Al tempo della prima
Guerra del Golfo (1990) “il manifesto” diffuse alcune schede intitolate Le lezioni del Golfo.
In ognuna di esse, a firma di un intellettuale di prestigio,
compariva la rubrica “Parole chiave”. Nella scheda N.8 Franco
Fortini scrive di “Conflitto” e lo fa con la sua capacità di
provocazione, spiegando come ci sono certe “paci”, che somigliano
alla morte.
CONFLITTO
di Franco Fortini
«Conflitto» sembra
essere, come «guerra», il contrario di «pace». Qualcosa di
sgradevole e penoso e pericoloso. Conflitto è tra opposti o
contrari, urto tra volontà e bisogni.
Ci dicono che l’immagine
di «pace» sorge dall’appagamento dei bisogni infantili, da tutto
quel che riconduce allo stato fetale o a quello dell’allattamento
(sicurezza, calore, indifferenza a quanto è estraneo) mentre
l’immagine di «conflitto» è connessa a quella di separazione,
mancanza, ricerca, sfida, prova, rischio, sofferenza, crescita,
avventura. Non troppo paradossalmente, la pace contiene in sé la
tentazione della morte mentre il conflitto implica l’eros, la brama
e il desiderio.
Per molte sapienze il
conflitto è proprio dell’apparenza, della tremenda scena
«teatrale» della realtà mentre solo vera è la pace del Non
Essere, il ritorno o il raggiungimento del Nulla. Il conflitto è
vissuto allora come male o come necessità transitoria. Le religioni
monoteistiche affidano alle funzioni di comando, civili o religiose,
la difesa della pace. Sulla forza repressiva si fonda la legge, entro
la legge si dovrebbero risolvere i conflitti, chi infrange la legge è
nemico della pace pubblica.
Ma accanto e contro
l’esperienza di due condizioni simmetriche e antagoniste sta quella
della loro inseparabilità. Senza conflitto non si dà il fondamento
medesimo della esistenza che dura, il lavoro. Senza la «prestazione»
e quel che essa implica (ostacolo, resistenza, usura, sofferenza,
consumo) non si dà «piacere». Senza conflitto non si dà riposo o
«pace».
Le guerre sembrano tutte
eguali soltanto per chi ne guarda le cause immediate e tecniche. E
invece sono diverse come la storia delle società e delle parti in
conflitto. Chiamare battaglie quelle dei greci, che non duravano (per
estenuazione dei combattenti) più di mezz’ora e quelle delle
guerre moderne che durano ininterrotte per mesi è un inganno di
linguaggio. E così coloro che vogliono demolire o assopire ogni
spirito di protesta e di opposizione alle cose-come-stanno vi
predicano che ogni contrasto è conflitto, ogni conflitto violenza,
ogni affermazione di principio è «antidemocratica», e Viva le
tavole rotonde e simili imbrogli.
Presso i cinesi,
sorridere all’avversario può manifestare un'ostilità grandissima.
Il cerimoniale del duello, fino a meno di cent’anni fa, era una
forma culturale di espressione di un conflitto tra individui.
L’ironia può essere, come si dice, sanguinosa come una stilettata.
La violenza non è negli strumenti impiegati per usarla. E certo le
buone maniere sono preferibili, quasi sempre, alle cattive. Quasi
sempre: dare della canaglia, ad esempio, è, in date circostanze, una
forma di conflittualità «esemplare» ed «educativa» come non lo
sarebbero invece un ironico risolino o un rispettoso dissenso.
La storia umana è anche
storia di intolleranza e tolleranza, di conflitti e di loro
risoluzioni, di contese e di accordi da cui nascono altre contese e
altri accordi. Come nella musica o almeno in gran parte di essa. Sono
sempre esistiti i tentativi, di individui o di gruppi, di uscire
fuori della conflittualità verso la «pace» del nulla, della
non-azione, dell’annullamento del desiderio e del confronto; penso
al buddismo e alla tradizione mistica occidentale.
E anche le procedure
opposte, di chi porta alle estreme conseguenze lo scontro, offrendosi
vittima all’avversario: dagli assediati (Numanzia o Masada) che
scelgono il suicidio contro la resa, fino ai singoli che rifiutano la
vita se offerta in cambio della ritrattazione o del pentimento
(«questa mia è una verità di cui non si può dare testimonianza se
non morto», dice, avviato al rogo, un eretico fiorentino del
Quattrocento; e «lei sa, padre, che cosa significhi salvarsi
l’anima?» risponde Gramsci prigioniero al prete che gli propone di
inoltrare una istanza di grazia a Mussolini).
Ma non ogni conflitto è
«il» conflitto, come non ogni guerra è «la» guerra e non ogni
pace è «la» pace. V arespinto come un volgare imbroglione chi (e
non sono pochi) interpreta i moderni conflitti tra nazioni e potenze
come proiezione di conflitti tra «mentalità» o «culture» o
«religioni» o «civiltà» (e presto si arriva a parlare di lotta
del «bene» contro il «male» e simili rozze e purtroppo sempre
efficaci menzogne).
Costoro, nella migliore
delle ipotesi, dilatano a livello mondiale l’esistenza e la
rilevanza certo realissima dei conflitti inconsci degli individui e
fingono di non vedere che ogni cozzo di interessi e passioni
traspone, sì, anche quelli sedimentati o rimossi negli individui e
nei gruppi umani ma che nelle società moderne tanto le strategie del
piccolo negoziante quanto quelle delle grandi potenze assegnano
un’importanza sempre minore ai motivi e agli interessi non
formulabili in forma razionale.
Quando il generale
Schwarkopf ordina di sventrare diecimila iracheni non lo fa perché
da piccolo la mamma gli negava il seno o il padre lo minacciava di
busse; tanto più che egli è probabilmente un uomo di buon cuore,
pronto magari ad adottare un orfano di quegli iracheni e amante della
musica popolare dell’Arkansas o della lirica trovadorica o
dell’allevamento dei criceti. Lo fa perché non sarebbe a quel
posto ove non fosse stato selezionato ai suoi compiti da un sistema
complesso di cui fanno parte industriali, economisti, storici,
psicologi, sociologi, uomini politici, insomma, tutta una cultura.
Che poi quel complesso
sistema abbia bisogno anche di truccare le proprie motivazioni ora
evocando paure (e rassicurazioni) infantili («Il nemico è un orco
sanguinario e pazzo e ognuno può contribuire a distruggerlo
infilzando spilli in una sua effigie per poi tornare a mangiare il
tacchino e la torta di mele con mamma, moglie e figli nel Giorno del
Ringraziamento») ora fornendo argomenti solo apparentemente più
realistici («vogliamo il petrolio») ma altrettanto menzogneri o
parziali - tutto questo ci dimostra che «la pace» è una parola
vuota e consolatoria se non si definisce bene a quale conflitto, a
quale lotta o guerra si opponga. Si opponga, appunto. Negare un
conflitto equivale a istituirne un altro.
«La vita dell’uomo
sulla terra è un servizio militare», «Io sono venuto a portare la
spada»: Chi ha detto queste frasi è la medesima bocca che ha detto:
«Beati coloro che si adoperano per la pace». Credo non ci sia
nessuna contraddizione. La prima frase riconosce che la
conflittualità (tra «bene» e «male», fra «giusto» e
«ingiusto») e la sua sofferenza è costitutiva, come la sua gioia,
dell’essere umano e del suo fondamentale bisogno di conservazione e
riproduzione, ossia di «lavoro». La seconda ci avverte che il
latore di consapevolezza è anche latore di conflitti. La terza vuol
dire che i facitori di pace sono coloro che, accrescendo la cerchia
dei rapporti, dei temi e delle ragioni di non-conflitto, spostano la
frontiera degli inevitabili e fecondi conflitti, inducendo sempre più
ampie alleanze e sempre più precisamente definendo e chiamando per
nome i nemici, trasformandoli prima in avversari, poi in
collaboratori necessari e preziosi. Ogni individuo, ogni classe, ogni
società è «pacifica» all’interno della cerchia del proprio
«fuoco di bivacco» ma non può non avere sentinelle poste a difesa
della fraternità e della solidarietà, sempre minacciate da «dentro»
come da «fuori»; al limite il «nemico», come diceva Leopardi,
sarà identificato nella nostra condizione di esseri naturali, nella
«natura» che ci destina alla scomparsa individuale e, in
prospettiva, della specie.
Oggi e subito il
«nemico», quello contro cui è necessario non solo conflitto ma
guerra, è tutto quello che propone false mete, false coscienze,
false solidarietà, false paci; e che, per un esempio, nega di fatto,
a colpi di parole o di leggi o di capitali o di missili,
l’uguaglianza dei diritti - e la finale identità umana - fra i
privilegiati e i «dannati della terra».
Però, con un’aggiunta:
la lotta per quella uguaglianza non può non implicare conflitto
contro chi opprime e asservisce altrui. Nessuna peggiore ingiustizia
che fare le parti eguali tra diseguali, insegnava don Milani. Per
questo la lotta contro chi organizza il consumo di una spropositata
parte dei beni della terra a favore di una minoranza cosiddetta
«civilizzata» può non essere «giusta» ma è necessaria. Ancora
una volta il conflitto è un «male» per un «bene» e per un bene
non garantito. Così l’uomo mosse armato di bastone contro l’alce
o il bufalo, sapendo la sofferenza cui si esponeva o che infliggeva,
nella speranza di sopravvivere alla fame. Bisogna scegliere.
Le lezioni del Golfo,
n.8, supplemento a “il manifesto”, senza indicazione di data , ma
1990
Nessun commento:
Posta un commento