Alex Raso, Cesare Pavese
Poesia e Musica. Uno spettacolo e una riflessione su due grandi protagonisti della cultura italiana.
Pasquale Briscolini
Last blues. Un tentativo per avvicinarci alla poesia
Nella percezione più
banale o più remota (cioè quella che resta dai più lontani ricordi
di scuola) la poesia è caratterizzata di solito da due elementi:
- la rima fra le parole terminali di alcune righe;
- la presenza di “parole strane”, il cui significato non si capisce subito.
Da bambini, il primo di questi due elementi non dà fastidio, anzi.
Non a caso le fiabe più facili che si propongono ai più piccoli
sono “le filastrocche”, caratterizzate proprio dalle rime che
conferiscono alla lettura una certa “musicalità”. In qualche
caso, qui la lettura diventa una vera e propria “cantilena” che i
bambini ascoltano con simpatia e memorizzano facilmente.
Ma delle “parole
strane” si fa proprio fatica a capire la necessità. Anche perché
il passo successivo che il maestro o la maestra proponeva ai bambini
e poi richiedeva loro era “la prosa”, e cioè la traduzione della
poesia in parole “normali”, messe in modo tale da fornire un
significato “normale”. Almeno “una volta”, cioè “un po’
di tempo fa”, a scuola succedeva questo a proposito della poesia.
Allora la domanda sorgeva
spontanea nella mente dei bambini (almeno di quelli che qualche
domanda cominciavano a porsela da se’, oltre a quelle che in modo
quasi rituale arrivavano dal maestro o dalla maestra): “ma perché
il poeta ha un modo di dire le cose così strano, da richiedere una
traduzione per far capire quello che vuol dire? E se vuol dire quello
che poi si capisce dopo la “traduzione in prosa”, non poteva
dirlo lui stesso in modo normale? Ma non sarà mica un sadico, uno a
cui piace far soffrire la gente?”
Poi il tempo passa, i
bambini diventano grandi ma il dubbio resta, anche perché non si
hanno poi molte occasioni per poter chiarire, o meglio, per porre la
domanda giusta: ma la poesia, cosa è davvero? Anzi, succede più
spesso che il dubbio lo dimentichi anche chi l’aveva avuto, perché
nella realtà di tutti i giorni di poesia non si parla più, e la
riprova sta anche nell’estrema difficoltà che incontra, di questi
tempi, chi tenta di pubblicare un libro di poesie.
Questa situazione
consolidata innesca quello che si usa chiamare un “circolo
vizioso”, che è quella situazione negativa che si stabilisce fra
due condizioni per cui una è causa dell’altra e viceversa: in
questo caso, il non aver capito cos’è la poesia (di fatto il non
capirla) porta a non leggerla; d’altro canto, il non leggerla
allontana sempre di più la possibilità di capirla, e quindi di
capire “cosa è”.
Naturalmente, qui si
parla in modo generico e con esclusione delle “eccellenze”,
cioè di coloro – e ce ne sono, ovviamente – che hanno
consuetudine con le poesie (per un proprio talento innato nel capirne
il linguaggio o per la fortuna di aver trovato un contesto che ha
facilitato loro il compito), però sarebbe bello che questa
consuetudine potesse estendersi a tante persone, a tutti coloro che
forse la vorrebbero se solo ne intuissero la bellezza.
Per avvicinarci alla
poesia, proviamo a servirci di Pavese che – si badi bene – non
ci aiuta direttamente dandoci magari consigli per la lettura o per
l’ascolto, ma ci descrive con grande profondità il suo
rapporto con il “fare poesia”. Ci descrive in modo minuzioso il
suo processo di produzione poetica, e anche la sua evoluzione
all’interno di questo processo.
Ci riferiamo al saggio Il mestiere di poeta, che egli scrive nel 1934
sui tre anni di scrittura di Lavorare stanca. E’ sorprendente
pensare che ha solo ventisei anni, e non solo ha già prodotto
Lavorare stanca, ma è in grado di sviluppare una tale analisi del
suo “processo di produzione poetica”, collegandolo con le sue
altre attività e riflessioni. Quindi fortuna di aver trovato un
contesto che ha facilitato loro il compito), però sarebbe bello che
questa consuetudine potesse estendersi a tante persone, a tutti
coloro che forse la vorrebbero se solo ne intuissero la bellezza.
Inizia poi a descrivere
il suo processo di creazione, che ha preso spunto da un suo bisogno
interiore “prima confuso poi via via più lucido”:
“Il mio gusto voleva
confusamente un'espressione essenziale di fatti essenziali” mentre
“andava intanto prendendo in me consistenza una mia idea di
poesia‒racconto”.
Dopo molti tentativi alla
ricerca di questo suo linguaggio specifico, finalmente riesce a
trovare soddisfazione: “La prima realizzazione notevole di queste
velleità è appunto la prima poesia della raccolta: I mari del Sud”.
E spiega anche in che modo e con quali apporti sia passato “da un
lirismo tra di sfogo e di scavo” “al pacato e chiaro racconto de
I mari del Sud”. Il riferimento è “agli studi e alle traduzioni
dal nord-americano”, ai contatti con il dialetto e con la
composizione di ballate e canzoni per il soddisfacimento di un
pubblico, sul quale aspetto aggiunge: “ragione pratica, questa di
un pubblico, che mi pare da supporsi quasi concime alla radice di
ogni vigorosa vegetazione artistica”.
Più avanti,
particolarmente bella è la considerazione sul come “ravvivare”
continuamente una lingua: “considerare ogni specie di lingua
letteraria come un corpo cristallizzato e morto, in cui soltanto a
colpi di trasposizioni e d'innesti dall’uso parlato, tecnico e
dialettale si può nuovamente far correre il sangue e vivere la
vita”.
Insomma, in un modo o
nell’altro, Pavese riesce con la prima poesia della raccolta, I
mari del sud, a raggiungere un risultato soddisfacente: “mi ero
altresì creato un verso”. Lontano sia dal verso libero, per il
quale “mi mancava il fiato e il temperamento per servirmene”, e
dai metri tradizionali, “nei quali non avevo fiducia”. “Così,
senza saperlo, avevo trovato il mio verso”, “e questo considero
il ritmo del mio fantasticare”.
Procede nel racconto
lucidissimo della sua ricerca, che passa da una variabile all’altra.
E’ riuscito a trovare “un proprio verso per il proprio narrare”,
ma “narrare come?”. Riesce a farsi guidare dall’oggetto (di
ogni singola poesia), ma poi scopre che l’oggetto stesso diventa
troppo importante per essere “ridotto in fantasia”. Scopre allora
l’immagine: nel “Paesaggio di alta collina” c’è l’eremita
“colore delle felci bruciate”. Si accorge che questo gli accade
dopo una “commozione pittorica” dovuta al fatto che poco prima
“avevo veduto e invidiato certi nuovi quadretti dell'amico pittore,
stupefacenti per evidenza di colore e sapienza di costruzione”.
Poi dall’immagine al
rapporto fantastico, e così via. Ma non si può riassumere più di
tanto “Il mestiere di poeta”, e sarebbe un peccato insistere: il
saggio è da leggere parola per parola per la sua ricchezza e
profondità. Certo, non è una di quelle letture che si addicono ai
“lettori veloci”, quelli che in una notte leggono un libro e poi
– per loro ammissione – dimenticano tutto. E’ una di
quelle letture in cui “le parole vanno fatte parlare”, e non
sempre riescono con facilità ad esprimere tutto il potenziale della
loro profondità.
Riprendiamo il filo del nostro ragionamento, nel quale ci eravamo
posti il problema di avvicinarci alla poesia chiedendoci: “cosa
è?”. Carmelo Bene, il grande attore di teatro scomparso ormai da
tempo, dà questa definizione: “Poesia è risonar del dire oltre il
concetto”.
Anche da queste parole
capiamo che c’è qualche altra cosa “oltre il concetto”, e che
quindi quella “traduzione in prosa” di cui parlavamo all’inizio
sicuramente non basta perché al massimo fa capire cosa il poeta vuol
dire, cioè “il concetto”. Oltre a fortuna di aver trovato un
contesto che ha facilitato loro il compito), però sarebbe bello che
questa consuetudine potesse estendersi a tante persone, a tutti
coloro che forse la vorrebbero se solo ne intuissero la bellezza.
Considerazione da fare quando
ammettiamo di dover andare “oltre il concetto”: se ci fosse solo
“il concetto” potremmo dire di impegnare solo la “capacità
razionale”, cioè il lato sinistro del nostro cervello, ma Pavese
parla di “mistero, commossa perplessità, irrazionale”. Dobbiamo
allora ammettere che con la poesia non dobbiamo soltanto “capire”
ma dobbiamo “emozionarci”. Quindi, che è impegnata un’altra
parte di noi oltre a quella razionale. E’ impegnata – se così
possiamo dire – la parte di noi che ci porta a provare emozione.
A noi tutti (o almeno
alla maggior parte di noi) capita più spesso di emozionarci con la
musica, semplicemente ascoltando canzoni che ci sono particolarmente
care o con la “musica colta” per chi ne ha consuetudine.
Mettendo insieme le due
considerazioni appena riportate – che con la poesia dobbiamo
puntare ad agire anche sul nostro “tasto emozione”, e che con la
musica capita più frequentemente di emozionarci ( e quindi di
“toccare” consapevolmente o no quel tasto) – la domanda sorge
spontanea: perché non utilizzare della musica (opportunamente scelta
con un po’ di studio e sperimentazione) per creare un alveo, un
contesto, che faciliti la fruizione e l’interpretazione del testo
poetico verso l’obiettivo della percezione soprattutto emotiva?
Se l’accostamento
poesia-musica e il loro intreccio rientra in questa curiosità
generale, c’è almeno un caso particolare di due nostri artisti –
dei due ambiti, poetico e musicale – che esprimono fra i loro
ritmi una sicura sintonia. Parliamo di Cesare Pavese e Luigi Tenco,
distanti trent’anni esatti come anno di nascita, ma incredibilmente
vicini per luogo di nascita, sensibilità e modo di vedere e sentire
il mondo.
Sono entrambi legati in
modo indissolubile alla terra d’origine. “Queste dure colline che
han fatto il mio corpo e lo scuotono a tanti ricordi,…”, dice
Pavese in “Lavorare stanca”; e Tenco: “La solita strada, bianca
come il sale, il grano da crescere, i campi da arare,….”. Di
Tenco sappiamo, peraltro, l’amore per le opere di Pavese: “era un
fanatico di Pavese. Abbiamo litigato un sacco di volte su Pavese, io
e lui”, dice Gino Paoli parlando di Luigi.
Sulla “sintonia” fra
Cesare Pavese e Luigi Tenco si è parlato addirittura all’Università.
“Il corso si propone di analizzare le problematiche esistenziali,
psicologiche e sociali nella produzione artistica dello scrittore
Pavese e del cantautore Luigi Tenco, entrambi anticipatori della
modernità, nella denuncia disincantata del perbenismo ipocrita,
della crisi dei valori morali e delle ideologie”: è la descrizione
del Corso della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università
degli Studi di Genova, tenuto dalla Professoressa Graziella
Corsinovi.
Ma anche qui, non si
tratta di “solo razionale”, ma c’è sotto il ritmo poetico
dell’uno e il ritmo musicale dell’altro, una sintonia complessiva
che va soltanto “agita, sperimentata” (e non tanto “spiegata”)
attraverso un’alternanza fra brani dell’uno e canzoni dell’altro.
Quindi fra brani o poesie di Cesare Pavese e canzoni di Luigi Tenco.
E’ per questo che abbiamo lavorato con l’Associazione Musicarte di Lodi alla progettazione di uno spettacolo, che alterna appunto brani di Pavese e canzoni di Tenco, con una sola eccezione, cioè una canzone che non è di Tenco. Dopo una presentazione del contesto da cui i due artisti provengono - soprattutto con immagini di Santo Stefano Belbo e Ricaldone - lo spettacolo si apre con una canzone scritta intorno agli anni ’60 da Mario Pogliotti e Anton Giulio Perugini, su testo di Cesare Pavese. Mario Pogliotti, scomparso nel 2006, è stato il primo capo-redattore RAI della Valle d’Aosta. Persona di grande cultura e anche musicista, amico fraterno di Piero Angela, ha fatto parte del gruppo dei Cantacronache di Torino, gruppo senza il quale Umberto Eco dice che non ci sarebbero stati i nostri grandi cantautori impegnati. Questa canzone – “Ricordo di Cesare Pavese” (o anche “Un paese vuol dire”) è una perla assoluta e adattissima ai nostri fini. Perché l’alchimia musica-parole che Pogliotti ha creato ci rende un effetto struggente, che pensiamo possa creare l’ascolto più adatto al Pavese-Tenco che ci accingiamo a proporre:
Ricordo di Cesare Pavese
(Un paese vuol dire)
Un paese vuol dire non
essere soli
Avere gli amici, del vino, un caffè.
Io vengo dalla città
Conoscevo le strade
Dalle buche rimaste
Dalle case sparite
Dalle cose sepolte
Che appartengono a me.
Al di la delle gialle colline c'è il mare
Un mare di stoppie, non cessano mai.
Il mare non voglio più
Ne ho visto abbastanza
Preferisco una tampa
E bere il silenzio
Quel grande silenzio
Che è la vostra virtù.
E in silenzio girare per quelle colline
Le rocce deserte, la sterilità
Lavoro non serve più
Non serve sfiancarsi
E le mani tenerle
Dietro la schiena
E non fare più niente
Pensando al futuro.
La sola freschezza è rimasta il respiro
La grande fatica è arrivare quassù
Ci venni una volta quassù
E quassù son rimasta
A rifarmi le forze
A trovarmi compagni
A cercarmi una terra
A trovarmi un paese
Un paese vuol dire non essere soli...
Avere gli amici, del vino, un caffè.
Io vengo dalla città
Conoscevo le strade
Dalle buche rimaste
Dalle case sparite
Dalle cose sepolte
Che appartengono a me.
Al di la delle gialle colline c'è il mare
Un mare di stoppie, non cessano mai.
Il mare non voglio più
Ne ho visto abbastanza
Preferisco una tampa
E bere il silenzio
Quel grande silenzio
Che è la vostra virtù.
E in silenzio girare per quelle colline
Le rocce deserte, la sterilità
Lavoro non serve più
Non serve sfiancarsi
E le mani tenerle
Dietro la schiena
E non fare più niente
Pensando al futuro.
La sola freschezza è rimasta il respiro
La grande fatica è arrivare quassù
Ci venni una volta quassù
E quassù son rimasta
A rifarmi le forze
A trovarmi compagni
A cercarmi una terra
A trovarmi un paese
Un paese vuol dire non essere soli...
Lo spettacolo si sviluppa
con questa alternanza:
Cesare Pavese
|
Luigi Tenco
|
C’è una ragione
da La luna e i falò
|
Un paese vuol dire
(di Pogliotti – Perugini)
|
Fumatori di carta
da Lavorare stanca
|
Danza occitana (strumentale)
|
Incontro
da Lavorare stanca
|
Ho capito che ti amo
|
In the morning you
alwais come back
da Verrà la morte e avrà I tuoi occhi
|
Mi sono innamorato di te
|
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
|
Io sì
|
Paesaggio VI
da Lavorare stanca
|
Vedrai, vedrai
|
I morti sconosciuti
da La casa in collina
|
Io vorrei essere là
|
Io non credo che possa
finire
da La casa in collina
|
Un giorno dopo l’altro
(strumentale)
Lontano lontano
|
Last blues, to be read
some day
da Verrà la morte e avrà I tuoi occhi
|
Ciao amore, ciao
|
Riprendiamo Pavese con la
frase già citata poco fa, a proposito del pubblico che può
condizionare in modo forte: “ragione pratica, questa di un
pubblico, che mi pare da supporsi quasi concime alla radice di ogni
vigorosa vegetazione artistica”. Nel nostro caso, ben più
modestamente, non abbiamo una vera e propria “vegetazione
artistica”; pur tuttavia anche per noi quello del gradimento del
pubblico sarà il concime per la fragile pianticella del nostro
omaggio a Cesare Pavese e Luigi Tenco. Più ancora, per il progetto
ben più ambizioso di cercare legami e sinergie fra i ritmi poetici e
musicali.
Pezzo ripreso da http://cedocsv.blogspot.it/2016/07/cesare-pavese-luigi-tenco-last-blues.html
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