10 luglio 2018

G. VASTA RICORDA LUCA RASTELLO



Ricordando Luca Rastello: Lettera alle pulci

di Giorgio Vasta

Quando ci si trovava in compagnia di Luca Rastello, a un certo punto arrivava il momento del «racconto islandese»: un episodio collocato in un tempo più mitico che storico, una narrazione – seria nei toni, bugiarda nella drammaturgia, dunque dichiaratamente letteraria – in cui Rastello evocava un rocambolesco incidente stradale lungo la Ring Road, qualcosa che gli era davvero accaduto, una storia in cui troll e folletti erano a tutti gli effetti personaggi reali.
Ascoltandolo ci si veniva a trovare su un crinale sottile tra verità e finzione, tra chiarezza e oscurità, tra comicità folle e tragedia: vale a dire in quel luogo estremo, inaffidabile e rivelatore, dove è esistito ed esiste ancora il pensiero di Luca Rastello.
A tre anni dalla sua scomparsa – avvenuta il 6 luglio 2015 – Chiarelettere pubblica Dopodomani non ci sarà. Sull’esperienza delle cose ultime. Più che un romanzo incompiuto, il cantiere aperto di un libro – un progetto che fino al 5 luglio 2015 si chiama La luce e che quel giorno l’autore rinomina col titolo Dopodomani non ci sarà – in cui Rastello, ragionando con se stesso e procedendo per collaudi, segue un suo costante impulso topologico, il bisogno di comprendere sempre e nel profondo il contesto in cui si trova – in questo caso la malattia, l’ospedale, i fenomeni microscopici o abnormi della medicalizzazione, e in particolare gli impliciti egli automatismi –, e insieme si confronta non tanto con ciò che è ultimo bensì con il penultimo, e dunque l’imprevisto, il ritardo, la procrastinazione, Sheherazade, Amleto e Tristram Shandy intesi non solo come personaggi letterari ma come metodi: tutto quel senso del tempo – sempre strutturalmente provvisorio – che Rastello ha assorbito, metabolizzato e spietatamente restituito nei suoi libri.
A chiudere il volume, la Lettera alle pulci piccole in forma di testamento: le pagine in cui, congedandosi dalle figlie, Rastello rende chiaro che la scrittura, durando nel tempo, ha la capacità di dilatare ogni commiato facendo della mancanza una presenza.
«C’è un tratto quasi terminale della corsa – quando l’inizio è dimenticato e la fine è certa e verosimilmente prossima, ma non ancora arrivata – che viene rischiarato da una sorprendente lucidità, come da una luce più forte». Leggendo Dopodomani non ci sarà comprendiamo quale sia stato (e sia e sarà ancora) il privilegio di poter leggere il mondo attraverso la tensione dello sguardo di Luca Rastello: attraverso la sua «luce più forte».
_____________
Lettera alle pulci piccole in forma di testamento. Un estratto da Dopodomani non ci sarà.
di Luca Rastello
Torno su questa lettera a qualche tempo di distanza dalla prima stesura. Sarà un po’ meno vivace di quella versione, temo. Pura questione di forma. Non è aumentata la sofferenza e nemmeno la paura, che in fondo è alta da anni. Quindi non so spiegarmene del tutto le ragioni. Forse un soprassalto di pudore: diciamo che il tono allegretto che avevo scelto per la prima versione rispondeva a una necessità di pudore, ma a rilettura suona sopra le righe e inadatto. Quindi limitiamoci a dire.
Naturalmente, tenendo ben presente che ogni testamento, ultima lettera, frase postrema, volontà postuma, è un terreno di coltura per il kitsch: la piazzetta dove il moribondo si toglie l’ultima cazzimma, lancia un monito ridicolo, perdona a buon mercato (salvo, in caso di guarigione, revocare un perdono che a posteriori, alla lunga, appare un po’ troppo generoso).
Da quella piazzetta, poi del resto, nessuno passa mai più. Proviamo a evitare, allora, anche se c’è qualche parola che vorrei comunque lasciare soprattutto a Elena e Olga (ordine alfabetico: non litigate, please!). Inizio con un’avvertenza: non voglio che le mie figlie mi vedano ora, «cucito nella pelle di morto, orrenda e senz’occhi, che è ancora una parte della persona ed e già estranea; la sacca da viaggio della vita». Quindi se in questo momento state un po’ alla larga, pulci, avete tutta la mia benedizione, per quel che vale.
Spero di avervi infilato nel cuore almeno il seme della curiosità. Magari in forme diverse: per esempio potrebbe essere in forma di narrazione nel cuore di Elena e di vagabondaggio in quello di Olga. E vorrei che quel seme continuasse a germogliare, per tutto il tempo che avrete in terra (e oltre, ma chissà): proprio come ho visto che accadeva nella prima parte delle vostre vite. Fin troppo facile dire ora che non c’è tempo, che bisogna fare le cose che si vogliono fare e non rimandare, che tutto corre più in fretta di noi. Facile e inutile, dato che probabilmente è un messaggio che ogni genitore lascia al figlio, che il figlio archivia come è giusto e poi riscopre quando è il suo tempo, a valle di tanta vita che avrà sprecato, e quando l’urgenza sarà tutta e solo sua. Aggiungo però la certezza che – come mi dicesti tu Elena, una sera in pizzeria, riempiendomi di orgoglio – non è mai finita. Mai.
Non pensate mai di essere arrivate alla forma definitiva: c’è sempre almeno ancora una svolta imprevista, sempre. Se c’è un augurio che posso farvi, allora, è di non cadere mai nella trappola della rassegnazione e dell’accettazione: quasi sempre quella che si presenta come «la vita com’è», secondo un’espressione cara ai realisti (gente che in segreto ama la schiavitù), è una truffa. Si può uscire, scartare, fare ancora un giro, magari due, magari di più, e poi sorprendersi di come era facile e possibile quello che sembrava impedito dalla logica ferrea di un mondo che ci mettiamo addosso come una prigione ed è invece solo fantasia, malata fantasia che si spaccia per realtà.
Potrei dire con un’immagine che Olga capirà al volo, che c’è sempre (in ogni momento, anche quando sembra essere già arrivata la fine) una strada imprevista che parte dalla soglia e, in fondo alla strada, un qualche Vianino dove la gente vive in un modo magari non più perfetto della nostra cattività metropolitana, ma sicuramente diverso, diverso.
Il diverso esiste, anche nelle nostre vite, basta lasciarsi prendere, non rinchiudersi per paura di affrontare il mondo. Aveva ragione il filosofo che ci disse che il padrone è padrone perché ha messo in gioco la sua vita e il servo è servo perché non lo ha fatto (la dialettica poi rovescia e sorprende, ma da questo passo fondamentale, e solo da questo, inizia). La vostra curiosità sarà, perdonatemi la retorica, un modo per essere ancora un po’ vivo. E spero anche che vi scambiate la forma in cui oggi vedo svilupparsi in voi un patrimonio immenso e prezioso: anche a Elena entri nelle gambe, anche a Olga negli occhi. Olga anche tu hai detto una frase che mi porto via dove sto andando: «Non riusciranno a fare di me una persona triste e cattiva: c’è troppa allegria nel mio cuore». Secondo me è quella la strada da non tradire mai, ma per coltivarla bisogna metterla insieme al precetto di Elena: «Non è mai finita». Mai.
Insomma, la metterei cosi: quando vi trovate la strada fra i piedi, per ingarbugliata che sia, lasciatela districare (come si districano le pulci) e seguitela con fiducia.
Secondo me, meno volte direte «meglio di no», meglio sarà.
E curate il carisma del rispetto: l’arte di guardare, di saper vedere. Questa cosa l’avevo imparata da Monica, anche se a un certo punto questo fatto è suonato un po’ come una beffa (non da quaggiù, dove il tempo è simultaneo e non c’è successione, quindi niente concatenazioni, niente prima e dopo, niente smentite e niente delusioni. A questo punto, se avrete già letto Mattatoio 5 di Vonnegut, vi chiederete se sono finito a Tralfamador: secondo me un po’ sì…). Spero che vi troviate spesso un passo più in là di dove avreste pensato di arrivare e che ancora più spesso vi trovino gli altri un passo a lato rispetto a dove credevano di cogliervi.
Io avrei voluto frequentarvi più a lungo, invecchiare, seguirvi e annoiarvi, viziare i vostri figli, rimanervi fra i piedi, affidarvi di persona ai compagni che abiteranno i mondi che costruirete. Ma forse sarebbe stato innaturale, più innaturale ancora che andarsene un po’ troppo presto. E poi lo sapete che in realtà rimango: solo che da qui in poi sarò una voce che sentite da dentro invece che da fuori. Prometto pero che quella voce sarò davvero io, tutto intero e presente: non un ricordo o una fantasia, proprio io. E, ovviamente, ogni volta che sentirete: «Hanno dato la viiiita, hanno dato la vita», voi saprete (e solo voi) che sarà un segno inequivocabile.
Rabbrividirete, mi auguro, come è buona educazione fare con i fantasmi. È stata una vita bellissima, sempre, fino alla fine, soprattutto grazie a voi. Quasi quasi mi faccio invidia da solo, e non vorrei cambiarla con nessun’altra, e non dico per dire. Vorrei che dal mio penultimo tratto vi arrivasse la tranquilla certezza che è un viaggio che può essere fatto, anche questo senza sofferenza e anzi con curiosità. Si può fare: tutto qui. E, facendolo, riempirsi ancora fino alla fine di meraviglia e anche di amore e di gratitudine per aver abitato una casa così sontuosa, colorata, infinita.
Ecco: «si può fare» è un altro modo di formulare quella vostra saggezza di cui parlavo prima. Vorrei che teneste per nemica disprezzatissima l’ansia che fa rintanare, e nello stesso conto teneste lontani il risparmiarsi, l’indifferenza e il pregiudizio, anche piccolo, anche quotidiano, la mala parola e quelle piccinerie che fanno da paesaggio sonoro alla prigionia di chi vive nelle città: vorrei che gli altri fossero sempre per voi fonti e sorprese incessanti (anche quando vi fanno incazzare, e io di incazzature me ne intendo). Lo sono: chiudere gli occhi e le orecchie e la bestemmia.
La mia vita è cambiata molte volte. Non sempre avrei voluto, in qualche caso è stato anche un inferno. Ma il risultato alla fine è che ho vissuto tantissime vite (più dei gatti) e tutte interessanti, anche quelle che durante erano dolorosissime. Anche su di me non cedete al pregiudizio. Il mio ruolo l’ho svolto, sempre, a fondo, e anche spezzandomi la schiena quando è stato necessario. Non è questo il punto da cui si possa mentire o accampare scuse: dico queste cose perché le penso con convinzione fermissima e non chiedo altro riconoscimento che il vostro.
La vita è cambiata molte volte, quindi, ma voi conoscete bene il motto che avrei voluto scolpirmi sulla lapide: «Se poteva restava». Non è la prima volta che parto, come sapete, ma ogni volta, se potevo restavo. E allora la metto così: se posso rimango, anche stavolta, o senno troverò un modo per tornare. Prometto di venire a prendervi quando, fra tantissimo tempo, sarà il momento. Se non altro per la cazzimma di dimostrarvi che avevo ragione io su fantasmi e sopravvivenza post mortem.
Voglio andare via con il funerale economico (non scrivo la formula che viene usata nella sua pubblicità perché mi ripugna, specie dopo il libro sui Buoni, ma avete capito: quella bella trovata dei cartelloni con scritto: «A soli 999 euro il tuo funerale»; ora sono polvere, ma se fossi vivo mi toccherei i cabbasisi). Però fate suonare per me Hey Joe (in chiesa sarebbe fighissimo, ma mi rendo conto) e Conference of the Birds di Dave Holland (magari al crematorio al posto del discorso). Soprattutto vorrei che non abbandonaste Pianrastello, non lasciatela cadere in rovina. Samir sa che cosa ci vuole e ama quelle case e quei prati e con il suo aiuto la continuità e assicurata.
È importante, davvero: siamo tutti lì che aleggiamo in tondo, c’e anche il trisnonno Michele. Olga, se avessi il potere di farti questo dono, ti lascerei leggerezza: ti fai carico dei mali di tutto il mondo e cerchi sempre di risparmiare gli altri portando tu il peso. È bello, è nobile, ma ti farà soffrire, e la sofferenza non vale niente, in sé non garantisce niente. Meglio la tua allegria nel cuore, il mondo ha più bisogno di quella: tu lascia che qualche zappa la porti qualche altro asino (favola dell’asino che tornava dai campi e tutti i contadini gli lasciavano da portare la zappa che tanto per lui, così forte, era leggera: ma alla centesima zappa l’asino crollò. E questo fu un gran male per l’asino, certo, ma anche per i contadini).
Una delle persone che ho amato e ammirato, anche se non l’ho conosciuto di persona (ma ne ho ricostruito le tracce con cura) si chiamava Moreno Locatelli. Poco prima della sua morte, a Sarajevo, durante la guerra, i suoi compagni lo rimproveravano perché, invece di sacrificare tutto alla causa dei civili travolti dalla guerra, teneva un po’ di cioccolato per sé e se lo mangiava. Lui diceva che aveva bisogno di quella piccola carezza a sé stesso per avere qualcosa di più da dare agli altri. E diede più di chiunque altro intorno a lui. Ecco, sia pure in circostanze meno drammatiche, se potessi farti un dono, sarebbe proprio la cioccolata di Moreno. Perché tu sei forte, e niente ti può umiliare e io sono pieno di orgoglio per come sei, ma sul forte gravano pesi che richiedono anche un ricambio di zuccheri e qualche coccola. Mentre è il debole invece che spesso lo ricatta e approfitta di lui, e al momento buono troverà anche qualcosa da rinfacciargli. Quindi ogni tanto mangiati una cioccolata sottratta agli aiuti umanitari, se ce la fai. E continua a essere il leader che sei e a ridere e far ridere come solo tu sai.
Elena, a te consiglierei di trasferirti subito in via Baretti: ho provato ad accumulare per te un po’ di bellezza, di armonia, di libri che potresti amare. Io so che hai sofferto tantissimo in questi anni e spesso sei stata lasciata sola. E hai coperto il dolore e la stanchezza con quel sorriso luminoso con cui cerchi di proteggere gli altri, me per primo. Vorrei che quella torre che ho apprestato per andare in pace negli ultimi anni servisse a te per tirar fuori tutta l’armonia di cui sei capace e farne un tesoro prezioso per vivere in equilibrio con te stessa, con i tuoi sogni, gli obiettivi e un mondo di fuori che diventa ogni giorno più duro. Un rifugio e anche un deposito, da tenere in ordine con l’amore che sai dare.
Ecco, e non fatevi schiacciare da questo fatto che è capitato, intendo quello per cui scrivo questa lettera. Mi troverete proprio dentro di voi, come dicevo, e non sarò una metafora, ma il solito ingombrante chiancone peloso. Non caricatevi del peso di dovervi consolare l’una con l’altra: ognuna di voi mi troverà dove vorrà cercarmi. Alla vostra presenza devo il fatto di avere avuto una vita davvero felice. Davvero. Quella vita per cui mi sono sempre sentito fortunato, per cui la sera mi veniva da ridere – anche nei momenti infernali – ed era pura gioia. Quella vita per cui ho sentito il bisogno di avere qualcuno e qualcosa da ringraziare.
È un miracolo, no? Una vita felice, alla fine: niente di meno. Grazie a voi pulci, al fatto che ci siete e che mi impone di continuare a esserci anch’io, in un modo o nell’altro. Alla continuità della vostra presenza, agli odori, e a piccoli gesti o momenti che probabilmente neanche ricordate. Elena quando mi chiamavi Ultros o Ultrosone e mi indicavi la via dell’oltre, per esempio. O quella notte del 25 settembre in cui stavo piantato a gambe larghe davanti alla finestra cercando di inghiottire le lacrime e accettare la morte di tuo nonno e tu, che non avevi parole ma eri abbastanza piccola da passarci, iniziasti semplicemente a girarmi fra le gambe facendo con i tuoi passi un otto sul tappeto, ostinata, senza parlare, senza smettere, strofinandomi con i capelli, ed era uno dei gesti più belli che un uomo abbia mai ricevuto, e dentro c’eri tutta tu.
È tutta tu, Olga, c’eri già nelle tue preoccupazioni per me, nello Scatolone Medicone che trascinavi, più grosso di te, e dove a poco più di due anni tenevi tutte le mie medicine e le gestivi: «Non sono Olga, sono la Dottoressa Oui», seria e ridanciana insieme, come sai fare solo tu. E le partite a tressette e il sorriso sull’Annapurna e le favolose cavalcate delle frecce marroni che in un momento difficile trasformavano la mia vita in una selva di cavalieri ariosteschi. E quando in macchina verso Vianino mi proponesti un gioco: «Uno dice una frase e l’altro trova un motivo per cui la frase gli piace e uno per cui non gli piace». C’era tutta la tua intelligenza in quell’idea e solo per l’ultima volta riuscii a fregarti. Dissi: «Van la pulce e strimpalione per il mondo in spedizione», e tu dopo aver rimuginato un po’ ti arrendesti: «Non trovo nessun motivo per cui non mi piace». L’ultima volta che fregai Elena invece fu davanti al freezer aperto: «Devi proprio andare a lavorare? Non puoi stare qui con me a giocare?». E io avevo risposto la solita banalità che se non vado, allora non avremo i soldi per mangiare, allora lei mi aveva messo con le spalle al muro: «Mi fai vedere che il frigo è vuoto?». La ingannai aprendo il freezer e mi lasciò andare, ma era chiaro che ero io l’errore. E la ricordo, più o meno nella stessa epoca, quando mi consolava del lavoro perso («ora non dirigo più un giornale ma scrivo “pezzi di giornale”») spiegandomi che «è bello anche ritagliare e incollare».
E che dirò delle lacrime che cercavo di nascondere, di gioia pura, sentendo Olga e il suo violino improvvisare Mozart nel caos di casa del Maestro, proprio quando io credevo che il suo amore per la musica fosse soffocato da esercizi freddi e poco affascinanti?
Ecco, proprio da voi due ho imparato a ricordarmi sempre che si può sfuggire a tutto, che niente è deciso e basta, che un’altra strada c’è sempre. E per me è diventato un principio, che alla fine mi ha scaldato la casa, le notti, i sogni, le sere e mi ha tenuto attivo e in vita alla faccia di una malattia che avrebbe preteso che mi occupassi di lei più che di me. Mi avete regalato anni di vita che sono stati (e qualunque medico ve lo confermerà) puro miracolo. Grazie a voi l’ho fregata, la nemica: le abbiamo detto a muso duro che io non ero la mia malattia, ma altro.
A dire la verità, mi piacerebbe fare un testamento come quello del duca di Saint-Simon, nominare esecutore un amico fidato e, per ricambiarlo della fatica, donargli uno dei miei dipinti di Raffaello, ma come potete immaginare c’e qualche impedimento. Tanto spero che i beni terreni ve li spartirete come avete già deciso: via Baretti a Elena, via Bertolotti a Olga, Pianrastello in comune (e che dei come i miei antenati, Samir e Angelo,il marito di Xenia, vi aiutino a conservare dignità e mistero a quel posto così importante per l’incrocio delle nostre vite).
I libri, idealmente, dovreste tenerli uniti in una biblioteca comune e coltivare il gusto favoloso della bancarella e dell’usato per colmarne le incolmabili lacune, ma sono utopie che lasciano il tempo che trovano, temo, in un’era tanto tecnologica: persino mamma, maestra di lettura, si è convertita al digitale! Però, chissà. Elena è cosi utopista che forse una biblioteca affidata a lei può diventare un infinito labirinto di meraviglia. E Olga è un architetto imprevedibile di universi inediti. Pensate che io collezionavo (e ci tengo) i vecchi Burcolor cartoncino, la più bella collana italiana di tutti i tempi.
La maggior parte sono a Pianrastello. Immagino che la mia chitarra non interessi un granché a nessuno. Se la date a qualcuno fate che non sia uno scout o un barbiere, o almeno che non suoni come uno scout o un barbiere: merita uno che la suoni meglio di me. È anche tempo di rivelare alcuni trucchi, anche se probabilmente li avete già sgamati. Se, nel corso della vita, leggendo Re Lear o ascoltando per caso ’round Midnight Lili Marlene vi prendesse un filo di malinconia, bisogna che sappiate che si tratta, nell’ordine, della Storia di Crudelia Nagaralpa e del vecchio padre Anchise, di In coppa a papà e di Districar le pulci. La voce della piovra Gervasio la devo a Bracardi e allo squadrista Catenacci, ma sui mostri degli abissi – piovra Gervasio, squalo Giuseppe, aragosta Vincenzo,trampolino Fernando, coccodrillo Pasquale, girandola Nicola eccetera –, sui pesci che si possono e non si possono fermare e sulle frecce marroni, rivendico il copyright assoluto. Anche sul mostro del maglione e su Appenasveglius. E sul mostro viola delle psicanaline che ormai vivrà in cantina, povero.
Forse è ora di salutare e andare. Dovrei dire qualcosa su vostra madre, la donna della mia vita, comunque, amata come nessun altro al mondo, per decenni. Ma è qualcosa di troppo sacro, e parlandone diminuirei quel mistero, trascorso eppure eterno. E finirei per unirmi al coro un po’ gracidoso dei giudizi incompetenti. Poi resta qualcosa di ineffabile come la speranza di salvezza nell’ultimo verso di Faust. Anche questo mi porto via. E Serena, sarebbe bello che le vorreste un po’ di bene: è stata un miracolo della fine, con semplicità, sorriso, allegria, capacità d’asino di portare pesi e non far notare, complicità, pazienza e in fine dei conti tutto riassunto nel banale (e pur rarissimamente tradotto in pratica) concetto di bontà.
Anche questo, come l’affetto fra noi quattro, quando sembrava già finito tutto, ha colorato con i colori del vivere i giorni del morire, come se fosse facile.
E gli amici non posso nominarli tutti, sarebbe una lettura di ore, ricordo – ma se lo ricordano tutti – banalmente un motivo della mia lunga e sorprendente sopravvivenza, cosi come lo chiarì Dina Grisenti: «Non puoi morire: quando sei caduto,intorno a te si sono alzati così tanti e tanto fitti cerchi di lance che la morte farà fatica a passare». Io dico che erano anche cannoni, mica solo lance: grazie artiglieri!
Mi mancherete. O forse no, se riesco a vagare un po’ da fantasma. Infesterò le mie case senz’altro, ma spero mi lascino anche girare un po’, non riesco proprio a farne a meno. Per esempio, aspetta un po’, vado solo a vedere cosa c’e dietro la curva…

PEZZO RIPRESO DA:  http://www.minimaetmoralia.it/wp/ricordando-luca-rastello-lettera-alle-pulci/

Nessun commento:

Posta un commento