“Non essendo la folla impressionata che da sentimenti eccessivi, l'oratore che vuole sedurla deve abusare delle affermazioni violente. Esagerare, affermare, ripetere, e non mai tentare di nulla dimostrare con un ragionamento”. Scriveva così nel 1895 Gustave Le Bon nel suo capolavoro “Psicologia delle folle”, libro particolarmente amato da Benito Mussolini e da tutti i dittatori.
Francesco
Antonelli
Quell’ospite
inquietante
Alla svolta del
XIX secolo la società borghese, lo Sato liberale e la «democrazia
limitata» per censo entrarono in crisi irreversibile, sotto la
pressione della seconda rivoluzione industriale e l’avvento della
società di massa. Partendo da Tarde, Le Bon, Rossi, Sighele,
arrivando a Ortega y Gasset e Freud, quasi tutti i grandi
intellettuali e studiosi di scienze sociali dell’epoca
interpretarono la nuova fase come trionfo dell’irrazionalismo
politico e culturale che rompeva con l’ideale illuminista e
positivista dell’individuo razionale.
Un nuovo protagonista, un «ospite inquietante», blandito da capi demagogici e ambiziosi, occupava ora il centro della scena: la folla. Una folla che era sinonimo di «nuovi barbari». Soggetti non assimilabili nei vecchi schemi istituzionali che premevano alle porte della città e che, anzi, erano cresciuti al suo interno, mettendola definitivamente a soqquadro.
La barbarie: da destra e poi, soprattutto con la scuola di Francoforte, da sinistra, questa fu la diagnosi e la profezia realizzata dalle grandi tragedie della prima metà del Novecento, dalle due guerre mondiali alla crisi del Ventinove, ai regimi totalitari. Il mondo nato nel secondo dopoguerra fu ricostruito avendo sempre presente l’obiettivo di evitare il barbarismo. Un fine politico condiviso da democratici, progressisti e liberali in tutto il mondo occidentale e che diede vita al patto fordista e keynesiano. Il libro di Ilvo Diamanti e Marc Lazar Popolocrazia. La metamorfosi delle nostre democrazie (Laterza, pp. 176, euro 15) si muove tutto all’interno della consapevolezza che oggi quel «barbarismo» stia di nuovo mettendo radici nel nostro mondo. Che cos’è la «popolocrazia»?
Un neologismo che gioca
evidentemente con la radice greca del termine democrazia, a
sottolineare che la base del sistema non sarebbe più il «demos»
organizzato nelle forme e nelle istituzioni del pluralismo
democratico, bensì un «popolo» costruito e auto-costruito
attraverso retoriche, valori e stili di azione che, anche se gli
autori non lo dicono esplicitamente, ricordano molto le folle
irrazionali, anti-liberali e manichee dell’inizio del Novecento.
Gli attori politici che danno corpo e rappresentanza a tutto questo
sono i famigerati «populisti» alla cui analisi – o meglio
all’analisi dei casi italiano e francese – è dedicata la gran
parte del libro.
Se lo studio di di
Diamanti e Lazar si fermasse qui non sarebbe certo molto originale.
Anche perché i presupposti espliciti e impliciti dell’analisi
riproducono spesso quella idealizzazione intellettualistica di un
mitico «demos» razionale e disciplinato (in altrettanto mitici
partiti e sindacati) dei tempi passati che, forse, non è mai
esistito. Il merito, l’originalità e il grande interesse di
Popolocrazia sta invece nella sintesi.
In primo luogo, il nuovo sistema politico nascerebbe dalla confluenza di cambiamenti strutturali, di lungo periodo e da fattori «precipitanti», più contingenti. I primi fanno riferimento all’ascesa di una società nella quale sono declinate (forse irreversibilmente) tutte le forme di intermediazione sociale e politica: il crollo dei corpi intermedi, dai partiti ai sindacati all’associazionismo.
Ai quali si aggiunge l’ascesa dei media digitali che rendono possibile comunicare direttamente le proprie opinioni, atteggiamenti, istanze. Questa società «im-mediata» si basa sulla solitudine del cittadino globale, sulla diffusa sensazione di essere marginali e irrilevanti rispetto ai processi decisionali (la periferia come categoria esistenziale e non solo come luogo fisico) e sulla personalizzazione delle relazioni politiche e sociali.
In una espressione su quel «declino dell’uomo pubblico» già ampiamente analizzata da Richard Sennett nell’omonimo libro del 1974. Ciò che avrebbe fatto definitivamente precipitare la situazione, introducendo mutamenti radicali nel funzionamento della democrazia, sarebbe la crisi economica e finanziaria del 2007. Questa avrebbe diffuso marginalità, sfiducia sistemica, delegittimazione delle classi politiche, nuove fratture politico-sociali in particolare tra «centri» (ormai identificati non solo con lo Stato-nazione ma anche con l’Unione europea) e «periferie» nuove e vecchie, simboliche e fisiche. L’ipotesi più interessante e contro-intuitiva è che tutto questo non avrebbe generato un rigetto della democrazia (ideale) a favore di un neo-autoritarismo; al contrario, avrebbe rafforzato il valore di una democrazia ideale e diretta, im-mediata, magari promossa e tutelata da un leader al di là delle istituzioni consolidate.
Ne deriverebbe che il conflitto sociale attivato dalla crisi e dai cambiamenti strutturali delle società occidentali non si esprimerebbe più nel sociale, nei movimenti o tramite i corpi intermedi ma direttamente nella politica e nelle sue forme elettorali. Nonostante tutto, l’unico vettore rimasto di espressione degli interessi e delle opinioni dei cittadini. L’interessante diagnosi di Diamanti e Lazar coglie dunque una contraddizione centrale del presente: da una parte le forme della rappresentanza con i suoi meccanismi di intermediazione sono fortemente criticati e avversati.
Dall’altra, è solo attraverso di esse che il conflitto ha trovato un’espressione. Senza tuttavia la possibilità certa che possa giungere anche ad una ricomposizione, soprattutto progressiva per la società. Ed è su questo crinale che si giocheranno in futuro i destini delle nostre società e della stessa sinistra.
il manifesto – 22
giugno 2018
Nessun commento:
Posta un commento