Negli Stati Uniti come in Italia la questione abitativa diventa lo specchio della crisi del ceto medio e delle nuove forme di esclusione sociale. Nulla di molto diverso da ciò che il vecchio Engels scriveva nel 1872 in “La questione delle abitazioni”. Cambiano i tempi e le ideologie, ma i problemi restano gli stessi: il lavoro, la casa, la salute.
Guido Caldiron
My home sweet home?
La vicenda è nota, anche
perché le drammatiche conseguenze di quanto accaduto allora non
hanno mancato di far sentire a lungo la propria eco sull’intera
economia internazionale. Ma per gli Stati Uniti, quella che viene
ricordata come la crisi dei mutui subprime, che iniziò a sconvolgere
il sistema bancario, e quindi quello finanziario, tra il 2007 e il
2008, come effetto dell’implosione della bolla immobiliare che si
era creata nel corso di più di un decennio, fu anche e soprattutto
un disastro sociale di proporzioni talmente vaste da far evocare la
grande crisi del 1929.
L’impossibilità di
pagare le rate dei mutui contratti con le banche per l’acquisto di
un’abitazione, a causa del forte rialzo, immediato e inaspettato
dei tassi di interesse, ha infatti spinto oltre 2 milioni di famiglie
americane sull’orlo del fallimento: e in molti non hanno finito
solo per perdere la casa, ma anche il lavoro, la propria rete di
relazioni e di affetti, il proprio status sociale.
Una totale e drammatica
messa in discussione degli stili di vita e della percezione di sé
che ha colpito in primo luogo, anche se non solo, la middle class
bianca, quel ceto medio fatto di piccoli impiegati e lavoratori
manuali specializzati che incarna ancora per molti versi il cuore
dell’american way of life. E il cui malcontento e insoddisfazione,
sentimenti che hanno in realtà rasentato talvolta anche forme di
vero e proprio rancore, non ha mai smesso di farsi sentire lungo il
decennio dell’amministrazione Obama e ora, come indicano tutti i
sondaggi, rischia di essere attratto in modo cospicuo dal fenomeno
Trump.
I costi «patologici»
degli alloggi
Ciò che molti lavoratori bianchi e le loro famiglie hanno subìto sulla loro pelle alla fine dello scorso decennio con la perdita della propria dimora è però da tempo la norma per il resto della popolazione. E in particolare per i più poveri. Siano essi bianchi, ispanici o neri. Insieme al redditto, ma molto meno evidenziato perlomeno sui grandi media, quello della casa risulta infatti essere uno dei principali indicatori dello stato di salute, o meglio delle patologie che affliggono il sistema sociale statunitense.
Secondo una recente
ricerca del Joint Center for Housing Studies dell’Università di
Harvard, che pubblica annualmente il The State of the Nation’s
Housing Report, una sorta di «stato dell’Unione» dal punto di
vista abitativo, oltre 11 milioni e mezzo di famiglie americane
spendono ogni anno più di metà delle loro entrate solo per
sostenere i costi relativi alla casa, tra affitti e rate dei mutui;
questo mentre le autorità federali di Washington indicano nella
proporzione del 30% delle entrate il costo che ogni nucleo familiare
può sostenere a questo scopo per fare fronte in modo adeguato al
resto delle necessità dei propri membri. Il dato è inoltre in forte
crescita. Basti pensare che solo nel 2001 erano circa la metà, poco
meno di 7 milioni e mezzo, le famiglie che si trovavano in questa
situazione.
La crisi dei subprime ha
certo contribuito a questa situazione, ma il fenomeno, avverte ancora
il centro studi della celebre università del Massachusetts, va
considerato sul lungo periodo. Se negli ultimi anni chi ha perso la
casa di proprietà è stato costretto a rivolgersi ad un mercato
degli affitti dove vige la più totale deregulation e dove spesso gli
alloggi più a buon mercato sono in pessime condizioni se non, in
alcuni casi, addirittura insalubri, si deve anche tener conto del
fatto che lungo l’arco degli ultimi 15 anni i prezzi medi di un
contratto di locazione sono saliti del 10% mentre gli stipendi medi
scendevano del 7%.
Un’evoluzione in
negativo che ha finito per fare del «mattone» uno degli indicatori
migliori dell’impoverimento di una fetta crescente di americani.
Perché se nelle maggiori difficoltà che si registrano oggi
nell’accesso alla casa si misura il grado di declassamento del ceto
medio, presso i settori più deboli della società tutto ciò assume
la forma della marginalità e dell’esclusione più totale.
Le storie di chi ha perso
la casa
Una condizione che è stata descritta recentemente da Matthew Desmond, un giovane sociologo che ha già all’attivo uno studio sui meccanismi razziali tutt’ora presenti nella realtà statunitense, che ha seguito per due anni le vicende di alcune famiglie di Milwaukee che in seguito allo sfratto e alla perdita dell’abitazione sono state costrette a trasferirsi in veri e propri tuguri, in particolare dei ghetti neri, o in quartieri fatti di roulotte o mobil homes, condizione quest’ultima in cui vivono circa 20 milioni di statunitensi.
Evicted: Poverty and
Profit in the American City (Penguin Random House, 432 pp., 18$), il
libro, uscito da qualche mese, nel quale Desmond dà conto di questa
sua indagine etnologica tra gli sfrattati della metropoli del
Wisconsin, sta suscitando un certo dibattito nel paese. Attraverso le
storie di Larraine, Arleen, Pam, Ned, Scott e Crystal, tutte persone
sfrattate per motivi economici dai proprietari degli appartamenti in
cui vivevano e che spesso oltre alla perdita dell’abitazione si
sono dovute misurare anche con problemi di dipendenza da alcol o
droghe o con gravi forme di disagio psicologico, il ricercatore
ricostruisce infatti in modo meticoloso ciò definisce come «la
dimensione politica del funzionamento del mercato immobiliare» e i
suoi effetti sulla società americana.
Dal libro, ha
sottolineato la studiosa progressista Barbara Ehrenreich dalle
colonne del New York Times, emerge come non esista solo una
estesa speculazione immobiliare che sfrutta il bisogno di alloggi,
specie tra i settori sociali più deboli, ma anche il fatto «che
perfino la povertà può produrre utili». Nel senso che se i
proprietari che hanno sfrattato, con l’aiuto della polizia, Lamar,
Larraine e tanti altri dalle loro case sono «abbastanza ricchi da
potersi permettere le vacanze ai Caraibi mentre i loro ex inquilini
battono i denti nell’inverno di Milwaukee», anche chi gestisce il
terreno della zona povera del North Side destinato alle case mobili
in cui molti di questi sfrattati si sono trasferiti, «può intascare
fino a 400 mila dollari l’anno».
Dopo che qualcuno ha
subìto il trauma dello sfratto, il senso di perdita dei propri punti
di riferimento e degli affetti, specie per i bambini, suggerisce
Ehrenreich, subentrano altri attori che «hanno saputo trasformare in
oro il sudore e le lacrime degli esseri umani»; tra gli altri le
società che prestano denaro e coloro che vendono ogni genere di
cosa, a cominciare dai mobili, a credito.
E non importa quanto
drammatiche siano le condizioni della famiglia che un bel giorno al
primo mattino ha ricevuto la visita del proprietario di casa, in
genere accompagnato da uno sceriffo e dai suoi uomini. Come nel caso
di Lamar cui sono state amputate le gambe in seguito ad un incidente
e che percepisce un salario sociale di 628 dollari, mentre la pigione
che pagava fino a che non ce l’ha fatta più e ha accumulato una
discreta morosità, ammontava a ben 550 dollari, il ché gli lasciava
in tasca solo 2 dollari e 19 al giorno per poter vivere. In altri
casi gli inquilini hanno smesso di pagare l’affitto solo per poter
saldare le rate del riscaldamento.
Roma, anni '70. Occupazione delle case sfitte
Lo sfratto in «sorte»
alle donne
Certo, racconta Matthew Desmond, si può sempre fare appello contro questo genere di sfratti economici, anche se l’esito è comunque spesso favorevole ai proprietari, ma date le condizioni in cui vivono molti inquilini, la strada per i tribunali non potrebbe essere più impervia; «il 70% di loro non si presenta in aula perché non può assentarsi per alcun motivo dal lavoro o perché non sa a chi lasciare i figli piccoli nel frattempo o, semplicemente perché non ha in realtà mai ricevuto copia dell’atto di convocazione».
Proprio nelle aule del
tribunale di Milwaukee che si occupa di sfratti, dove la maggior
parte degli inquilini minacciati è composto da donne afroamericane e
dove gli avvocati della proprietà «portano tutti dei gessati
impeccabili e delle super cravatte», il giovane sociologo ha avuto
una sorta di rivelazione. «Se l’esperienza del carcere definisce
ormai da tempo la vita degli uomini dei quartieri poveri neri, lo
sfratto è diventato la sorte che attende quasi inesorabilmente le
donne di queste stesse zone. I neri poveri li si mette sotto chiave.
Le nere, le si mette alla porta».
E ciò che Matthew
Desmond ha visto e constatato di persona in una sola città trova
conferma nei dati disponibili sull’intero paese: negli Stati Uniti
una donna afroamericana su 5 subisce nel corso della sua vita almeno
uno sfratto, proporzione che tra le ispaniche è di una su 12 e tra
le bianche di una su 15. Se la «questione della casa» è uno dei
volti della crisi sociale che colpisce ancora una parte della
popolazione degli Stati Uniti, in molti casi questo volto ha anche un
coloro ben preciso.
Il manifesto – 3 luglio
2016
Nessun commento:
Posta un commento