Si parla molto di integralismo religioso. Riteniamo che, al di là delle differenze fra le diverse fedi, la deriva integralistica si formi quando la pratica religiosa da fatto individuale viene trasformata in tratto necessariamente connotante una intera società e dunque comportamento obbligato. Per restare all'Occidente, è il caso del cristianesimo a partire da Ambrogio che per primo affermò la supremazia della chiesa sullo stato . Uno studio di Franco Cardini ne analizza criticamente l'opera.
Paolo Mieli
La teocrazia di Ambrogio
Nel IV secolo il mondo cristiano fu sconvolto dall’eresia ariana. Ario, teologo nordafricano, sosteneva che Cristo, essendo stato «generato» da Dio unico, eterno e indivisibile, era «venuto dopo» e non poteva essere considerato allo stesso modo del Padre: c’era stato, cioè, «un tempo in cui il Figlio non c’era». Ai tempi di Costantino, che aveva spalancato le porte dell’impero ai seguaci di Cristo, si tenne il Concilio di Nicea (325) che condannò la dottrina ariana. Ma qualche tempo dopo l’imperatore riabilitò Ario e costrinse all’esilio il suo grande nemico, Atanasio vescovo di Alessandria. Dopodiché i decenni successivi furono contrassegnati da una lunga controversia tra ariani e atanasiani e la Chiesa di Roma faticò non poco per venire a capo della dottrina eretica che nel frattempo aveva conquistato vescovi e sovrani.
Un grande protagonista di
questa battaglia fu Ambrogio, che pure sulle prime aveva avuto
qualche indulgenza (o qualcosa di più) nei confronti
dell’arianesimo. È questo il punto di partenza di un originale
libro di Franco Cardini Contro Ambrogio , che sta per essere dato
alle stampe dalla Salerno.
Fin dalle prime
righe, Cardini mette le mani avanti per difendersi dalle accuse che
potrebbe ricevere per questo saggio impertinente. Il suo non vuol
essere né un pamphlet «provocatorio», né «un’indecorosa
dissacrazione», tantomeno «un dissennato attacco a livello storico
o peggio ancora teologico» all’indirizzo dell’uomo che, tra
l’altro, fu ispiratore e modello per sant’Agostino. Non vogliono
essere, i suoi, «giudizi moralistici del tutto antistorici», né
«paradossali esercitazioni ucroniche» e neppure «fatue e faziose
polemiche» con il senno del poi.
È, quello di Contro
Ambrogio , solo un tentativo di «uscire dal comodo riparo dello
storico» a favore di una modalità che gli consenta di «scoprirsi»,
«esporsi», «prendere posizione». Il tutto non disgiunto da un
«pizzico di autoironia per aver tentato, al cospetto di un gigante
della storia e del pensiero, una specie di ruggito del topo».Tra
l’altro che ci siano aspetti controversi nella vita di Ambrogio
traspariva già, tra le righe, dalle impeccabili note di Marco Navoni
alla Vita di sant’Ambrogio (edizioni San Paolo) scritta da Paolino,
coevo e principale collaboratore del patrono di Milano. Così come,
sempre tra le righe, dalle biografie di Cesare Pasini, Ambrogio di
Milano. Azione e pensiero di un vescovo (edizioni San Paolo) e di
Angelo Paredi, S. Ambrogio e la sua età (Jaca Book). E anche, sia
pur marginalmente, dallo straordinario Teodosio il Grande (Salerno)
di Hartmut Leppin.
Il libro di Cardini
prende le mosse dal 374 allorché, avendo esercitato fin lì il ruolo
di governatore laico di una regione che all’epoca corrispondeva
alla Liguria e all’Emilia e pur non essendo ancora battezzato, il
trentacinquenne Aurelio Ambrogio (era nato nel 339 a Treviri, città
che dal 292 era la residenza ufficiale dell’imperatore romano
d’Occidente) fu nominato vescovo di Milano, dal 286 «sede
imperiale».
Era figlio di un alto
magistrato del sovrano Costantino II, ma su suo padre c’è un
«ambiguo silenzio» che ci indurrebbe a sospettare fosse stato
coinvolto in una delle controversie dell’epoca e avesse «militato
dalla parte degli sconfitti». A «portarlo così in alto» era stato
il prefetto Sesto Petronio Probo, un uomo molto chiacchierato con
evidenti inclinazioni all’arianesimo, così come l’imperatrice
Giustina (moglie di Valentiniano I e madre di Valentiniano II)
protettrice di Probo. Ariano fu anche il suo predecessore alla
cattedra episcopale milanese, Aussenzio.
A decidere della sua elevazione a quell’importantissimo incarico sarebbe stato il grido di un bambino, che in una riunione popolare avrebbe invocato «Ambrogio vescovo!», suscitando un immediato entusiasmo popolare in quella che Cardini definisce una evidente «messinscena», un «ben architettato episodio di organizzazione del consenso», un genere di «spontaneità popolare accuratamente pilotata». Dietro la quale è ancora ben riconoscibile la regia di Probo. In ogni caso, a seguito di quell’acclamazione, Ambrogio si fece battezzare, divenne vescovo (con qualche irregolarità formale) e non tardò a liberarsi dell’ingombrante appoggio del suo potente protettore.
Da quel momento
comparve al suo fianco il presbitero Simpliciano, fedele di Atanasio,
che gli fu accanto tutta la vita e, nonostante avesse venti anni più
di lui, gli sopravvisse. Per un breve periodo ci fu anche suo
fratello Satiro, che Cardini sospetta nutrisse simpatie ariane.
Quanto a lui, nel 376, in contrasto con l’imperatrice Giustina, si
oppose all’elezione a Sirmio di un vescovo seguace di Ario e dal
378 iniziarono a comparire spunti anti-ariani nelle sue omelie.
Giusto in tempo per essere in sintonia con l’editto di Tessalonica
(380), con il quale l’imperatore d’Oriente, Teodosio, impose «a
tutti i popoli a noi soggetti» la disciplina apostolica e la
dottrina evangelica del credo «nell’unica divinità» di Padre,
Figlio e Spirito Santo. Sicché Teodosio, secondo Franco Cardini,
«ben più adeguatamente di Costantino, può essere considerato il
vero fondatore dell’impero romano-cristiano».
Comunque la partita religiosa si riaprì nel 386, quando Giustina impose un decreto per la libertà di culto che consentiva agli ariani di pretendere una basilica in cui poter celebrare il rito. Ambrogio si oppose con forza e una folla («spontaneamente convocata», ironizza Cardini) scese in piazza a spalleggiare il vescovo, creando «una situazione al limite della legalità». La «contesa delle basiliche» andò avanti per settimane, incrinò il rapporto di Giustina con il proprio figlio Valentiniano, si concluse con il trionfo di Ambrogio e la sconfitta della libertà di professare religioni diverse da quella stabilita al Concilio di Nicea.
Il vescovo di Milano,
una volta piegata la corona d’Occidente, si dedicò a sottomettere
quella d’Oriente. Vale a dire Teodosio. Una prima volta, nel corso
di una cerimonia religiosa, il vescovo invitò l’imperatore a
lasciare il presbiterio e ad andarsi a sedere, sia pure in prima
fila, tra i fedeli. Quasi esplicito il significato, sotto il profilo
simbolico, di questo gesto. Ma l’occasione decisiva si presentò,
dopo una serie di piccoli e grandi sgarbi da parte dell’autorità
religiosa nei confronti di quella imperiale, con l’orrenda vicenda
del tempio di Callinicum (l’odierna Raqqa). Lì un gruppo di
cristiani aveva date alle fiamme una sinagoga, l’imperatore li
aveva condannati a risarcire la comunità ebraica: Ambrogio impose a
Teodosio di revocare quell’ingiunzione.
Poi, nel 390, ci fu
la strage di Tessalonica. Un auriga dei giochi circensi era stato
imprigionato per «comportamento immorale». I suoi tifosi avevano
reagito aggredendo a sassate un funzionario imperiale, Buterico, che
era stato ucciso e trascinato per le vie della città greca. Teodosio
giudicò sospetta quell’esplosione di rabbia e accondiscese alla
richiesta dei militari di reprimere con violenza (migliaia di morti)
i rivoltosi.
Ambrogio ne approfittò
per umiliare una seconda volta Teodosio, chiedendogli un pubblico
pentimento per l’eccidio. L’imperatore provò a resistere, ma poi
decise di sottomettersi all’ingiunzione. Secondo la ricostruzione
di Paolino, Teodosio «pianse pubblicamente nella Chiesa il suo
peccato… con lamenti e lacrime invocò il perdono». Anche
Agostino, nel De civitate Dei , ricorda la scena: Teodosio «fece
penitenza con tale impegno» che tra i fedeli il «dolore nel vedere
umiliata la maestà dell’imperatore» prevalse sullo sdegno per il
ricordo della strage. Teodosio si accorse probabilmente di quel che
era accaduto nel profondo e, per rimediare, si recò a Roma dove fu
accolto da senatori e ottimati con feste che più o meno
esplicitamente rendevano omaggio agli antichi culti pagani.
Rubens, Ambrogio e Teodosio
Tuttavia l’episodio dell’imperatore «penitente per imposizione di un vescovo», osserva l’autore, fece scalpore in tutta l’ecumene romana: era la prima volta che «l’Augusto, da principe aureolato di autorità sacrale qual era sempre stato, da vicario del Cristo in terra, era sceso al livello di un semplice fedele, pronto ad umiliarsi per ricevere il perdono». Ambrogio approfittò di quell’atto di sottomissione per riprendere e condurre a compimento «il progetto di delegittimazione totale e irreversibile dei ceti diversi da quello cristiano niceno in tutto l’impero».
Fu lui ad ispirare
l’editto del 391 che vietava qualunque forma di ossequio alle
divinità «gentili» nella città di Roma e prevedeva pesanti
sanzioni per i funzionari inadempienti. Era la «totale palinodia»
rispetto al comportamento tenuto e alle misure adottate
dall’imperatore un po’ meno di due anni prima nel corso della
menzionata visita a Roma. Da quel momento fino alla morte, nel 397,
Ambrogio esercitò una sorta di «dittatura» sottile sul potere
imperiale d’Oriente e d’Occidente. Anche a costo di lasciarsi
andare ad imprudenze, di commettere errori, e di fare scelte in
contraddizione con i suoi principi. Ma la sua missione era compiuta.
I l suo lascito fu inequivocabile. Dal momento che il sovrano era stato per lui non al di sopra, bensì all’interno della Chiesa, ne discendeva che risultava subordinato all’autorità ecclesiale. In tal senso, Ambrogio si pone alla base «di un lungo e complesso itinerario che in vario modo, attraverso l’agostinismo politico, la riforma della Chiesa dell’XI secolo e il monarchismo pontificio», ha configurato una ben delineata tradizione. Tradizione «che in ambito cattolico — una volta battute le eresie e isolati come eretici o comunque pericolosi molti movimenti “non conformisti” medievali — solo il conciliarismo quattrocentesco, in una certa misura il Vaticano II e, oggi, le scelte innovatrici di papa Francesco, hanno teso in qualche modo a limitare e a correggere».
Un messaggio venuto da lontano, radicato nella certezza che «il liberare e il mantener libero il clero dai controlli e dai condizionamenti di qualunque autorità terrena — ben al di là se non al contrario di quanto Gesù dichiara esplicitamente a Pilato — sarebbe stata condizione necessaria e sufficiente per salvarlo dalle tentazioni terrene». E sappiamo, aggiunge Cardini, che «l’intera storia della Chiesa dimostra l’opposto». Dopo Ambrogio, la Chiesa romana divenne potente «con la forza di una mirabile espansione intellettuale e missionaria, ma anche con l’inflessibilità e l’intransigenza della fedeltà a un disegno egemonico affermatosi poi tra l’XI e il XVI secolo attraverso la rimozione delle istanze provenienti dal mondo greco, da quello orientale, da quello vario, insidioso e imprevedibile delle eresie, da quello musulmano (pensiero filosofico-scientifico a parte), salvo dover poi subire i contraccolpi degli scismi, della Riforma protestante, dell’offensiva razionalistico-scientifica».
Traendo ispirazioni e suggestioni da Francesco d’Assisi, Nicola Cusano ed Erasmo da Rotterdam, Cardini si chiede se, «astraendo dal modello e dal magistero ambrosiani la Chiesa sarebbe mai giunta a dover concepire i tribunali inquisitoriali, ad affrontare scismi e riforme, a subire lo “strappo culturale” della “modernità” con il relativo processo di secolarizzazione». Dubbi e rilievi che, come è evidente, vanno ben al di là della figura storica di Ambrogio.
Il Corriere della sera –
26 aprile 2016
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