24 luglio 2018

LA PROFEZIA DI K. KRAUS


Un'epoca "grande", "grassa", "confusa" Così nel 1914 Karl Kraus descrisse la nascita della globalizzazione con un secolo di anticipo in un libro (In questa grande epoca) pubblicato ora da Marsilio. Ne riprendiamo una pagina.

Karl Kraus

Dio creò i consumi parola di Karl Kraus

In questa grande epoca che ho conosciuto quand'era ancora piccola; che tornerà piccola se ne avrà ancora il tempo; che noi, essendo tale metamorfosi impossibile nell'ambito della crescita organica, preferiamo chiamare un'epoca grassa, in realtà persino un po' pesante; in quest'epoca in cui accadono cose che nessuno aveva immaginato, in cui deve accadere quello che nessuno riesce neanche più a immaginare, e se qualcuno ci riuscisse, allora non accadrebbe; in quest'epoca seria, che è morta dal ridere di fronte alla possibilità di poterlo diventare sul serio; che, sorpresa dalla propria tragicità, tenta di trovare distrazioni, e quando si coglie sul fatto cerca le parole; in quest'epoca rumorosa, che rimbomba della spaventevole sinfonia di fatti che producono cronache e cronache che causano fatti: in quest'epoca non aspettatevi da me neppure una parola mia. Se non questa, che evita che il mio tacere sia travisato (...).

Io però sono veramente dell'idea che in quest'epoca — qualunque sia il nome e il valore che vogliamo attribuirle, che si tratti di un'epoca sconnessa o ormai stabilmente sistemata, che essa stia ancora accumulando assassinio e marciume davanti agli occhi di un Amleto o che sia già pronta per gli arti di un Fortebraccio — sono dell'idea che, date le condizioni di quest'epoca, la radice si trovi in superficie. Una cosa del genere può diventare chiara grazie a un grande caos, e ciò che un tempo era un paradosso, questa grande epoca ora ce lo conferma. Dato che non sono un politico, né il suo fratellastro, l'esteta, non mi viene in mente di negare la necessità di qualcosa che accade, o di lamentarmi che l'umanità non sappia morire nella bellezza. So bene che le cattedrali vengono a buon diritto bombardate dagli uomini, se gli uomini a buon diritto le usano come postazioni militari.

Non c'è nulla che possa offendere, dice Amleto. È soltanto che si spalanca la bocca dell'inferno non appena ci si pone la domanda: quando avrà inizio la più grande epoca della guerra — quella delle cattedrali contro gli uomini?! So perfettamente che a volte è necessario trasformare aree di mercato in campi di battaglia, affinché questi ultimi possano ridiventare aree di mercato. Ma un brutto giorno ci si vede più chiaro e ci si chiede se sia davvero giusto essere così determinati nel non mancare neppure di un passo il cammino che allontana da Dio; e se davvero l'eterno mistero da cui l'uomo proviene, e quello verso il quale l'uomo procede, racchiudano soltanto un segreto commerciale, che conferisce all'uomo superiorità sull'uomo e addirittura sul creatore dell'uomo. Chi vuole accrescere lo stato delle sue proprietà e chi vuole soltanto difenderlo — entrambi vivono in stato di proprietà, sempre a questo assoggettati e mai padroneggiandolo. Entrambi fanno dichiarazioni, il primo di guerra, l'altro dei redditi.

Dovremmo preoccuparci di ben altro che dello stato delle proprietà se abbiamo visto e sopportato sacrifici umani inauditi, e se in un pallido mattino, dietro al linguaggio dell'innalzamento spirituale, quando la musica inebriante si attenua, si fa strada, tra le schiere terrestri e celesti, la seguente professione di fede: «Ora, questo deve compiersi: che il commesso viaggiatore non smetta di drizzare le antenne e di sondare senza sosta la clientela!».
L'umanità è la clientela. Dietro le bandiere e le fiamme, dietro gli eroi e i soccorritori, dietro tutte le patrie è stato eretto un altare di fronte al quale la scienza devota si torce le mani: Dio creò il consumatore! Ma Dio non creò il consumatore perché fosse felice sulla Terra, bensì per uno scopo più alto: perché sulla Terra fosse felice il commerciante, dato che il consumatore è stato creato nudo e diventa un commerciante solo se vende vestiti. La necessità di mangiare per vivere non può essere filosoficamente confutata, sebbene espletare questa faccenda in pubblico testimoni un'incorreggibile mancanza di senso del pudore. La cultura è il tacito accordo di subordinare i viveri allo scopo di vita. La civilizzazione è l'asservimento dello scopo di vita ai viveri. A questo ideale serve il progresso e a questo ideale esso offre le sue armi. Il progresso vive per mangiare, e a volte dimostra addirittura di poter morire per mangiare. Sopporta ogni pena al fine di essere felice. Volge il pathos verso le premesse.

L'estrema affermazione del progresso ha decretato ormai da tempo che la domanda si regoli sull'offerta, che si mangi perché sia un altro a diventare sazio, e che il venditore ambulante interrompa persino i nostri pensieri offrendoci cose di cui non abbiamo alcun bisogno. Il progresso, sotto i cui piedi l'erba si mette a lutto e il bosco diventa carta da cui crescono fogli di giornale, ha subordinato la vita ai viveri, trasformando noi stessi nelle viti di ricambio dei nostri utensili. Il dente dell'epoca è cavo; poiché quando era sano giunse la mano che vive di otturazioni.

Là dove si è spesa ogni forza per togliere ogni asperità alla vita, non rimane nulla che ancora necessiti di essere protetto. In quei luoghi l'individualità può vivere, ma non può più nascere. Potrà forse, coi suoi desideri nevrotici, far comparsa come ospite in zone dove, nel comfort e nella prosperità, circolano avanti e indietro automi privi di volto e di saluto.


La Repubblica -18 giugno 2018

1 commento:

  1. Franca Alaimo: tragico, ma molto prossimo alla realtà odierna. Eppure io non cesserò mai di credere nell'uomo, nella solidarietà, nell'amore. Se rinunciamo a questo, rinunciamo alla vita.

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