28 luglio 2018

FILOSOFIA E POLITICA IN GERMANIA POCO PRIMA DELL'AVVENTO DI HITLER



     Un saggio ricostruisce in modo appassionante gli anni che in Germania precedettero il nazismo. Attraverso i confronti e gli scontri fra quattro grandi filosofi: Cassirer, Heidegger, Benjamin e Wittgenstein.

Angelo Bolaffi



Così Weimar diventò il ring dei filosofi

Ventisei marzo 1929, ore 10 del mattino: il mondo è alla vigilia della più grave crisi economica dell’era moderna — qualche mese dopo scoppierà il Venerdì nero della borsa Wall Street — e la Repubblica di Weimar si sta avviando verso il suo crollo. Ma questo, ovviamente, ancora nessuno lo sa. A Davos, la località delle Alpi svizzere nella quale anni prima Thomas Mann aveva ambientato La montagna incantata, nell’elegante e sofisticata atmosfera del Grand Hôtel Belvedere sta per iniziare la prima sessione della più celebre disputa filosofica del Ventesimo secolo: protagonisti Ernst Cassirer e Martin Heidegger.

Un confronto sul tema “Che cos’è l’uomo” tra il massimo esponente della scuola neokantiana, la più importante fra le correnti accademiche della filosofia tedesca, nonché primo rettore ebreo di una università tedesca e Martin Heidegger il giovane e ambizioso «monarca segreto della filosofia tedesca» (Hannah Arendt) che proprio a quella tradizione come all’intera cultura classica tedesca erede di Goethe e dell’illuminismo di Kant aveva dichiarato “guerra totale”.

Un duello filosofico che apparve ai presenti che ovviamente avevano letto il capolavoro manniano e avevano ben presente il capitolo intitolato Operationes spirituales come la trasposizione nella realtà della finzione letteraria: Cassirer e Heidegger, infatti, richiamavano, con una precisione inquietante, le sagome ideologiche di Ludovico Settembrini e di Leo Naphta.
La ricostruzione dello scontro tra Cassirer e Heidegger costituisce il capitolo conclusivo di un bellissimo libro — Wolfram Eilenberger, Il tempo degli stregoni. 1919- 1929. Le vite straordinarie di quattro filosofi e l’ultima rivoluzione del pensiero, Feltrinelli — che ripercorre la vicenda intellettuale e biografica i cui fili si saldano attorno alla data fatale dell’anno 1929 di quattro dei maggiori filosofi e pensatori di lingua tedesca degli anni ’20 del secolo scorso: accanto a Cassirer e Heidegger gli altri due protagonisti sono Walter Benjamin e Ludwig Wittgenstein (il titolo dell’edizione italiana molto ben tradotta e curata forza quello tedesco che parla di Zauberer, di maghi. E non di Hexenmeister, termine tedesco per “stregone”).

Il lavoro di Eilenberger è un ottimo esempio di giornalismo filosofico di alto livello, un genere in Italia purtroppo sconosciuto, dinnanzi al quale forse storceranno il naso certi filosofi di professione che al pensiero preferiscono il gergo delle conventicole non capendo che libri come questo, e come quelli che in passato ci ha regalato Rüdiger Safranski, sono un vero e proprio spot a favore della filosofia. Uno dei principali meriti del libro è, infatti, proprio quello di guidare il lettore nel cuore di una discussione estremamente complessa aiutandolo a percorrere e a decifrare i passaggi, anche quelli teoreticamente più impervi, del pensiero dei quattro autori.

Come in un avvincente romanzo ambientato nelle contraddizioni politiche e culturali di un’età, quella dei “ruggenti anni Venti” con particolare riferimento a quelli della Repubblica di Weimar, il libro accompagna il percorso filosofico dei quattro autori attraverso il decennio tra il 1919 e il 1929 movimentandolo con riferimenti spesso molto divertenti (e talvolta inediti) alle loro vicende personali.

Ad esempio a proposito di Wittgenstein che a differenza degli altri tre visse tra Austria e Inghilterra, si ricorda non solo l’entusiastico giudizio formulato su di lui da John Maynard Keynes — in una lettera del 18 gennaio 1929: «Dio è arrivato, l’ho incontrato sul treno delle cinque e un quarto» — ma anche che «benché si incontrino spesso a casa di Keynes Wittgenstein e Virgina Woolf non si parlano» giacché «è soprattutto il rapporto con le interlocutrici femminili a provocargli evidenti problemi, se non un vero e proprio disagio». Mentre invece che per il suo influsso filosofico Piero Sraffa è l’unico «che riesca a riportare il pensiero di Wittgenstein al “piano terra” del linguaggio quotidiano».
Poi c’è Walter Benjamin, dei quattro certamente la figura più tragica, dilaniato da un insieme di tensioni spirituali, politiche e personali: «Se c’è un intellettuale la cui situazione biografica riflette in modo esemplare le tensioni dell’epoca, questo è Walter Benjamin. Benjamin è l’Uomo-Weimar.

La cosa non poteva finire bene». E infatti finì malissimo: Benjamin temendo di non riuscire a sfuggire ai nazisti si suicidò nella notte tra il 26 e il 27 settembre del 1940 con una dose di morfina nella località pirenaica di Portbou. Amante del gioco e delle donne anche in mènage a trois come con Asja Lacis, eternamente alla ricerca di denaro e di riconoscimento intellettuale, genio a lungo incompreso dai suoi contemporanei ma anche eternamente incerto tra Palestina e comunismo, tra mistica ebraica e aspirazione rivoluzionaria, Benjamin si ritroverà nella sua critica a Weimar a condividere, come altri esponenti del pensiero rivoluzionario radicale, alcune delle posizioni filosofiche di quanti poi diverranno i suoi persecutori: «Entrambi aspirano tuttavia a una svolta rivoluzionaria, Benjamin come Heidegger, con tutte le risorse di cui dispongono.

Pur di evadere, evadere dalla strada a senso unico della modernità! Ritornare al bivio, dove essa ha preso la direzione sbagliata. E sarebbero anche perfettamente d’accordo nell’indicare le fonti e i riferimenti che si tratta di evitare ad ogni costo: la cultura borghese, gli ordinamenti cosiddetti liberali, i principi morali da quattro soldi, l’idealismo tedesco, come quello dello spirito; la filosofia accademica; Kant, Goethe, Humboldt ecc.». Quella cultura borghese e quei valori liberali dell’umanesimo e dell’illuminismo tedesco ai quali Ernst Cassirer, invece, restò sempre fedele per tutta la vita e tentò disperatamente ma senza successo di difendere proprio contro Martin Heidegger sul ring filosofico di Davos.

Un incontro-scontro tra i due “pesi massimi” della filosofia tedesca di Weimar che Eilenberger racconta (in pagine tra le più efficaci del libro) come potrebbe fare un cronista sportivo dai bordi del quadrato di un combattimento di boxe. Emmanuel Lévinas e tutti i giovani filosofi che assistettero alla disputa affascinati da Heidegger che «annunciava un mondo che stava per essere sconvolto» si schierarono contro Cassirer. Una scelta questa di cui poi si rammaricò profondamente: «Mi sono molto pentito durante gli anni hitleriani di aver preferito Heidegger lì a Davos». Difatti Heidegger sostenne filosoficamente il “rinnovamento nazionalsocialista”. E Cassirer, invece, fu costretto all’esilio.

Nelle Lezioni americane Italo Calvino sostiene che La montagna incantata di Thomas Mann rappresenta la più completa introduzione alla cultura del ’900 perché da questo romanzo «si dipartono tutti i fili che saranno svolti dai maître à penser del secolo: tutti i temi che ancor oggi continuano a nutrire le discussioni vi sono pronunciati e passati in rassegna». Non possiamo dire la stessa cosa del confronto-dibattito filosofico tra Cassirer e Heidegger ? Non è infatti forse vero che oggi proprio come allora i difensori dei valori della tradizione liberaldemocratica appaiono costretti sulla difensiva dall’offensiva del populismo xenofobo e identitario nel segno del sovranismo nazionalista propugnato da Steve Bannon? Siamo dunque alla vigilia di un nuovo Tramonto dell’Occidente come quello annunciato nel 1918 da Oswald Spengler?

La Repubblica – 8 giugno 2018

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