “Valzer della toppa” e “Macrì Teresa detta
Pazzia” potrebbero essere sorelle di “Mamma Roma”: in alcuni
testi, i versi derivano o anticipano altre opere pasoliniane, in
altri si può avvertire una forma di identificazione tra la tua voce
e quella del poeta. Sei d’accordo?
Sì, assolutamente. La
cosa che gli piaceva di più era il fatto che non fossi un’attrice
di birignao. Non lo sopportava. La mia voce e la mia pronuncia
hanno sempre mantenuto delle inflessioni bolognesi, non è che l’ho
perso in omaggio all’accademia... Invece in Italie magique
diventavo il suo strumento di aggressione contro il colonialismo,
il fascismo, Mussolini, Hitler che beffeggiavo in lungo e in largo.
Una sera i fascisti si organizzarono per menarmi: quando scesi in
platea con una coppa di champagne per recitare uno degli ultimi
monologhi, come prevedeva il copione, vidi che mi aspettavano al
varco e corsi come una lepre dietro al sipario per sfuggirli.
Aveva un rapporto
molto complesso con te come attrice...
Io me ne sono accorta in
Teorema. Era molto complesso. Molto denso. Ho anche capito che
non era vero, come io pensavo, che lui non facesse dei veri e propri
scavi all’interno delle persone. Invece li faceva. Aveva capito
come e perché Teorema dovevo farlo soltanto io. Perché c’era
un rapporto molto preciso tra me e la terra, che io ignoravo. Io gli
dissi di no. Siamo andati avanti a litigare quasi un mese. Lui era
incazzato duro. Avrebbe rinunciato al film. Era furioso. Era così
convinto. Non lo potevi schiodare da quell’idea. Poi era molto
riottoso nel dare spiegazioni. Non voleva spiegarmi. Io gli chiedevo
che cazzo c’entrassi con questa serva, con la fronte bassa e le
sopracciglia folte... Esistevano delle idee molto chiare al di sotto,
nitide e profonde. È stata un’esperienza molto strana. Mi ha molto
turbata.
Ad Antonio Bestini,
hai detto che Pasolini prendeva gli attori per la loro natura, per la
loro realtà...
Sì, Pier Paolo non era
affatto un regista. Prova ne sia che in Salò, dove domina un
distacco assoluto dalla materia e dai personaggi, per la prima volta
affrontava la distanza di una regia vera. Non è mai stato un
regista, ma è stato qualcosa di più. Quel di più andava
conosciuto...
Nel libro aggiungi
anche che negli attori professionisti che hanno recitato con
Pasolini, nasceva una forma di resistenza che si traduceva in
qualcosa di stridente...
Sì, c’era questa
resistenza. C’era perché uno non riusciva a capire quello che
voleva. Visto che lui voleva solo ciò che eri dentro, all’interno
di te stesso, non era un’esigenza che venisse compresa. Loro non
riuscivano a capirlo. Invece era così. Era molto affascinante
lavorare con lui, perché si lavorava sull’intelligenza.
In “Teorema” ha
usato la forza del silenzio che può avere il tuo volto e il
personaggio di Laura Betti spariva completamente, come era sparito
nella strana fisionomia del turista de “La terra vista dalla luna”.
Per la donna di Bath de “I racconti di Canterbury”, invece, fece
ricorso ad alcuni elementi del tuo personaggio, come l’aggressività
e il sarcasmo...
Il personaggio de La
terra vista dalla luna nasce dal fatto che io da sempre volevo
recitare il ruolo di un uomo e quella volta me l’ha fatto fare. Mi
piaceva molto fare l’uomo. Non so quante ore di trucco, i peli
della barba da attaccarsi, fu molto faticoso, però mi sono molto
divertita... Il personaggio della donna di Bath era molto carino,
però non c’è più. Peccato. Era talmente bella la parte del
pellegrinaggio, il carrozzone dei pellegrini che viaggiano a
Canterbury e si raccontano le storie, si fanno i dispetti, non puoi
sapere com’era bella, era veramente un film bellissimo... tutto
sparito. Fu Alberto Grimaldi che chiese dei tagli, perché il film
era troppo lungo, più di due ore e mezza. La parte inventata,
selvaggia, barbara, del viaggio con il carrozzone... è andata persa
in un allagamento degli stabilimenti della Technicolor. L’ho fatta
cercare, ho fatto rivoltare la Technicolor... niente. Era la parte
più bella e questo Pier Paolo lo sapeva. Era l’ossatura del film.
A me non piace Canterbury.
Beh, soffre di
discontinuità, ma il tuo racconto è divertente, così cinico, e
alcuni racconti sono molto belli...quelli del frate e
dell’indulgenziere...
Mah, il mio non si può
giudicare, durava un’ora, disseminato dall’inizio alla fine,
un’enormità. Il personaggio era sempre in scena...
Il personaggio di
Hélène Surgère in “Salò” avresti dovuto interpretarlo tu?
Sì, doveva esserci anche
Ninetto, nella parte del soldatino fascista che ha poi avuto Claudio
Troccoli, ma Pier Paolo aveva paura per noi, aveva ricevuto delle
minacce e temeva dei pericoli. Non per se stesso, lui non aveva mai
paura di nulla. Per noi.
Oltre a “Vivo e
Coscienza” esistono altri progetti che non avete potuto realizzare
insieme?
Sì, dovevo fare un ruolo
perfido, malvagio nel film che avrebbe dovuto girare nell’inverno
1975-76, Porno-teo-kolossal. Poi mi diceva sempre che avrebbe
voluto interpretassi Eichmann, vestita da nazista di tutto punto.
Voleva anche che scrivessi il testo. Era ormai diventato un
ritornello scherzoso, questo su Eichmann...
Dopo aver recitato ne
“La dolce vita”, hai dichiarato spesso di non trovarti in
sintonia con il metodo felliniano perché trattava gli attori come
oggetti...
Non mi trovavo. Ci usava
come degli oggetti, mentre con Pier Paolo si era coinvolti in un
processo molto più misterioso. Con Federico, era chiaro che eravamo
degli oggetti e lui manipolava l’attore in tutti i modi, ma io non
mi lasciavo manipolare. Non andavamo d’accordo, non eravamo sulla
stessa lunghezza d’onda. Era carino, a me era anche abbastanza
simpatico, dico “abbastanza”, ma non del tutto... Non mi piaceva
il suo spirito da “Marc’Aurelio”. Non so che cosa non mi
piacesse in lui, c’era qualcosa in lui che non mi piaceva. Forse un
certo tipo di ironia che usava, ma in realtà non era molto ironico.
L’episodio della Dolce vita era nato da un episodio reale,
una litigata spaventosa che facemmo io e Marcello a tavola, sotto gli
occhi di Federico e Pier Paolo, avvenuta in nome di che, non
l’abbiamo mai saputo. Io e Marcello avevamo un ottimo rapporto.
Eravamo amici. Scoppiò questa specie di bomba. E a Fellini quella
scena piacque pazzamente e la ricreò per il film.
Come fu il rapporto
con Rossellini per “Era notte a Roma”?
Rossellini era molto
carino. Giovanna Ralli aveva vietato qualsiasi pubblicità sul mio
nome. Nella sequenza in cui scendevamo dalla camionetta, io feci una
bella mossa: mi sono tirata su tutte le sottane, e così apparvero le
cosce. Mi sono guadagnata un applauso a Cannes. Entrai in un
magazzino, da cui bisognava uscire di corsa. Arrivata davanti alla
porta, Rossellini mi disse: “Laura, prima tu!” La Ralli mi ha
dato uno spintone che ancora un po’ mi caccia per terra, ed è
uscita prima lei, così si è presa subito il primo piano. (ride) E
Sergej Bondarciuk che rideva, rideva. C’è poco da ridere, caro...
Rossellini era un uomo molto dolce. Era un regista, un uomo molto
paziente.
Dopo “Teorema”,
inizia veramente la tua carriera cinematografica. In quello stesso
1968 interpreti “Orgia” e dichiari alla stampa che vuoi lasciare
la canzone...
Sì, perché era
difficile portare avanti le due cose. La canzone era molto
impegnativa. Non ce la facevo. Il teatro non mi interessava tanto, me
l’ha fatto fare quel rompicazzo di Luca [Ronconi], perché io
volevo fare solo cinema. D’altra parte ero piena di proposte per il
cinema, anche perché avevo vinto la Coppa Volpi.
Con Mario Bava hai
recitato in due film dell’orrore...
Eravamo molto amici. Ero
stata io a pescarlo dopo la Coppa Volpi: “Senta caro, io adesso
voglio fare un film con lei”. Lui si è sentito molto lusingato,
bene o male. Mi piaceva molto il genere horror e Bava era un uomo
molto simpatico. In Reazione a catena, io e Pistilli ci
trovavamo nella foresta. Per la verità, della foresta non c’era
manco l’ombra, manco n’albero, eravamo su una spiaggia. Mario
stava con una frasca in mano e l’agitava davanti alla mdp per
simulare, appunto, l’esistenza di una foresta. Noi non riuscivamo a
resistere perché scoppiavamo dal ridere... Lui aveva milletrecento
espedienti, anche nell’altro film, dove interpretavo il ruolo del
fantasma, si era sdraiato per terra, e muoveva la mano velocissima
davanti all’obiettivo così sembrava che volassi...
Hai anche accompagnato
l’esordio di André Téchiné...
Téchiné è venuto a
dormire da me, a Campo de’Fiori, e lì ha finito la sceneggiatura
di Paulina s’en va e voleva che la interpretassi. Io avevo i
miei dubbi - mi sembrava una gran cagata - però ha tanto e tanto
insistito che l’ho interpretata. È stato un insuccesso
travolgente... tant’è che alla fine, dopo la presentazione a
Venezia, mi ero voltata per sparire quatta quatta, ma c’era Ernesto
G. Laura che mi ha impedito di squagliarmela... alla fine della
proiezione, un silenzio, un grande silenzio... arrivano dei fiori,
delle rose rosse per me e Marie-France Pisier. Il pubblico si volta,
ci ha guardato e se n’è andato... Non fu proprio piacevole...
Una forte complicità
ti ha unita, in seguito, a Bellocchio per tre film, uno dei quali è
una delle tue interpretazioni più belle, più complesse, “Il
gabbiano”...
L’incontro con Marco è
stato molto importante, mi corrispondeva anche più di Bernardo...
quest’anima un po’ russa, che mi stava bene addosso... Il
gabbiano è un film bellissimo, ma è stato trattato male da
tutti, da Marco per primo, che aveva il problema dell’uscita in
Televisione sulla RAI e poi al cinema, e l’ha mollato. Ma
senz’altro è uno dei suoi film più belli... il rapporto del mio
personaggio col figlio, quando si sbranano, è il cuore del film...
Bertolucci è l’altro
autore con cui hai un'intensa complicità...
Totalmente opposto. Marco
è un autore che scava dentro, Bernardo ha la necessità di metterti
a tuo agio in uno spazio, in una camera. Quando vede che sei a tuo
agio, allora può iniziare a girare. Non è una tecnica sbagliata, ma
insomma... io mi trovo meglio con Marco, ho più bisogno di andare a
fondo... Mi ha tagliato in una breve apparizione in Ultimo tango a
Parigi, un cammeo molto carino...
In “Allonsanfan”,
i fratelli Taviani hanno valorizzato la dolcezza del tuo
temperamento...
Sì, io ero una tata
affettuosa, ma anche incestuosa... i Taviani sono due persone
squisite. Con Marcello stavo benissimo, mi venivano delle ridarole,
mi ricordo che una volta, ridevamo sgangheratamente... ai Taviani non
interessava e diedero motore ciak azione: Marcello rimase con tutte
le rughe delle risate sulla bocca, tant’è che il truccatore si è
avventato sulla scena e gli ha stiracchiato la faccia per fargliela
ritornare senza le grinze della risata...
Hai sempre avuto,
ancora oggi, un rapporto molto forte con il cinema francese. Per
esempio, Jacques Deray ti ha diretta in due film e ha parlato di te
con grande ammirazione nelle sue memorie...
Era molto simpatico,
abbiamo fatto due film, Un papillon sur l’épaule [titolo
italiano Morti sospette] era bello. Lino Ventura era un
bellissimo attore. Sul set del precedente film che ho fatto con
Jacques, Le Gang, stavo malissimo perché Alain Delon e Deray
litigavano di continuo. Era Delon che aveva voluto quel film, era
Deray che aveva voluto Delon... insomma, una fatica tremenda, c’era
una tensione terribile. Ma con me erano tutti e due molto gentili.
Anche Delon era molto gentile: il caldo, quell’estate, era
asfissiante e lui, che era anche il produttore, sguinzagliò tutte le
sue guardie del corpo per cercare dei ventilatori per la troupe.
Finalmente ne ha trovati uno o due e li ha fatti mettere nella mia
camera d’albergo. Delon è una persona deliziosa. Deray era molto
appassionato di letteratura, leggeva molto, era amico di Flaiano, una
persona gradevole. Peccato che litigassero sempre... e sì che
avevano fatto molti film assieme, ricordo La piscina che era un bel
film...
Hai anche interpretato
due film con Jean-Claude Biette, che era stato collaboratore di
Pasolini...
Era meraviglioso... lo
amavo proprio tanto. Se n’è andato e non capisco proprio... com’ha
fatto a morì non lo so... aveva un rapporto bellissimo con Pier
Paolo che si fidava di lui per le traduzioni francesi e i dialoghi
dei suoi film, ma non sul set: sul set di Edipo re, gli diceva
di spostare una massa di figuranti e Biette, con la sua vocina,
“Messieurs, s'il vous plaît...” Ma come s'il vous plaît,
cacciare un urlo doveva!
Catherine Breillat,
oltre ad averti dato un ruolo breve, ma molto bello, in “A mia
sorella!”, ti rende anche una sorta di omaggio, mostrando nel film
una tua intervista alla televisione...
Catherine è molto brava,
molto furba come narratrice: il tono del film sembra molto piatto, ti
chiedi “ma dove andiamo a finì, ma dove andiamo a finì”, fino a
quando arriva la violenza finale... (ride) Soltanto Catherine può
arrivare a delle rotture di tono simili. Ho visto altri film suoi,
più belli di questo forse, come Parfait amour! magnifico. La
protagonista è un’attrice fantastica.
Due incontri
significativi sono stati anche quelli con Miklós Jancsó e Gianni
Amelio...
Jancsó è un uomo molto
interessante, molto dolce, molto poetico. Lo amavo molto. Lo sentivi
inquieto perché non aveva le sue radici qui in Italia. Non stava
bene. Il piccolo Archimede è davvero bello. Io ho lavorato
molto bene con Gianni, solo che dovevamo salvarlo perché lo volevano
menare. Non era un uomo facile. Il film era prodotto dalla RAI con
una troupe della RAI che per la prima volta usciva fuori dalla sua
routine... Gianni non reggeva: i tecnici della troupe erano tremendi,
facevano sempre le pause-panino... Erano impiegati RAI che non
rappresentano proprio l’ideale per un film... Lui si arrabbiò
violentemente e loro lo volevano menare. Io e un’altra del set
facevamo scudo con il nostro corpo per salvarlo, però i rapporti
rimasero pessimi. E lui aveva torto: sapeva con chi aveva a che fare,
sapeva che razza di troupe fosse... Gli dicevamo di stare tranquillo,
non puoi competere con un’intera troupe...
Durante quel mio primo
piano alla grata della tomba, quando sto lì aggrappata, per girarlo
Gianni aveva bisogno, come me, di una certa concentrazione, e sul più
bello quegli animali hanno gridato: “Pausa per il panino!!”
Nel 2002 hai recitato
in uno spettacolo curioso, “I cosmonauti russi”, un dramma
jazz...
Ah, per quello spettacolo
mi sono proprio divertita... ho fatto un affondo di nuovo nel jazz.
Abbiamo fatto due o tre repliche al Regio di Torino e all’Auditorium
di Roma... una grande orchestra, dei solisti bravissimi... io ero la
“stella cattiva”, che “brilla a vostro danno” e dice agli
astronauti: “il vostro viaggio vi rende saporiti”...
Postilla
Questa intervista è
stata realizzata nella casa di Laura Betti, poco più di un mese
prima che morisse. Era molto indebolita nel corpo, ma aveva una
volontà irriducibile di fare, progettare, preparare, e anche
recitare, che andava oltre le sue condizioni fisiche. Una volontà
che non l'ha mai abbandonata. Laura Betti era una donna estrema in
tutto, negli amori come negli odi. Come tutte le forti personalità,
aveva dei risvolti segreti, preziosi. Era di una dolcezza
sorprendente, aveva una generosità straordinaria, un'ironia
fantasiosa e inesauribile. Nei suoi ultimi mesi, non so per quale
fortuna, io ho potuto conoscere questi aspetti della sua personalità,
che mi mancano molto. [R.C.]
Da “Cineforum”, n.
437, agosto-settembre 2004, ora nel blog di Angela Molteni., donde
l'ho ripreso togliendo le note.
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