Un'epoca
"grande", "grassa", "confusa" Così nel
1914 Karl Kraus descrisse la nascita della globalizzazione con un
secolo di anticipo in un libro (In questa grande epoca) pubblicato
ora da Marsilio. Ne riprendiamo una pagina.
Karl Kraus
Dio creò i consumi
parola di Karl Kraus
In questa grande epoca
che ho conosciuto quand'era ancora piccola; che tornerà piccola se
ne avrà ancora il tempo; che noi, essendo tale metamorfosi
impossibile nell'ambito della crescita organica, preferiamo chiamare
un'epoca grassa, in realtà persino un po' pesante; in quest'epoca in
cui accadono cose che nessuno aveva immaginato, in cui deve accadere
quello che nessuno riesce neanche più a immaginare, e se qualcuno ci
riuscisse, allora non accadrebbe; in quest'epoca seria, che è morta
dal ridere di fronte alla possibilità di poterlo diventare sul
serio; che, sorpresa dalla propria tragicità, tenta di trovare
distrazioni, e quando si coglie sul fatto cerca le parole; in
quest'epoca rumorosa, che rimbomba della spaventevole sinfonia di
fatti che producono cronache e cronache che causano fatti: in
quest'epoca non aspettatevi da me neppure una parola mia. Se non
questa, che evita che il mio tacere sia travisato (...).
Io però sono veramente
dell'idea che in quest'epoca — qualunque sia il nome e il valore
che vogliamo attribuirle, che si tratti di un'epoca sconnessa o ormai
stabilmente sistemata, che essa stia ancora accumulando assassinio e
marciume davanti agli occhi di un Amleto o che sia già pronta per
gli arti di un Fortebraccio — sono dell'idea che, date le
condizioni di quest'epoca, la radice si trovi in superficie. Una cosa
del genere può diventare chiara grazie a un grande caos, e ciò che
un tempo era un paradosso, questa grande epoca ora ce lo conferma.
Dato che non sono un politico, né il suo fratellastro, l'esteta, non
mi viene in mente di negare la necessità di qualcosa che accade, o
di lamentarmi che l'umanità non sappia morire nella bellezza. So
bene che le cattedrali vengono a buon diritto bombardate dagli
uomini, se gli uomini a buon diritto le usano come postazioni
militari.
Non c'è nulla che possa
offendere, dice Amleto. È soltanto che si spalanca la bocca
dell'inferno non appena ci si pone la domanda: quando avrà inizio la
più grande epoca della guerra — quella delle cattedrali contro gli
uomini?! So perfettamente che a volte è necessario trasformare aree
di mercato in campi di battaglia, affinché questi ultimi possano
ridiventare aree di mercato. Ma un brutto giorno ci si vede più
chiaro e ci si chiede se sia davvero giusto essere così determinati
nel non mancare neppure di un passo il cammino che allontana da Dio;
e se davvero l'eterno mistero da cui l'uomo proviene, e quello verso
il quale l'uomo procede, racchiudano soltanto un segreto commerciale,
che conferisce all'uomo superiorità sull'uomo e addirittura sul
creatore dell'uomo. Chi vuole accrescere lo stato delle sue proprietà
e chi vuole soltanto difenderlo — entrambi vivono in stato di
proprietà, sempre a questo assoggettati e mai padroneggiandolo.
Entrambi fanno dichiarazioni, il primo di guerra, l'altro dei
redditi.
Dovremmo preoccuparci di
ben altro che dello stato delle proprietà se abbiamo visto e
sopportato sacrifici umani inauditi, e se in un pallido mattino,
dietro al linguaggio dell'innalzamento spirituale, quando la musica
inebriante si attenua, si fa strada, tra le schiere terrestri e
celesti, la seguente professione di fede: «Ora, questo deve
compiersi: che il commesso viaggiatore non smetta di drizzare le
antenne e di sondare senza sosta la clientela!».
L'umanità è la
clientela. Dietro le bandiere e le fiamme, dietro gli eroi e i
soccorritori, dietro tutte le patrie è stato eretto un altare di
fronte al quale la scienza devota si torce le mani: Dio creò il
consumatore! Ma Dio non creò il consumatore perché fosse felice
sulla Terra, bensì per uno scopo più alto: perché sulla Terra
fosse felice il commerciante, dato che il consumatore è stato creato
nudo e diventa un commerciante solo se vende vestiti. La necessità
di mangiare per vivere non può essere filosoficamente confutata,
sebbene espletare questa faccenda in pubblico testimoni
un'incorreggibile mancanza di senso del pudore. La cultura è il
tacito accordo di subordinare i viveri allo scopo di vita. La
civilizzazione è l'asservimento dello scopo di vita ai viveri. A
questo ideale serve il progresso e a questo ideale esso offre le sue
armi. Il progresso vive per mangiare, e a volte dimostra addirittura
di poter morire per mangiare. Sopporta ogni pena al fine di essere
felice. Volge il pathos verso le premesse.
L'estrema affermazione
del progresso ha decretato ormai da tempo che la domanda si regoli
sull'offerta, che si mangi perché sia un altro a diventare sazio, e
che il venditore ambulante interrompa persino i nostri pensieri
offrendoci cose di cui non abbiamo alcun bisogno. Il progresso, sotto
i cui piedi l'erba si mette a lutto e il bosco diventa carta da cui
crescono fogli di giornale, ha subordinato la vita ai viveri,
trasformando noi stessi nelle viti di ricambio dei nostri utensili.
Il dente dell'epoca è cavo; poiché quando era sano giunse la mano
che vive di otturazioni.
Là dove si è spesa ogni
forza per togliere ogni asperità alla vita, non rimane nulla che
ancora necessiti di essere protetto. In quei luoghi l'individualità
può vivere, ma non può più nascere. Potrà forse, coi suoi
desideri nevrotici, far comparsa come ospite in zone dove, nel
comfort e nella prosperità, circolano avanti e indietro automi privi
di volto e di saluto.
La Repubblica -18 giugno
2018
Franca Alaimo: tragico, ma molto prossimo alla realtà odierna. Eppure io non cesserò mai di credere nell'uomo, nella solidarietà, nell'amore. Se rinunciamo a questo, rinunciamo alla vita.
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