18 luglio 2016

J. BOSCH : Una Mostra da non perdere

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Dal sito  http://www.leparoleelecose.it/?p=23825 riprendo questo bellissimo articolo:



La fantasia-movimento di Jheronimus Bosch. La mostra a Madrid


di Daniela Brogi
C’era una volta un albero, da cui furono ricavate le tavole destinate alla pittura di un trittico dedicato a Il cammino della vita. I due sportelli che si richiudevano sul corpo centrale rappresentavano un viandante, e i soggetti dipinti all’interno, sul lato sinistro, erano La nave dei folli, nel riquadro superiore, e L’allegoria dei piaceri in quello inferiore; la parte interna del pannello di destra raffigurava La morte dell’avaro. La scena al centro della composizione, invece, è andata perduta, intanto che i vari pezzi, smembrati e venduti separatamente, sono andati a finire nei luoghi più lontani – Rotterdam, Parigi, New Haven, Washington.
Per il 2016, anno delle celebrazioni del cinquecentenario della morte di Jheronimus Bosch questi pannelli, che come hanno confermato le perizie a raggi infrarossi  provengono dal legno di un medesimo albero, e appartenevano alla stessa composizione, sono tornati, momentaneamente, a vivere accanto, interpellando silenziosamente lo spazio bianco della tavola centrale che invece resta, finora, perduta. Il grafico ricostruito per un articolo molto bello di Mariella Guzzoni uscito qualche mese fa illustra perfettamente la situazione (le due tavole con il viandante sono state ritagliate in una forma ottogonale):
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Dopo essere stati esposti, nella scorsa primavera, nel luogo natale dell’artista – a ‘s-Hertogenbosch, nei Paesi Bassi, da cui, durante la sua esistenza (1453-1516), non si sarebbe mai allontanato – questi pannelli dedicati ad alcuni dei temi ricorrenti nell’opera di Bosch – la fugacità della vita, l’avarizia, la follia umana – sono appesi alle pareti del Museo del Prado, a Madrid, per una retrospettiva epocale che, oltre ai disegni, rimette insieme, facendole arrivare dalle parti più lontane del mondo,  una ventina di opere delle venticinque – tra tavole e pannelli – attribuite a Bosch. È una festa a cui, salvo pochissime eccezioni come il Giudizio Universale di Vienna, nessuno ha potuto mancare: sono arrivati tutti al Prado, per una riunione di famiglia a casa del Giardino delle Delizie (1490-1500) – il trittico più famoso, mai uscito da Madrid:
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“el Bosco” è il titolo dell’Esposizione che fino all’undici settembre – meglio acquistare i biglietti on line – darà mostra dell’opera di  Bosch come non era mai accaduto, nel paese che più di tutti e per primo ha amato la sua arte: in Spagna, dove da secoli, sin dai tempi degli Asburgo, sono conservati alcuni dei suoi lavori più importanti, e dove, all’Escorial, si trovava, fin dal 1574, la Tavola dei sette peccati capitali (1505-10), l’ultima cosa, pare, guardata da Filippo Secondo prima di morire (1598):
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Nella Mesa de los Pecados Capitales due cartigli, situati sopra e sotto il disco centrale, e che funzionano anche da intermezzo scenico tra i due cerchi disposti agli angoli superiori e inferiori, ci ammoniscono sulle conseguenze del peccato. La pergamena in alto, che separa il medaglione con La morte di un peccatore da quello con la scena del Giudizio Universale, dice: «Gens absque consilio est et sine prudentia / utinam saperent et intelligerent ac novissima providerent»: «È un popolo privo di giudizio e di senno; e se fossero saggi e si rendessero conto, si occuperebbero di ciò che li aspetta»; il cartiglio in basso, che separa il medaglione con la scena dell’Inferno da quella della Gloria nei cieli, recita: «Nascondam faciem meam ab eis considerabo novissima eorum» : «Io nasconderò il mio volto da loro e vedrò bene quale sarà la loro fine». Dentro al tondo centrale, diviso in sette sezioni raffiguranti i peccati capitali,  spicca, trionfando come figura di onnipresenza e onniscienza, in un anello che emette oro e luce, come una sacra pupilla, la figura di Cristo Risorto,  che si sporge sull’iscrizione «Cave Cave Deus Videt» : «Fai bene attenzione, che Dio ti vede». Se Dio è la pupilla, i sette peccati capitali (a partire dal basso, in senso orario: Ira, Invidia, Avarizia, Gola, Accidia, Lussuria, Superbia) diventano l’iride di questo Grande Occhio che in ogni momento guarda e comprende il mondo: come Dio, anche il peccato è ovunque; come un’iride, il peccato è, in un certo senso, la materia che colora la vita terrena.
La circostanza di guardare l’opera quasi completa di Bosch diventa allora, oltre che un’occasione estetica forse irripetibile, una situazione in cui rivedere – scorrendole in sequenza, o tornando a riguardarle – delle tavole e delle scene che continuamente fanno uso di un talento visionario che ancora oggi cattura e inquieta; questi quadri offrono un preziosismo dei dettagli prossimo al miniaturismo, per riuscire a raccontare e mostrare che il demonio è dappertutto. La vista, davanti a un quadro di Bosch, diventa quasi un’esperienza di reazione a uno stimolo tattile, per come le raffigurazioni della perdizione dell’anima sub specie animalis  sembrano toccarci e darci nell’occhio, nel mentre che rappresentano la condizione umana non tanto come figura, quanto piuttosto come habitat corporeo e simbolico del peccato. È per questo, forse, che uno dei soggetti più ricorrenti nell’opera di Bosch è quello della Tentazione di Sant’Antonio; è per questa speciale passione per le visioni del male, forse, che proprio nel quadro dedicato all’autore dell’Apocalisse (San Giovanni a Patmos), giusto sopra la firma, si trova quello che molti reputano un autoritratto:
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L’Ecce Homo (1500), l’Adorazione dei Magi (1494), Le tentazioni di Sant’Antonio (1500-1505) di Lisbona, la Santa Wilgefortis (1495-1505) – delle Gallerie dell’Accademia (a Venezia, la città, dopo Madrid, più ricca delle opere di Bosch); e ancora: Il carro di fieno (1512-15), il Giudizio Finale (1505-15), il Giardino delle Delizie (1490-1500): è molto importante, direi, ricordare che ciascuna di queste sette opere esposte – che diventano otto riunendo le tavole smembrate del Cammino della vita – è un trittico, vale a dire non solo un corpo pittorico formato da tre tavole dipinte sul recto e sul verso le quali, articolando una narrazione a cerniera, allestiscono una composizione allegorica. La descrizione non basta, infatti, a capire cosa può – cosa poteva – far vedere un trittico. Un trittico è, era, soprattutto, un’opera che nella maggior parte del tempo rimaneva nascosta, coperta dai due sportelli laterali chiusi su sé stessi, per essere aperta in circostanze speciali: l’arrivo di un ospite importante, una cerimonia, una ricorrenza. Qui sta il segretto: quello che mostra il trittico, dischiudendosi, non è sempre visibile, e non a tutti
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Questa circostanza originaria di accesso esclusivo a una scena occultata che improvvisamente e magicamente esce dall’invisibilità, e ci appare per offrirci delle scenografie mirabili; questa situazione doppiamente dinamica dello sguardo, che allude a una scoperta visiva di natura fisica, ancor prima che estetica, e che di fatto si è perduta, adesso che le opere sono esposte in maniera statica negli spazi moderni dei musei, va recuperata, almeno fittiziamente, proprio per capire che quello stato incolmabile di stupore, perfino di euforia, che trascina la nostra vista, spostandola continuamente, nell’ammirazione delle tavole di Bosch ci parla, non unicamente, ma almeno in parte, di un’estetica della sorpresa e dell’ammirazione voluta e prevista dall’opera. È il movimento di apertura e chiusura del trittico che genera e sprigiona il mondo fantastico rappresentato da Bosch.
La meraviglia è anche un artificio a parte obiecti, mirato a favorire, attraverso l’apertura spettacolare del trittico, il senso del contatto eccezionale con la sacralità e con l’importanza etica dei temi rappresentati. È qui, in questa appassionata ricerca del dettaglio strabiliante che pare abitare, almeno per molti aspetti, l’enigma della pittura di Bosch
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Eppure non è tutto, perché l’energia di quelle storie svolte secondo un immaginario così stravagante apre lo spazio dell’osservazione almeno ad altre due possibilità, mai compiute, di incontro con una fantasia così visionaria, anche così perturbante da quanto appare genialmente misteriosa:
Bosch8[Il Giardino delle delizie, dettaglio]
La prima possibilità riguarda l’opacità dei quadri di Bosch: più li guardiamo, più vediamo i particolari – un topo in un cilindro di vetro, due corpi intrappolati nel guscio di un’ostrica, una mora gigantesca –, più ci incantiamo, facendo assumere al nostro corpo delle pose scomposte per vedere, capire meglio, e più, di conseguenza, regrediremo a una condizione di credulità infantile, come davanti allo spettacolo di un astuto incantatore:
Bosch9[Seguace di Bosch: Il prestigiatore, 1496 circa]
Questo transfert illusionistico ha molto a che fare con la situazione per cui, nella visione di queste acrobazie della fantasia, assistiamo alla messa in scena di uno spazio visivo e mentale che è e deve rimanere lontano da noi, perché è abitato, per così dire, da un’altra cultura, da un’altra forma di memoria del mondo. Questo doppio tempo continuo di approssimazione e distanza suscitati dallo stupore attiva un’esperienza di alterità continua, nel tempo come nello spazio, che funziona da movimento vitale interno delle opere. Guardate l’opera qui sotto, arrivata da Kansas City, nell’angolo a sinistra, in basso, dove il diavolo divcnta uno strano uccello, forse con un’armatura, il muso da volpe e un fazzoletto a pois in testa:
Bosch10[La tentazione di Sant’Antonio Abate, 1505-10]
La fantasia con cui Bosch raffigura il diavolo e il peccato è una fantasia colorata, viva; in termini moderni verrebbe voglia di dire “ambigua” – un po’ come le fragole giganti del giardino delle delizie, che sono simbolo di lussuria ma anche di dolcezza. La corporeità bestiale a cui inchioda il peccato è sempre energica, perché sprigiona la mente, e fa volare lo sguardo: come quella pioggia di angeli ribelli trasformati in una meravigliosa schiera di insetti, nella parte superiore della tavola sinistra del Trittico del carro di fieno:
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Il gusto di esplorare, attraverso l’immaginazione, la tentazione del pensiero del male, combinandosi con la passione per la caducità del mondo, che come un carro di fieno è pronto da un momento all’altro a prender fuoco e sparire, produce una rappresentazione che ha come effetto finale un’attenzione appassionata alla vita, perché la spinta visionaria genera un’esperienza creativa che agisce come un combustibile permanente; e continuamente procura, nell’osservatore di cinquecento anni fa, come in quello di oggi, il sentimento di un incontro con una tensione figurativa onirica che non si consuma mai: nel senso che ancora ci incanta, come pure nel senso che certe invenzioni di forme e di immagini persistono e si riattivano anche nell’immaginario della contemporaneità. E così, un orso impiccato, nel paesaggio a sinistra, nel San Cristoforo, come la brocca che diventa una casa, a destra della medesima opera, non sono dettagli che saremmo così sorpresi di trovare in qualche quadro di Dalì:
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E, per spingersi a due esempi paradossali, non sarà difficile, a pensarci, mettere accanto gli animali di certi quadri di Bosch agli esseri che popolano la saga di Star Wars, come ha suggerito Niccolò Scaffai:
Bosch14[Star Wars, Episodio I (G. Lucas, 1977): Aldar Beedo]
Bosch15[J. Bosch, Trittico del giudizio di Vienna, dettaglio]
Né sarà da scartare l’eco della tavola dell’Estrazione della pietra della follia (1501-05) su una delle scene più memorabili – (episodio 5) – della seconda stagione della serie tv statunitenseThe Knick (2014-15), dove si raccontano le storie ambientate nel reparto di chirurgia del Knickerbocker Hospital, a New York, agli inizi del 1900:
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Le cose possono solo andare male, quando per operarsi dalla follia si va a casa dei pazzi: il detto popolare a cui sembra essersi ispirata la tavola di Bosch arriva da un’idea di mondo lontanissima, che d’altra parte la somiglianza tra le due immagini qui sopra riattiva, quasi dandoci l’impressione di chiamarci a dialogare, o quantomeno a continuare a sorprenderci.
Per come poteva vedere, pensare, inventare il mondo, un cervello vissuto tra il 1453 e il 1516 in una cittadina del Brabante, il “cammino della vita” rappresentato dalle tavole, i trittici, i disegni di Bosch, è una forma di “Ars Moriendi”, vale a dire consiste, come insegna il Vangelo, nel cammino verso la fine. Tant’è vero che il tema del viandante, di cui si parlava all’inizio a proposito del trittico smantellato e parzialmente ricomposto, torna ad esser visibile, ad esempio, anche sugli sportelli che chiudono il Trittico del Carro di fieno:
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La morte, secondo queste coordinate, non è solo il limite più lontano del cammino, ma la sua forza più interna e vitale. Vivere significa stare dentro questo movimento, nella contraddizione continua tra le forze mortali della vita e le forze vitali della morte: non è uno scioglilingua, bensì, per molti aspetti, un modo, incompiuto, di provare a dire l’umanità che comunicano i quadri di Bosch, per la spettacolare capacità di tenere uniti termini che a una mente moderna possono sembrare separati e opposti, ma che qui invece sono l’uno il rovescio dell’altro: come nel pannello del Cammino al Calvario (1505-10/16), che faceva parte di un trittico ormai perduto a cui hanno lavorato anche altre mani. Sul lato anteriore della tavola c’è Cristo, che sale verso la sua fine; nel lato posteriore, perfettamente nel punto corrispondente a quello in cui, dalla parte opposta, si trova Gesù mentre porta la croce, c’è Gesù bambino. È una figura modernissima, raffigurata nel gioco, con un girello e con una specie di bandierina: la morte è in rapporto con la vita come la sofferenza con il gioco, come la fantasia con il peccato. L’infinito sta in quel punto di corrispondenza.

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