Un saggio ricostruisce
in modo appassionante gli anni che in Germania precedettero il
nazismo. Attraverso i confronti e gli scontri fra quattro grandi
filosofi: Cassirer, Heidegger, Benjamin e Wittgenstein.
Angelo Bolaffi
Così Weimar diventò
il ring dei filosofi
Ventisei marzo 1929, ore
10 del mattino: il mondo è alla vigilia della più grave crisi
economica dell’era moderna — qualche mese dopo scoppierà il
Venerdì nero della borsa Wall Street — e la Repubblica di Weimar
si sta avviando verso il suo crollo. Ma questo, ovviamente, ancora
nessuno lo sa. A Davos, la località delle Alpi svizzere nella quale
anni prima Thomas Mann aveva ambientato La montagna incantata,
nell’elegante e sofisticata atmosfera del Grand Hôtel Belvedere
sta per iniziare la prima sessione della più celebre disputa
filosofica del Ventesimo secolo: protagonisti Ernst Cassirer e Martin
Heidegger.
Un confronto sul tema
“Che cos’è l’uomo” tra il massimo esponente della scuola
neokantiana, la più importante fra le correnti accademiche della
filosofia tedesca, nonché primo rettore ebreo di una università
tedesca e Martin Heidegger il giovane e ambizioso «monarca segreto
della filosofia tedesca» (Hannah Arendt) che proprio a quella
tradizione come all’intera cultura classica tedesca erede di Goethe
e dell’illuminismo di Kant aveva dichiarato “guerra totale”.
Un duello filosofico che
apparve ai presenti che ovviamente avevano letto il capolavoro
manniano e avevano ben presente il capitolo intitolato Operationes
spirituales come la trasposizione nella realtà della finzione
letteraria: Cassirer e Heidegger, infatti, richiamavano, con una
precisione inquietante, le sagome ideologiche di Ludovico Settembrini
e di Leo Naphta.
La ricostruzione dello
scontro tra Cassirer e Heidegger costituisce il capitolo conclusivo
di un bellissimo libro — Wolfram Eilenberger, Il tempo degli
stregoni. 1919- 1929. Le vite straordinarie di quattro filosofi e
l’ultima rivoluzione del pensiero, Feltrinelli — che ripercorre
la vicenda intellettuale e biografica i cui fili si saldano attorno
alla data fatale dell’anno 1929 di quattro dei maggiori filosofi e
pensatori di lingua tedesca degli anni ’20 del secolo scorso:
accanto a Cassirer e Heidegger gli altri due protagonisti sono Walter
Benjamin e Ludwig Wittgenstein (il titolo dell’edizione italiana
molto ben tradotta e curata forza quello tedesco che parla
di Zauberer, di maghi. E non di Hexenmeister, termine
tedesco per “stregone”).
Il lavoro di Eilenberger
è un ottimo esempio di giornalismo filosofico di alto livello, un
genere in Italia purtroppo sconosciuto, dinnanzi al quale forse
storceranno il naso certi filosofi di professione che al pensiero
preferiscono il gergo delle conventicole non capendo che libri come
questo, e come quelli che in passato ci ha regalato Rüdiger
Safranski, sono un vero e proprio spot a favore della filosofia. Uno
dei principali meriti del libro è, infatti, proprio quello di
guidare il lettore nel cuore di una discussione estremamente
complessa aiutandolo a percorrere e a decifrare i passaggi, anche
quelli teoreticamente più impervi, del pensiero dei quattro autori.
Come in un avvincente
romanzo ambientato nelle contraddizioni politiche e culturali di
un’età, quella dei “ruggenti anni Venti” con particolare
riferimento a quelli della Repubblica di Weimar, il libro accompagna
il percorso filosofico dei quattro autori attraverso il decennio tra
il 1919 e il 1929 movimentandolo con riferimenti spesso molto
divertenti (e talvolta inediti) alle loro vicende personali.
Ad esempio a proposito di
Wittgenstein che a differenza degli altri tre visse tra Austria e
Inghilterra, si ricorda non solo l’entusiastico giudizio formulato
su di lui da John Maynard Keynes — in una lettera del 18 gennaio
1929: «Dio è arrivato, l’ho incontrato sul treno delle cinque e
un quarto» — ma anche che «benché si incontrino spesso a casa di
Keynes Wittgenstein e Virgina Woolf non si parlano» giacché «è
soprattutto il rapporto con le interlocutrici femminili a provocargli
evidenti problemi, se non un vero e proprio disagio». Mentre invece
che per il suo influsso filosofico Piero Sraffa è l’unico «che
riesca a riportare il pensiero di Wittgenstein al “piano terra”
del linguaggio quotidiano».
Poi c’è Walter
Benjamin, dei quattro certamente la figura più tragica, dilaniato da
un insieme di tensioni spirituali, politiche e personali: «Se c’è
un intellettuale la cui situazione biografica riflette in modo
esemplare le tensioni dell’epoca, questo è Walter Benjamin.
Benjamin è l’Uomo-Weimar.
La cosa non poteva finire
bene». E infatti finì malissimo: Benjamin temendo di non riuscire a
sfuggire ai nazisti si suicidò nella notte tra il 26 e il 27
settembre del 1940 con una dose di morfina nella località pirenaica
di Portbou. Amante del gioco e delle donne anche in mènage a trois
come con Asja Lacis, eternamente alla ricerca di denaro e di
riconoscimento intellettuale, genio a lungo incompreso dai suoi
contemporanei ma anche eternamente incerto tra Palestina e comunismo,
tra mistica ebraica e aspirazione rivoluzionaria, Benjamin si
ritroverà nella sua critica a Weimar a condividere, come altri
esponenti del pensiero rivoluzionario radicale, alcune delle
posizioni filosofiche di quanti poi diverranno i suoi persecutori:
«Entrambi aspirano tuttavia a una svolta rivoluzionaria, Benjamin
come Heidegger, con tutte le risorse di cui dispongono.
Pur di evadere, evadere
dalla strada a senso unico della modernità! Ritornare al bivio, dove
essa ha preso la direzione sbagliata. E sarebbero anche perfettamente
d’accordo nell’indicare le fonti e i riferimenti che si tratta di
evitare ad ogni costo: la cultura borghese, gli ordinamenti
cosiddetti liberali, i principi morali da quattro soldi, l’idealismo
tedesco, come quello dello spirito; la filosofia accademica; Kant,
Goethe, Humboldt ecc.». Quella cultura borghese e quei valori
liberali dell’umanesimo e dell’illuminismo tedesco ai quali Ernst
Cassirer, invece, restò sempre fedele per tutta la vita e tentò
disperatamente ma senza successo di difendere proprio contro Martin
Heidegger sul ring filosofico di Davos.
Un incontro-scontro tra i
due “pesi massimi” della filosofia tedesca di Weimar che
Eilenberger racconta (in pagine tra le più efficaci del libro) come
potrebbe fare un cronista sportivo dai bordi del quadrato di un
combattimento di boxe. Emmanuel Lévinas e tutti i giovani filosofi
che assistettero alla disputa affascinati da Heidegger che
«annunciava un mondo che stava per essere sconvolto» si schierarono
contro Cassirer. Una scelta questa di cui poi si rammaricò
profondamente: «Mi sono molto pentito durante gli anni hitleriani di
aver preferito Heidegger lì a Davos». Difatti Heidegger sostenne
filosoficamente il “rinnovamento nazionalsocialista”. E Cassirer,
invece, fu costretto all’esilio.
Nelle Lezioni
americane Italo Calvino sostiene che La montagna
incantata di Thomas Mann rappresenta la più completa
introduzione alla cultura del ’900 perché da questo romanzo «si
dipartono tutti i fili che saranno svolti dai maître à penser del
secolo: tutti i temi che ancor oggi continuano a nutrire le
discussioni vi sono pronunciati e passati in rassegna». Non possiamo
dire la stessa cosa del confronto-dibattito filosofico tra Cassirer e
Heidegger ? Non è infatti forse vero che oggi proprio come allora i
difensori dei valori della tradizione liberaldemocratica appaiono
costretti sulla difensiva dall’offensiva del populismo xenofobo e
identitario nel segno del sovranismo nazionalista propugnato da Steve
Bannon? Siamo dunque alla vigilia di un nuovo Tramonto
dell’Occidente come quello annunciato nel 1918 da Oswald
Spengler?
La Repubblica – 8
giugno 2018
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