E’ fin troppo nota la storia editoriale de
Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di
Lampedusa. Il libro, non accolto nelle collana Einaudi diretta da Elio
Vittorini, venne pubblicato da Feltrinelli nel 1958.
Ma non fu solo Vittorini ad avere riserve
sul capolavoro del Principe. Franco Fortini lo stroncò in una conferenza
svoltasi all’inizio del 1959 a Milano e Leonardo Sciascia non fu certamente più
generoso l’anno successivo, intervenendo al famoso Convegno di Palma di
Montechiaro organizzato da Danilo Dolci. Sull’intervento di Sciascia abbiamo
già scritto abbastanza in questo blog ( Basti rileggere http://cesim-marineo.blogspot.it/2014/08/danilo-dolci-e-leonardo-sciascia-nel.html).
Oggi pubblichiamo il testo di Fortini
raccolto in Saggi ed epigrammi, Mondadori
2003.
Il Gattopardo preso per i baffi
Franco Fortini (1959)
La vicenda
ha come protagonista il principe Fabrizio Corbara di Salina, probabile ritratto
di un nonno dell'autore e comunque suo portavoce, gentiluomo mezzo tedesco e
mezzo siciliano, colto, studioso di astronomia, orgoglioso, raffinato,
sensuale, energico, scettico, intelligente, ateo e osservante, individualista:
l'incarnazione dell'animale araldico della famiglia. La figura centrale, anzi
l'uni ca compiuta e quasi sempre presente, è questa. Il libro il va
concentrando sempre più su di lui, sino al lungo soliloquio sulla morte,
diffuso per tutto il capitolo sesto e settimo. C'è anche chi ha detto (a
cominciare dal Bassani) che, proprio per questa presenza continua del
protagonista, abbiamo a che fare con un lirico e saggista più che con un
narratore; altri ha recisamente relegato come semplici sfondo l'aspetto
"storico" del libro. Si pone qui una prima domanda: perché questa
apparenza di racconto a più personaggi? Perché questa apparenza di racconto
storico? C'è chi risponde che i residui naturalistici e veristici corretti
dall'ironia sono anch'essi sfondo volto a suggerire che il tema vero è quello
della indifferenza del destino individuale alla storia, a qualunque storia.
Troppo semplice: nella introduzione delle figure minori si sovrappongono e si
elidono, per esempio, intenti diversi. Anzitutto è sensibile soprattutto nel primo
capitolo, il più ornato e letterario di tutti - l'intento del pastiche,
con figure e figurine convenzionali, da film storico, tutte venute
dall'esterno, recensite: Fabrizio elegante e cinico, la moglie del Gattopardo
bacchettona e gelosa, la figlia Concetta orgogliosa e fredda, gelosa e zittella
predestinata, Angelica sensuale e calcolatrice, padre Pirrone prudente e
ipocrita, il giovane ufficiale buonsensaio e aleardiano, il funzionario
piemontese burocrate e pedante; un coretto di generici. Difficile distinguere
dove cominci l'impotenza narrativa e poetica e dove finisca l'intento ironico
di cincischiare una stampa ottocentesca. Ma la mancanza di dimensione dei
personaggi, il loro appiattirsi, hanno un altro e più profondo motivo: nella
misura in cui il centro di gravità e il punto di vista del libro è al livello
del principe di Salina, il bisogno di appiattire gli altri non è dovuto solo al
bisogno di rilevare quest'ultimo, ma alla necessità che i personaggi minori
confermino l'ideologia, il modo di concepire il mondo del personaggio maggiore
(e dell'autore). Ora l'orgoglio intellettuale, l'individualismo scettico e
l'identificazione di moralità e di buone maniere, che sono del Principe di
Salina, avevano assoluto bisogno, per non urtarsi a contrasti e conflitti che
avrebbero imbarazzato il Narratore, di avere a che fare con delle larve, non
con degli esseri umani. Non solo nel capitolo del ballo, quando i corpi dei
danzatori muovono a pietà Salina come quelli di persone destinate a morire, ma
in tutto il libro si suggerisce che negli altri il Salina, da buon sensuale e
astronomo, vede solo oggetti, cose, animali. I personaggi minori non sono (
come, in un momento di diminuito controllo, scrive Pampaloni) «le quinte vivide
e fugaci entro le quali corre tumultuosa di affetti la vita di Don Fabrizio»,
ma la conditone perché la vita di Don Fabrizio sia priva di affetti. L'autore
insomma, per esprimersi in quanto Salina, ha dovuto ridurre il mondo, evitargli
antagonisti veri, evitarseli. Quali che siano insomma i motivi di questa
convenzionalità dei personaggi minori (incapacità o estetismo), il loro fine è
apologetico nei confronti di Salina e dell'autore, corrisponde, più che ad una
inadempienza estetica, ad una inadempienza verso la verità. Che probabilmente
sono una medesima cosa.
Altrettanto
importante la scelta del tema storico. Che il Tomasi sia indifferente alle
vicende storico-politiche è stato detto e ridetto. Gli eventi garibaldini
vengono da lui ridotti e ridicolizzati e così le vicende dell'Italia umbertina.
I conflitti sono, come in Gozzano, poco più che battaglie di formiche rosse e
nere. Ma Tomasi aveva bisogno della prospettiva storica (nascita della
borghesia siciliana, declino della aristocrazia) non tanto perché quegli eventi
fossero - come dice ancora il Pampaloni -«esempi, conferme di una regola
ricorrente, di un modulo storico quasi fatale», perché sempre si vive in
un'epoca di transizione e «i conti dell'uomo con la storia non tornano mai» -
ma perché quel che preme e brucia al Tomasi è il suo presente, il suo sentirsi
biografico di nobile siciliano, di ufficiale effettivo, di marito di una
baronessa baltica e quant'altro si può agevolmente immaginare, nel corso
dell'ultimo cinquantennio. I conti con la storia, per il Tomasi, sono tutt'altro
che chiusi: ecco perché ha bisogno di ridurre tutto alla sua misura, e di
ideologizzare apologeticamente, sia con l'aiuto di alcune genericità
sociologiche sul sorgere e scomparire delle élites sia con altre
genericità geopolitiche sulla Sicilia e sulle sue vicende. Come sarebbero
altrimenti possibili, proprio a metà del libro, le battute di discussione con
il rappresentante piemontese? Vere di verità poetica, se descrivessero la
fisionomia intellettuale del Salina; ma esse descrivono invece la fisionomia intellettuale
dell'autore. La interpretazione di «sinistra» tende a mettere in evidenza il
realismo con cui è rappresentato il compromesso fra vecchie e nuove classi
dirigenti, fra cavourriani ed ex borbonici ai danni della causa democratica, il
«bisogna che tutto cambi perché tutto rimanga lo stesso», come puro cinismo.
Nessun
dubbio che, fra cinquanta o sessantanni, uno storico potrà trovare in
quest'opera l'obiettivo riflesso dei conflitti di classe nella Sicilia fra il
1940 e il 1960 visti attraverso quelli di un secolo prima. Ma mi par difficile
invocare a favore del Gattopardo il trionfo del realismo caro a Lukàcs: non c'è
in tutto il libro un solo momento nel quale sia obiettivamente superato il
punto di vista ideologico dell'autore. Non abbiamo a che fare qui con il
conservatore Verga che in Mastro don Gesualdo e nella sua storia di
ambizioni sbagliate e sconfitte rappresenta ed esalta un ordine di valori
inconciliabili con quelli della conservazione o che in un suo famoso racconto
fa esplodere il conflitto fra l'abortita insurrezione antifeudale e l'ordine
garibaldino-piemontese. Inutile sprecare l'aggettivo "reazionario",
per Tornasi. Quel che c'è di meno reazionario in lui è, semmai, la difesa dei
valori aristocratici quale viene pronunciata per bocca di Don Pirrone. Ciò non
toglie che si possa sottovalutare l'importanza della cornice storica. Il
giudizio negativo su quel momento centrale del nostro risorgimento nazionale è,
sì, storicamente fondato; ma ha una funzione ideologica ben precisa: l'apologia
del "sempre eguale" a partire dal sempre diverso.
Sarebbe
assurdo e ingiusto negare certe qualità di quest'opera. L'allegria o la cupezza
delle descrizioni - soprattutto quando non vogliono strafare - la sensibilità
umoristica e urbana, come nella scena del bagno del Salina o dell'ingresso di
Fabrizio avvolto nella mantella di ufficiale piemontese e in tanti altri passi,
il gusto della transizione, ad esempio nel dialogo del principe di Salina con
l'organista don Ciccio Tumeo; l'intelligente scelta delle situazioni, delle
quali tre almeno esemplari, quella ora rammentata, quella fra il principe e
Sedàra per combinare il fidanzamento, e quella fra il principe e il colonnello
Pallavicino. Esente dai vizi correnti di tragicismo, crudelismo, sciatteria o stravaganza,
il libro ha una sua architettura rigorosa: basti pensare alla pausa
rappresentata dal capitolo di Don Pirrone, che toglie di scena il principe
Salina e aggiunge un elemento fondamentale al quadro, rappresentando l'identità
sostanziale dei problemi al livello della aristocrazia e a quello dei cafoni
(classi fra le quali è mediatore il sacerdote). Il meglio è forse nei rapidi
affondi verso il futuro, che fanno intravedere in un lampo i decenni avvenire,
Angelica tramutata in viperina Egeria di Montecitorio e della Consulta,
Concetta risecchita pinzochera, gli affreschi palermitani distrutti nel '43.
Persino le pagine false e stucchevoli dei due innamorati perduti nel labirinto
di stanze del palazzo di Donnafugata, hanno qualche punto di pungente bellezza,
come nell'episodio del carillon settecentesco e della "gaiezza
disillusa" di quella musica, formula che si adatta benissimo ad un aspetto
importante della poetica di Tornasi di Lampedusa. Ad una prima lettura, ad
esempio, l'evocazione dell'appartamentino dei piaceri crudeli del sadico
antenato settecentesco e quella delle stanze d'una più remota fustigazione
cristiana potevano sembrare losche e un po' oziose variazioni letterarie. Ma
poi si vede quanto siano invece importante elemento, per dir così, etimologico
di Salina (e di Tornasi di Lampedusa). «Senz'altre riserve che quelle del gusto
- dice qui bene il critico più volte citato - il Tomasi appartiene al mondo del
decadentismo "classico", esistenziale e laico.» E non bisogna tacere
del capitolo del ballo, con la sua accurata preparazione, progressione,
partizione e soluzione che, sebbene preceduto e accompagnato da una quantità di
esempi letterari, è una Totentanz esemplare. Una scrittura di livello
medio-alto, alla quale si può perdonare l'aspetto compiaciuto, laccato,
mantecato come certe torte siciliane, piene di uvette, pistacchi e canditi,
dolce al limite della nausea. Ad esempio, e fin dalle prime pagine: «il
continuo fluire delle sonagliere, che ormai non si percepiva più se non come
manifestazione sonora dell'ambiente arroventato... paesi dipinti in azzurrino
tenero, stralunati... ponti di magnificenza bizzarra... fiumare integralmente
asciutte».
Continuamente,
grazie all'intervento critico-ironico, la volontà espressionista si allea ad
una intenzione sliricizzante («manifestazione», «magnificenza»,
«integralmente»). Alleanza perigliosa, quando si cade ad esempio in «quegli
alberi assetati che si sbracciavano...» o, poche righe più sotto, nella grave
ironia di «un enorme fabbricato abitato da braccianti, muli e altro bestiame».
La contraddizione stilistica del libro mi pare insomma risieda in questo: la
forma mentis ironico-epigrammatica, con la sua velocità e mobilità, mal si
accorda alla densa materia delle descrizioni compiaciute, fastose e mortuarie.
La gaiezza disillusa, fondata su scoscendimenti di livello linguistico,
allusioni urbane, "esprit" insomma, funziona benissimo quando opera
nel quadretto storico; ma quel passo, quell'andatura fra settecentesco e
libertino o meglio fra Anatole France e Maupassant, mal si lega con le esigenze
di una narrativa che abbia veramente come propria meta i modelli del
decadentismo. Anche Proust è spesso agilissimo e scintillante di spirito; ma è
la lenta avvolgente seta dei suoi periodi quella che (come, altrimenti, anche
in Mann) finisce col dare straordinarie obiettive presenze fisiche e morali.
Qui invece il paesaggio siciliano, col suo lutto e le sue stoppie, la bellezza
di Angelica, o le dimensioni leonine del principe son più dette che
rappresentate. Troppo asciutta razionalità aristocratica per quei brividi
cadaverici. Questa prosa finisce col far pensare spesso a qualcosa di
fabbricato. Tomasi non si è deciso fra un "tempo" veloce e un
"tempo" lento.
Il libro
sembra scritto per deliziare il villan rifatto che sonnecchia entro ciascuno di
noi; sentirsi dentro "il gesto sempre elegante dell'intelligenza",
nella "squisita discrezione". (La vera volgarità, ho sempre pensato,
consiste nel credere di non poter esserne fuori se non definendo volgari altri,
lontani e diversi.) Voglio dire che le continue lezioni di belle maniere che
imperversano nel libro, il tatto, l'inespugnabile cortesia, la rapida
adattabilità, la penetrazione mondana, l'arte innata della sfumatura, il saper
vivere, il gusto gastronomico, eccetera, sono debolezze perdonabili in
Salina-Tomasi ma assai meno nei critici che se ne deliziano; e tocchiamo qui
una delle più vili ragioni di successo del libro.
Tornasi di
Lampedusa, a dir vero, avverte per un attimo la povertà del suo personaggio
nello splendido incontro col colonnello Pallavicino, quando i rappresentanti
delle due dinastie comunicano nel culto delle buone maniere e della retenue.
Solo che questa indulgenza dell'aristocratico intelligente nei confronti di un
eguale di classe, indulgenza che egli, l'aristocratico, avverte come una
necessaria debolezza (e di cui Proust ci ha così meravigliosamente parlato), e
anche come una non vile solidarietà, nel libro di Tornasi non agisce solo a
favore del Pallavicino e ad opera del Salina, bensì a favore del Salina e ad
opera del Tornasi. L'autore difende insomma il personaggio e se stesso. Ecco
perché, si direbbe, i critici che per Salina e Lampedusa parlano di "gran
signore" non sanno, alla lettera, quel che si dicono. Il "gran
signore" è una nozione borghese, non occorre dirlo; è l'ideale borghese
per eccellenza e si fonda, in chi lo coltiva, sul sogno di un distacco e di un
disinteresse che non può (economicamente) realizzarsi. Probabilmente era
necessaria l'esistenza della piccola nobiltà di provincia (e della noblesse
de robe) nella Francia dell'età classica, perché nascesse la nozione
moderna di "gran signore". E ci si vergogna di dover ricordare che
non esistono davvero i grandi signori ma semmai i grandi uomini, che Manzoni
non era un "gran signore" ma qualcosa di più, e che Tolstoj lo era
solo quando si dimenticava di aver scritto i suoi libri, vale a dire quando
passava superbamente a cavallo davanti ai granduchi Romanov (o forse quando
allungava le mani sulle serve, nei corridoi degli alberghi svizzeri).
Bisogna a
questo punto dire che un libro come questo è proprio caduto dal cielo, fatto a
pennello per una situazione letteraria come quella italiana. Sorvoliamo su
tutto il patetico e il drammatico del gentiluomo siciliano che muore dopo aver
finito il capolavoro, che chiude gli occhi senza la gloria, riservato ed
elegante: che tema per i rotocalchi! Questa straordinaria, misteriosa Italia
che nel fondo della sua provincia... e la storia del cugino Lucio Piccolo che
con la complicità di Eugenio Montale (al quale perdoniamo difficilmente le
debolezze verso i "veri signori") è diventato il barocco poeta di
Capo d'Orlando, che Bassani promuove a massimo lirico dei nostri anni; e altre
baronesse, principesse e figlie di Benedetto Croce sullo sfondo. La manna
pubblicitaria è raccolta accortamente, nulla di male, il Gattopardo non è Bonjour
tristesse della Sagan, per sua fortuna, anche se la Weltanschauung
della ragazza francese e quella del gentiluomo siciliano hanno un comune albero
genealogico. Ma c'è qualcosa di più: il libro è, come si usa dire, "ben
scritto", giuoca su di un tema eternamente caro (il rapporto nord-sud), è
sensuale ma non azzardato, scettico ma mortuario, gentilomesco, lievemente
libertino; da l'impressione, anche a chi crede di non intendersene, dell'opera
d'arte. Ed è, o sembra, di destra. Fa l'elogio del sempre eguale. È una Sicilia
senza astratti furori, e senza sindacalisti. Ma, soprattutto, dà l'impressione
del già letto, del già pensato, del già saputo. Tutta la neoborghesia italiana,
figlia o nipote dell'Italia che aveva avuto fin verso il 1930 una letteratura
borghese (da Beltramelli a Fanzini e magari da Pirandello a Bacchelli),
interrotta dall'ermetismo prima e dal neorealismo poi, respira.
Indipendentemente dai giudizi di valore, la letteratura italiana riproduce
periodicamente questi casi di letteratura "accettata". Il libro
capita poi in una particolare contingenza della cultura italiana: trionfo di
una destra letteraria composta in gran parte di elementi della ex sinistra.
Concorrono i più diversi elementi: la polemica contro l'avanguardia condotta da
un critico come Cesare Cases in nome del realismo critico, quella in nome della
fantasia e della finezza che risuonano, diversamente, nelle pagine di Calvino o
dei recensori di «Paragone», la bandiera della filologia fisiologica e i del
clic magico alla Pietro Citati, la rivalutazione dello spiritualismo degli anni
Trenta, le forme vulgate del religiosismo semisociale; tutta l'Italia culturale
che, in un modo o in un altro, si è seduta, certa che la rivoluzione è stata
proibita per ordine dei comunisti e della televisione, persuasa che nulla
muterà, salvo alcune riforme di dettaglio o confirmatorie, l'Italia culturale
che fra poco si chiederà "Gramsci, chi era costui?" e che già trova
nel marxismo una vecchia favola, insomma l'Italia alla Elémire Zolla, che si
angoscia orficamente sulla cultura di massa e si salva col più reazionario dei
precetti, ossia sustine et abstine, tutta questa Italia ha creduto dapprima di
rispecchiarsi nel Pasticciaccio di Gadda, ha sobbalzato di gioia e di
rimorso leggendo Il dottor Zivago, ma si è riconosciuta solo nel Gattopardo;
ha goduto di questo odore di dente cariato. Non che questi critici siano del
tutto in buona fede; non escluderei anzi che alcuni segni di cafard après la
fete comincino già a manifestarsi. Ma quel che preoccupa è il significato di
politica culturale che il successo ha conferito a questo libro. E a chi ci
obiettasse che dopotutto si tratta di un "ottimo libro" - cosa che ci
guardiamo bene dal negare - e che capita molto di rado di leggerne così; e a
chi ci dicesse che dopotutto non esisteva in Italia un libro di questo tipo che,
eccetera, verrebbe voglia di chiedere se costui ha mai letto Italo Svevo.
Ma è tempo
di prendere il Gattopardo per i baffi. Non si tratta più di discutere
soltanto della qualità letteraria del libro.
Il critico
Pampaloni ha una notazione estremamente acuta, l'unica che accetto intera di
quel suo saggio «funereo e festoso, luttuoso e inebriante» com'egli dice sia il
motivo della morte nelle pagine del ballo; anche se, come si vedrà, lo accetto
solo col segno cambiato. Ed è quando, parlando della segreta irrequietezza che
compare di tanto in tanto nel principe di Salina, lo dice «ansioso di un esito
e - istintivamente cosciente della sua inadempienza verso la verità» (a p. 104,
ad esempio). Certo questa «inadempienza verso la verità», questa impossibilità,
di Salina, di sentirsi pienamente d'accordo con se stesso (anche nell'orgoglio
e nella difesa dei propri valori) che balena qua e là e tende sempre ad
esprimersi come desiderio di annullamento "pulito", nelle stelle; o
che più spesso si limita al senso del disfacimento e della putredine: questo è
il vero tocco geniale del libro. In Salina non compare mai la prospettiva del
divino (che sarebbe la "verità" del nostro critico cattolico) né
tanto meno quella di un superamento dell'individuale; come giustamente osserva
il critico, non c'è in lui nemmeno la religione laica. Per questo il Gattopardo
è il romanzo di un radicale di destra.
Ma così
esigui sono questi attimi, così fuggevoli. E soprattutto sono a tal segno
affidati piuttosto al tedio e fastidio o alla pietà dell'unico personaggio che
non ad un rapporto fra personaggi o fra personaggi e cose, che è forza
concludere che quella inadempienza verso la verità è anzitutto dell'autore. Né
Salina né Lampedusa giungono mai (o appena nel dialogo con Chevalley) a presentire
il rapporto degli uomini fra loro, quella interumanità, o interrelazione che dà
un così solenne significato alla parola storia e che, mediata dal più alto
romanticismo, nel pensiero rivoluzionario trasferisce verso la metà del secolo
scorso l'eredità del maggior pensiero borghese e cristiano tanto da passare, in
forme certo confuse o provinciali, perfino attraverso il generale Garibaldi. La
pietà, in Salina-Lampedusa, è invece e appena l'armonico dell'accordo
erotismo-morte. Non dimentichiamo che per tutti quei cattolici o semicattolici
che oggi vanno tanto d'accordo con i liberali laici e gli scettici
nell'elogiare questo libro è molto più agevole e facile l'ateismo di
Salina-Lampedusa, visto, dalla parte della «Bella immortai benefica / Fede ai trionfi
avvezza», attraverso la pietà e il gusto della cenere, che non passare dallo
scetticismo alla persuasione (o fede, se così la si vuoi chiamare) nella
corresponsabilità degli uomini. Quanto sono più vicini il libertino
razionalista scettico sensuale astronomo e feudale Salina e lo scettico
irrazionalista e freudiano letterato Tomasi, con la loro difesa dell'individuo,
alla Chiesa di Pio XII che non a qualsiasi altra posizione spirituale e
pratica! Il rifiuto della storia che c'è in questo libro non è rifiuto di
questa o quella storia ma rifiuto del mutamento in sé. Anzi quel che Salina e
Tomasi rifiutano non è nemmeno il cambiamento, né tanto meno il loro
cambiamento; Salina si adatta abbastanza bene, la propria decadenza fisiologica
la sopporta benissimo, e non si capisce poi che cosa abbia da rimpiangere, se
tutto seguita come prima, e quasi nulla ci viene detto dei primi quarant'anni
di vita, del perché dei suoi studi, fuor di qualche accenno ad erotiche
disposizioni favorite dal buon bere e dal buon mangiare. Quello che i nostri
personaggi e il nostro autore rifiutano sono «gli altri», tutti presentati come
meschini e ciechi, salvo forse quel figlio appena nominato, che se ne è andato
a Londra a lavorare come impiegato in una azienda di carboni; e al quale va
tutta la nostra simpatia. È vero che l'autore ha avuto il lampo di genio di
presentarci come relativamente cieco o sordo anche il suo eroe. Ma per trarre
tutta la edificazione possibile da questo exemplum, bisogna esser noi a
introdurre un elemento di giudizio, estraneo al libro. Se la morale del libro è
che la vita è un torbido male, bisogna ben dire che il sangue dell'avo sadico e
quello dell'avo santo flagellante si sono ben uniti in quello del Salina (e dei
Lampedusa). E a questo punto non si tratta nemmeno di opporre un'altra
concezione della vita e del mondo a questa loro; ma di dire che non si deve far
sopportare a questo libro più di quello che esso può; e che esso non può darci
né saggezza né tragedia.
Da Franco Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, 2003
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