13 luglio 2016

IL DOPPIO SGUARDO DI SOPHIA


Dal sito  https://www.nazioneindiana.com riprendo questo bel pezzo:

 Il doppio sguardo di Sophia
di Susanna Mati
Divagazione politico-filosofica a margine del volume: Carla Stroppa, Il doppio sguardo di Sophia, Moretti & Vitali, Bergamo 2016, pagg. 262, €20,00.

Da quando il femminile ha preso la parola, ed è cioè diventato capace di tenere il discorso (prerogativa riservata per millenni quasi esclusivamente al maschile), si sta recuperando con impensabile velocità il tempo perduto. Esiste attualmente in tutti i campi una grande ricchezza di contributi autointerpretativi da parte delle donne, tanto che oggi è piuttosto il maschile ad essere ormai ammutolito, e a rivelarsi nei suoi caratteri di estrema fragilità e, assai spesso, come le cronache testimoniano, di arretratezza – che sono poi la fragilità e l’arretratezza non tanto di singoli individui, ma di un intero sistema culturale di valori giunto al tramonto, con lo sconcerto e lo smarrimento che questa perdita degli orientamenti tradizionali comporta. La morte di Dio e del Padre genera poche volte nostalgia, talvolta violenza, più spesso lamento, incertezza e paura del nuovo.
Il maschile ha ormai poche parole, è oggi connotato da una povertà di discorso, perfino da uno sbandamento tangibile, e per lo più tenta ancora debolmente di identificarsi con i residui di quel discorso che il pensiero femminista ha definito patriarcale. Al contrario, il femminile ha avuto modo di rivelare sempre di più la sua natura generatrice, creativa, anche nel regno – finalmente – della parola e del pensiero; e se le prime scrittrici vere e proprie, consapevoli di questo ruolo, risalgono all’Ottocento, e le prime filosofe vere e proprie al Novecento, l’essenza affabulante e mitologica del femminile – che ovviamente è sempre esistita – è giunta finalmente in luogo pubblico. Anticamente, Diotima poteva sì parlare, ma in quanto donna, straniera, sacerdotessa (dunque invasata dal dio), poteva parlare proprio perché era esclusa dalla polis. Platone, nella cui città ideale anche una donna sarebbe potuta diventare filosofo-re (anzi, filosofa-regina), aveva avuto eccezionalmente il coraggio di darle la parola, per esporre il più eversivo dei discorsi, quello su eros. Potremmo ricordare pochi esempi di questo tipo – fino ad oggi.
Tuttavia: il discorso femminista – che prendiamo qui genericamente, nel suo complesso, senza distinzioni che pur sarebbero opportune -, che così tanto ha dato negli ultimi decenni, riuscendo a modificare – mai ancora abbastanza – la società, può forse esaurire l”essenza’ del femminile, la sua immagine, la sua totalità? Ed esiste poi davvero questa ‘essenza’, al di là delle proiezioni che il maschile ha elaborato per secoli? Lasciamo stare le proiezioni, e poniamo che questa caratteristica peculiare, in qualche modo, esista, seppure in modo complesso, metaforico e anche ambiguo e contraddittorio (è per questo che la parola essenza è tra virgolette, essendo intesa in un significato antimetafisico del tutto improprio); e che riguardi in realtà, come cercheremo di dire più avanti, il futuro di entrambi i generi. Oggi la donna pare avervi la chance di un accesso privilegiato.
È appunto su questo terreno che, con una posizione di grande originalità, si pone il libro di Carla Stroppa – scommettendo temerariamente su un aldilà possibile rispetto al discorso esclusivamente sociologico e politico sul femminile. Un aldilà, naturalmente, anche rispetto al ‘semplice’ discorso biologico e perfino al discorso di genere. Una tensione verso l’alto percorre questo libro, come se Carla Stroppa ci dicesse: sì, va bene, nessuna di noi vuole tornare indietro, ma… ma, rispetto al piano delle rivendicazioni, c’è anche qualcos’altro, un elemento ulteriore, meno caratterizzabile, meno afferrabile, anche meno discorribile e categorizzabile, e tuttavia necessario a connotare la grande varietà e contraddittorietà del femminile, nonché le sue più intime risorse. C’è un in più, più sfuggente, più sottile, più profondo, che connota la donna – il femminile – come tale. Una specie di essenza, appunto, una caratteristica ineludibile, preziosa.
Il pensiero analitico junghiano, in questo caso, viene in aiuto nel tentativo di guardare una totalità – quella del femminile – nella sua interezza, senza nascondersi le sue ombre, con un “doppio sguardo” che ha origine nella complessità contraddittoria dell’inconscio. Lo scopritore dell’inconscio, Freud, si era arrestato davanti al presunto ‘mistero’ del femminile (che poi, magari, non era affatto tale: ma sconosciuto ed enigmatico rimaneva a questo sguardo maschile), facendo al massimo della donna un maschio manchevole, con peculiarità esclusivamente deficitarie – e ‘misteriose’, appunto. Ma nella mitologia archetipica esisteva invece da sempre una certa parità di genere, per così dire; le grandi dèe mediterranee, vicino-orientali, le “signore del labirinto”, stanno all’origine della nostra cultura. Prima di Dioniso, il più grande dio dell’Occidente, a Creta c’era già Arianna. E solo attraverso il loro temperato dualismo, talora convergente in uno, talora divergente, e la loro armonica differenza, la loro diversa eguaglianza, l’intero panorama dell’umano può trasparire e trasfigurarsi nello specchio ampio del divino. (Premesso che questo percorso è appunto un labirinto, un percorso mai in pace, forse mai concluso).
Continuando a parlare per immagini mitologiche, c’è una Sophia che è dentro entrambi i generi, insieme per unirli, dividerli e trascenderli. Possiamo dare un nome a questo elemento comune e ulteriore? Forse il suo nome – come l’antica sapienza filosofica occidentale ci avrebbe detto – è anima. L’autrice nota giustamente la significativa circostanza di come “l’accezione simbolica di anima sia da sempre ascrivibile alla fenomenologia femminile, e supponiamo che questo non sia un caso” (p. 11). No, non è un caso, perché appunto pare che il femminile sia portatrice, specialmente oggi, della possibilità di un diverso ordine del discorso, di una vera e propria rivoluzione. Ma da dove partirebbe questa rivoluzione?
Ridiscendiamo sulla terra, tenendo in mente questa immagine dell’anima: il femminismo, sempre benemerito, cerca di superare le debolezze storicamente patite, “ma troppo spesso”, scrive Carla Stroppa, “eludendo il confronto con il proprio mondo interiore e con i propri limiti” (p. 17); da ciò deriva il pericolo di “un’idea troppo sommaria dell’emancipazione femminile” (p. 34), se essa viene limitata a rivendicazioni sociali e politiche, in cui questo mondo interiore, in effetti, non trova alcuno spazio, alcuna voce. Per questo motivo, sostiene ancora l’autrice, rischiamo “di raggiungere la parità di opportunità nell’alienazione, nella scissione tra pensiero e corpo emozionale” (p. 59). Il pericolo, evidentemente, esiste. Questa ricerca di parità non deve essere basata “unicamente sulla dimensione sociale e orizzontale, ma su un sentimento di valorizzazione dell’umana dignità che si inoltra nel profondo e si protende verso la trascendenza” (p. 63), creando dunque un ordine, un cosmo davvero alternativo; altrimenti “la donna, a forza di prendere distanza dalle proiezioni d’anima che l’uomo fa su di lei e cercando di definire sempre meglio l’ambito del proprio Io, rischia di prendere le distanze anche dall’anima transpersonale, col risultato paradossale di assomigliare sempre di meno all’immaginario dell’anima che l’uomo proietta su di lei, questo sì, ma sempre di più all’Io evidente, mondano, arrampicatore dell’uomo” (p. 66).
Non importa essere addentro ai termini della psicologia junghiana per comprendere il nucleo di questo discorso: per non rimanere schiacciate (e schiacciati) sul modello maschile di potere, con i suoi risvolti negativi (cos’hanno mai di femminile, nella loro azione, le potenti governanti che, fortunatamente, stanno affacciandosi sempre più nella politica mondiale?), questo modello bisogna superarlo in altezza, in verticalità, e non certo pretendere di parificarsi ad esso. Perciò “la mia riflessione sull’anima”, scrive l’autrice, “oltrepassa quella relativa al genere sessuale” (ivi). Questa riflessione è infatti egualmente valida anche per l’uomo: sia l’uomo che la donna devono superare il modello maschile di potere, così decaduto e deprivato di anima.
Anima che è la più efficace immagine occidentale di memoria, desiderio, cultura, ricerca di significato. Rispetto all’adeguamento all’ordine del discorso ormai in sfacelo, e alla parificazione ad esso, il pensiero dell’anima può consentire l’accesso ad un totalmente altro, ad un novum.
Si sarà capito dove voglio arrivare: nel ricchissimo libro di Carla Stroppa si forniscono alcuni elementi inediti per rimettere tra l’altro in questione, con uno sguardo comprensivo e originale, nientemeno che i rapporti tra la politica e l’anima. Quello che è in fondo il problema platonico per eccellenza (come può darsi società giusta, quando è composta da anime ingiuste?) ritorna urgentemente alla nostra attenzione, declinato al femminile. Ma ritorna anche un altro punto fondamentale della riflessione platonica: cioè che, per cambiare la società e il mondo, e ancor prima noi stessi, dobbiamo ‘possedere’ un sapere, uno sguardo e una visione non orizzontali (per ripetere l’aggettivo usato dall’autrice), bensì che trascendano il mondo stesso – come avviene al filosofo della Repubblica platonica. Solo la “saggezza iniziatica” dell’anima (p. 67) – anch’essa, come la filosofia, assai più una ricerca che un possesso – ci dà questo potere alternativo, capace di futuro, per tutti i generi.
In questa direzione, tutta da percorrere e da scoprire, la psicoanalisi e la psicologia del profondo possono offrire un contributo importantissimo per una critica dell’appiattimento e dell’adeguamento ai vecchi modelli invalsi di potere – e per una reale fuga al di là di essi.

Articolo del 13 luglio 2016 tratto da  https://www.nazioneindiana.com/2016/07/13/doppio-sguardo-sophia/

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