L’islam spiazza il terzomondismo e l'antimperialismo marxista
Donatella Di Cesare
L’islam politico sembra
essere oggi l’unico ideale in grado di mobilitare masse di donne e
uomini e di sfidare l’ordine globale, l’unica bandiera per la
quale migliaia di giovani sono pronti ad affrontare la morte
dall’altra parte del pianeta. Sarebbero già oltre 20 mila i
jihadisti, giunti dai cinque continenti, per combattere nelle file
dello «Stato islamico dell’Iraq e del Levante». Le brigate del
jihad mondiale, riunite nel 2016 in Siria, richiamano alla memoria un
precedente, che si staglia, indelebile, nel nostro immaginario,
quello delle «Brigate internazionali» — costituite da circa 32
mila stranieri — che dal 1936, in Spagna, lottarono contro il
generale Franco, il fascismo e il nazismo. A giustificare il paragone
è un impegno senza frontiere.
Si tratta, senza dubbio,
di un paragone amaro, che suona quasi come un affronto per la
sinistra, erede delle «Brigate internazionali». Che dire, infatti,
se la solidarietà internazionale dei lavoratori, l’alleanza tra
gli emarginati delle periferie del mondo, la lega tra gli oppressi
delle metropoli occidentali, viene soppiantata dal mutuo soccorso
della fratellanza musulmana? Difficile rispondere. Perciò la
questione viene sistematicamente passata sotto silenzio. A meno di
non scegliere una delle numerose scorciatoie interpretative che
indicano nei jihadisti dei «mostri sanguinari», degli «psicopatici
narcisisti», le «vittime della crisi economica», il «risultato
immediato del disordine globale», la «prova del naufragio
dell’integrazione», i «figli di internet e dei videogiochi»...
Sono forse i luoghi
comuni a mettere sulla pista sbagliata. Anzitutto quello del
«multiculturalismo», un termine abusato, che spinge a leggere il
confronto tra mondo musulmano e Occidente come un conflitto tra
un’identità particolare e un’appartenenza universale. Ma lo
scontro — ha spiegato di recente il filosofo francese Étienne
Balibar nel libro Saeculum. Culture, religion, idéologie,
edito da Galilée — è piuttosto tra differenti universalismi,
rivali e incompatibili. A contrastare l’egemonia del sistema
capitalistico non è più solo la sinistra internazionalista. Lungi
dall’essere il terzo incomodo, l’islam appare l’unica potenza
capace di imporre un universalismo militante che si ripromette di
essere l’avvenire stesso di questo mondo.
E la sinistra? Come legge
questo scontro a tre? Considera l’islam un temibile avversario
oppure un possibile alleato, lo ritiene un concorrente aberrante e
perverso, sebbene temporaneo e caduco, oppure un complice necessario
nella lotta contro l’arroganza del mercato? Perché questo è
almeno certo: che da tempo il capitale, grazie anche alla tecnica, ha
varcato i confini, estendendosi su scala planetaria.
Dopo la caduta del Muro
di Berlino, mentre andava delineandosi la vittoria incontrastata del
liberalismo economico, in cui molti si sono affrettati a scorgere
l’orizzonte ultimo della storia, le disillusioni si sono
moltiplicate e la sinistra ha subito il contraccolpo restando sulla
difensiva. Molte speranze sono state allora riposte nel
terzomondismo, etichetta con cui, negli ultimi decenni del Novecento,
si è indicato quel movimento che ha sostenuto le lotte di
liberazione dei Paesi del Terzo Mondo dal dominio coloniale.
All’alba del nuovo
secolo, però, il terzomondismo ha assunto contorni diversi: da
Seattle a Bangkok, da Porto Alegre a Parigi, si è articolato in una
galassia no-global che comprende organizzazioni non governative,
associazioni ecologiste, sindacati e gruppi politici che rivendicano
diritti dell’immigrazione, del lavoro, ecc. Senza dimenticare
l’esperienza dell’anticolonialismo, passata, per motivi storici,
in secondo piano, questa galassia si è coagulata intorno alla
necessità di rispondere alla uniformazione del Mcmondo con una
alternativa anti-liberista, indicando il bisogno di vivere in forme
diverse, nel segno della solidarietà. L’«altermondismo», come
viene chiamato il movimento no-global nella sua versione ultima, ha
cercato di contrastare l’eterno trionfo del mercato, mostrando che,
proprio se si muove dal «mondo altro» delle periferie dimenticate,
un «altro mondo» appare possibile.
Sennonché, in mancanza
di un chiaro progetto politico, la rivoluzione senza frontiere si è
tradotta in una mobilitazione senza domani. Mentre
l’internazionalismo tentava di scalfire la globalizzazione
capitalistica, una nuova forza ha fatto una spettacolare irruzione
sulla scena della storia: l’islam politico. E ben presto, con la
sua logica transnazionale, la sua aspirazione trascendente, per un
verso ha lanciato una sfida inedita all’immanenza profana del
capitale, per l’altro ha tentato di spodestare la sinistra
terzomondista. In un saggio pubblicato nel 2015, Marxism,
Orientalism, Cosmopolitanism (Haymarket), Gilbert Achcar, uno dei
pochi intellettuali ad aver toccato questo argomento scottante, è
ricorso a espressioni taglienti: «L’integralismo islamico è
cresciuto sul cadavere in decomposizione del movimento progressista».
A parte rare eccezioni,
la sinistra ha reagito con una ambivalenza fatale. Già durante la
guerra d’Algeria era emerso con chiarezza che l’islam non
costituiva un semplice «di più» ma era piuttosto il cuore pulsante
della rivolta. Via via che l’islamismo si è imposto nel paesaggio
politico internazionale, la sinistra terzomondista è stata costretta
a scegliere: o prendere le distanze dai movimenti islamisti,
piccolo-borghesi, antimodernisti, per molti versi reazionari,
schierandosi dalla parte delle donne, degli omosessuali, fino a
coalizzarsi con le correnti liberali; oppure scegliere il «fronte
unico» islamo-socialista, in nome della comune lotta
anti-imperialista. Malgrado le frequenti oscillazioni, ha finito per
prevalere la tattica rischiosa dell’alleanza, dettata da numerosi
motivi. Anzitutto dalla convinzione che malessere e ideali dei
giovani islamisti avrebbero potuto essere facilmente «canalizzati»
verso obiettivi progressisti. Sostenuta a chiare lettere nel
fortunato pamphlet The Prophet and the Proletariat, pubblicato
nel 1994 dall’attivista britannico Chris Harman, questa tesi, che
ha resistito almeno fino alle «primavere arabe», spiega il sostegno
incondizionato all’islamismo inteso come movimento anti-capitalista
e anti-imperialista. Il sostegno è giunto fino ad appoggiare
organizzazioni fondamentaliste come Hezbollah in Libano, Hamas a
Gaza, e a unire, nelle manifestazioni contro la guerra in Iraq, le
proprie bandiere a quelle di gruppi vicini ai Fratelli musulmani.
Il criterio che ha preso
il sopravvento è quello del nemico principale: dato che si deve
sconfiggere l’imperialismo, sarà giocoforza essere dalla parte dei
talebani. Al fondo si scorge una presunzione paternalistica mista
all’ottimismo, molto occidentale, di riportare quei fratelli
minori, non ancora emancipati, che si muovono sull’onda
dell’integralismo religioso, all’interno della grande flotta
socialista.
E la religione? L’islam
politico non ha forse sempre rinviato al suo orizzonte teologico?
Certo. Ma c’è un precedente, spesso sottovalutato, nella storia
del terzomondismo, ed è la teologia della liberazione. Nell’America
latina, a partire dagli anni Sessanta, la sinistra atea trova un
formidabile alleato nel profetismo anti-imperialista di quei preti
delle favelas che, appellandosi alla giustizia e alla uguaglianza,
coniugano il Vangelo con la lotta di classe. Sembrano così
realizzare quel vincolo tra socialismo moderno e antico messianismo
ebraico-cristiano, evocato già da Rosa Luxemburg. Ecco che la
religione appare — secondo il famoso e complesso passo di Marx —
non tanto espressione della miseria quanto «protesta» contro la
miseria, non tanto «oppio» quanto eccitante dei popoli.
Perché non dovrebbe
accadere lo stesso con l’islam politico? Che la fiducia domini
ancora nella sinistra latino-americana non è un caso. Molto presto,
però, sembra evidente che l’islamismo non intende appoggiare i
movimenti progressisti, bensì emarginarli e soppiantarli. Questo
accade già nell’Iran di Khomeini. Nel 1978 Michel Foucault smette
gli abiti del filosofo per recarsi a Teheran come inviato del più
grande quotidiano italiano, il «Corriere della Sera». Critico verso
il marxismo, è attratto dall’evento dell’insurrezione.
Intervista operai e studenti: «Che cosa volete?». Si aspetta in
risposta «la parola “rivoluzione”». Invece quelli replicano «il
governo islamico». Per Foucault la religione non è il velo che
maschera la rivolta bensì è il suo vero volto. «L’islam — che
non è semplicemente religione, ma modo di vita, appartenenza a una
storia e a una civiltà — rischia di costituire una gigantesca
polveriera». Così scrive in un articolo dell’11 febbraio 1979.
Si capisce allora perché
quei suoi testi rari e appassionanti, grazie ai quali Foucault si
chiama fuori dal coro, siano ancora oggi fonte di discussione. Su
questo tema è tornato di recente Slavoj Žižek nel suo volume In
difesa delle cause perse (Ponte alle Grazie). Proprio Žižek fa
parte di quei pochi che sollecitano l’abbandono di alcuni tabù, a
cominciare dalla «proibizione di ogni critica dell’islam in quanto
caso di “islamofobia”». Tanto più che — come ha osservato
Jean Birnbaum nel suo ultimo libro — prevale ancora un «silenzio
religioso». Come se fosse impossibile da un canto dissociare la fede
musulmana dalla perversione islamista, dall’altro riconoscere la
dimensione religiosa della violenza jihadista.
Non è facile per la
sinistra terzomondista scoprire oggi che, seguendo una bussola ben
diversa, altri hanno imparato a navigare meglio nell’oceano della
collera universale e della speranza senza frontiere. Troppo tardi?
Forse no. Purché si ammetta che i jihadisti del Levante non vogliono
aprire un nuovo capitolo della storia umana ma chiudere una volta per
tutte con la storia profana, non vogliono portare la politica alla
sua apoteosi ma disertarla. E purché si riconosca che la fraternità
del terrore non è la fratellanza dei popoli, che il califfato, a cui
aspira il jihad mondiale concentrato in Siria, non è
l’Internazionale per la quale combatterono i volontari di Spagna.
“Corriere dela sera -
La Lettura” 3 luglio 2016
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