30 luglio 2016

S. BARTEZZAGHI, Amore e morte

Ph. di Cartier Bresson

Riprendo da  http://www.doppiozero.com/materiali/la-morte-dopo-lamore  questo bel pezzo:

La morte, dopo l’amore

Una signora che conoscevo molto superficialmente un giorno mi chiese il permesso di farmi una domanda personale. Riguardava l’essere «traditi» e l’essere lasciati, argomento di cui si interessava per un suo importante lavoro. Me la rivolgeva perché io sono un uomo. Aveva notato come gli uomini «traditi» o lasciati dalle donne si sentano di norma «presi in giro» e mi chiedeva perché accadesse, secondo me. Ora non ricordo in cosa per lei differisse la tipica reazione femminile. Mi regalò uno dei primi romanzi di Elena Ferrante, allora appena uscito, e mi venne anche l’idea che Elena Ferrante potesse essere proprio lei. Allora stentai a risponderle. Ci riprovo, cara E.F., a distanza di molti anni, quando non siamo più in contatto e quando la situazione è di molto degenerata, fino a rendere necessario il conio del termine «femminicidio» e la fattispecie giuridica corrispondente.

«Tradimento» etimologicamente significa: «consegna al nemico». La scena originaria è religiosa, e assieme politica: Giuda consegna Gesù alle guardie. Lo fa, peraltro, con un bacio. Tradito e traditore moriranno ben presto, entrambi in conseguenza di quel bacio. Tradendo il suo Maestro, infatti, Giuda ha anche tradito sé stesso: si è consegnato a un nemico ancora più autoritario, potente e oscuro degli armati mandati dai sommi sacerdoti e dagli anziani del popolo.

In amore per sentirsi traditi non c’è bisogno che un dettaglio rivelatore – la maschera di Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick – ci incendi l’immaginazione: basta uno sguardo sbieco, una battuta di conversazione, un brutto sogno. Il geloso non dubita: pensa di sapere, infatti sa di poter essere tradito e tanto basta alla sua angoscia. È inutile negarlo: ognuno potrebbe trovare la propria maschera segreta deposta sul proprio cuscino. Tradimento di grado assoluto è poi la proclamazione della fine dell’amore e la conseguente volontà di sciogliere l’unione. Possono essere espresse con il massimo rispetto, la massima ragionevolezza, anche il massimo amore (perché l’amore può sopravvivere alla fine dell’unione). Non basta quasi mai. A percuoterci non è il suono o il contenuto delle parole («è finita»), ma l’atto che queste compiono e l’effetto che avranno sul nostro futuro e più ancora sulla nostra ricapitolazione del passato. Non era «vero amore», perché il vero amore è eterno, indissolubile. Io ho fallito, tu mi hai schernito, dietro le tue parole c’erano riserve mentali, dietro la schiena tenevi le dita incrociate, come da bambina. Che sarebbe stato «per sempre» non è stato vero mai, e tu lo sapevi. Mi hai tradito.


Un gorgo di pensieri, ricordi, fantasie ossessive prende chi lascia e chi è lasciato: il significato amoroso della parola «passione» si ribalta nel suo rovescio doloroso e mortifero, ancora una volta rimandandoci al racconto evangelico. Basta per giungere, se non al delitto, allo stalking, comunque all’impulso distruttivo?

Si fa presto a dire che non è amore. Che il vero amore non uccide, né ferisce, né offende. Una volta, fuori dai codici del maschilismo più tribale, si sarebbe detto anche che offendere, ferire o uccidere una donna non è da veri uomini. Poi però cosa significhi «vero uomo» non lo si è saputo più tanto bene. Forse qualche dubbio dovrebbe venire anche su «vero amore». È persino imprudente pensare che due persone che si amano reciprocamente e pienamente provino lo stesso sentimento l’una per l’altra, o che questo sentimento abbia lo stesso significato per ciascuna. Un pudore forse savio ci fa dire che due persone «stanno assieme» o che «hanno una storia»: è chiaro che c’è di mezzo dell’amore, ma non lo si nomina neppure, perché quale ne sia la forma e la sostanza nessuno saprebbe dirlo, e neppure i diretti interessati. Una delle più antiche testimonianze della parola «enigma» deriva dal brano del Simposio in cui Platone dice non che ognuno dei due è l’enigma dell’altro, ma che ognuno, davanti all’altro, si pone l’enigma di sé stesso: non conosce la domanda che fa all’altro, non sa cosa vuole.

A pensare questo inconoscibile ci aiutano le parole. I sinonimi volgari, per quanto diffusi, non hanno del tutto soppiantato il leggermente goffo «fare l’amore». Lo si usa ancora, forse perché dell’atto sessuale rende la capacità fattuale: fare l’amore fa essere l’amore; è «amore, quello vero» (cit.), quando lo si fa. E poi? Cosa succede, dopo? Appena la relazione intima diventa pubblica intervengono parole sociali, format esistenziali che danno l’idea di una definizione di senso comune: la coppia, la convivenza, l’unione, il matrimonio, la famiglia. In queste forme è ancora presente un diritto di proprietà, un vincolo rigido, un’idea di fedeltà che sfocia nella fede, cioè nella religione senza dèi dell’unità sacrale della coppia. L’unità definisce il tutto di ognuna delle sue due metà. Il sentimento (tanto folle quanto umano e necessario) che l’amore sarà eterno, assoluto, infinito, indissolubile è ciò che ci indusse a cambiare vita a causa dell’amore. Umano, ma non necessario, è rinfacciarselo a vicenda, quel sentimento, quando ormai l’amore infinito è finito, quando l’unione indissolubile si è dissolta.

Ognuno è Giuda di sé stesso. Il nemico a cui mi consegna il «tradimento» e il mio io di fronte all’unico specchio di cui disponeva, l’unico che considerava fedele, oramai infranto. È qui che la maschilità, lasciata sola come in realtà è sempre stata, riscopre le proprie risorse potenziali di forza, violenza e crudeltà, e non trova più la ragione per non metterle in atto.

Da innamorati ci si chiede: «mi pensi?». Significa «pensi a me?», ma anche «pensi me?»: hai un’idea del mio ruolo nella tua vita, del tuo nella mia? Occorrerebbe avere davvero pensato l’altro, averlo sempre ritenuto come un intero e non come la metà complementare e speculare di un insieme indissolubile, per non sentirsi traditi dalla sua defezione, magari occasionale ed effimera. E certo occorrerebbero risorse psicologiche notevoli per non concedersi neppure un vaffanculo: la saggezza di chi non perquisisce di soppiatto lo smartphone, di chi non improvvisa pedinamenti, di chi non pronuncia frasi terribili, di chi non si autorizza a immaginare la carne dell’altro a contatto con la carne di qualcun altro ancora, non sempre è alla portata. Bisognerebbe infine non sentirsi mai traditi, cioè bisognerebbe sentire che è un sentimento fuorviante, deriva da un equivoco patetico e vittimista a cui bisogna resistere sempre. A farcela, però.

Cara E.F. ci si sente presi in giro perché non abbiamo pensato abbastanza la persona che ci siamo limitati a sentire come «nostra» e perché lo standard della coppia ha sostituito alla fiducia, che è la costanza e l’onestà con cui si misura la distanza dall’altro, la fedeltà e anzi la fede; perché ci si è proclamati parte di un’unità e non di una relazione.

Ma dicevo che da quando mi ponesti la tua domanda, così nobilmente conoscitiva, i tempi sono cambiati, e non in meglio: quindi deve cambiare anche la domanda.

Cosa si fa quando ci si sente traditi e presi in giro? Se non si è all’altezza della risposta ideale – che è: «nulla»; semplicemente: «nulla»; assolutamente: «nulla» – faremo un passo verso il paziente nemico, che è sempre in attesa che ci consegniamo a lui. È una benedizione se la Legge, chi ci sta ancora vicino, qualche nostra insperata risorsa interiore ci impediranno di farne troppi altri.

Una versione ridotta di questo articolo è uscita su Repubblica il 29 giugno 2016.

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