16 luglio 2018

D. DI CESARE, Il secolo lunghissimo della filosofia.



Secolo complesso e tormentato, il Novecento vede svilupparsi un ricco dibattito filosofico interamente svolto nel segno della crisi e dell'impotenza della ragione a padroneggiare il mondo. D'altronde, cosa altro poteva produrre il secolo delle guerre mondiali, della Shoah e di Hiroshima?

Donatella Di Cesare

Novecento. Il secolo (lunghissimo) della filosofia


Il Novecento rappresenta uno degli apici della filosofia nei suoi 2.500 anni di storia. Lo caratterizza una radicalità che si esprime nel tentativo di decostruire la tradizione occidentale. La filosofia si interroga sulle sue radici, cerca un nuovo inizio.

La rottura rispetto al passato è avvertita nitidamente. Viceversa il «secolo breve» si prolunga fin oltre l’esordio del millennio e si rivela epoca filosofica tutt’altro che conclusa. Di qui i giudizi differenti, persino opposti. Un filosofo che alcuni considerano una figura chiave, viene ritenuto da altri un impostore. Se gli animi si accendono è per via di una continuità di fondo che fa dei temi di ieri quelli di oggi.

L’estrema radicalità della filosofia si spiega alla luce degli eventi catastrofici che costellano la prima parte del secolo: le due guerre mondiali, la Shoah, Hiroshima. La riflessione sulla modernità trae spunto non solo dal progresso scientifico e dagli esplosivi risultati della tecnica, ma anche dagli incomparabili processi distruttivi e autodistruttivi. La filosofia ne è profondamente scossa, lacerata, afflitta. Diviene voce critica — non più, però, in nome della Ragione. Al contrario, il suo bersaglio è la razionalità tecnica del mondo occidentale. Occorre rimettere in discussione antichi concetti, demolire vecchi idoli, che sono passati nel repertorio delle scienze, producendo crimini e sventure.

L’effetto è dirompente. Si dubita di tutto, anche del dubbio. Viene meno persino il soggetto, protagonista incontrastato dell’epoca moderna, da Descartes a Kant. Sarà davvero autonomo, omogeneo, identico a sé, o non si deve piuttosto riconoscere, scrutando in quell’arena dove si combattono forze contrastanti, che il soggetto è stato una bella illusione? Che significa dire «io»? Mentre si dissolve una certezza dopo l’altra, resta almeno il linguaggio. È il tempo della «svolta linguistica». Sempre più apolide e nomade, la filosofia è chiamata a intervenire su temi lontani e questioni disparate.
Il Novecento filosofico viene annunciato da Nietzsche, il cui nome diventa simbolo di quell’alba. Ma i precursori sono più d’uno, outsider che vivono fuori dall’accademia, refrattaria alla creatività. Il primo è Kierkegaard che, con le sue opere dal timbro autobiografico, guarda nell’abisso della finitezza umana. Anche per chi crede — e la fede è salto rocambolesco nel non credibile — non ci sono più appigli; l’intimo dissidio è inaggirabile. La filosofia ricomincia da questa finitezza. Non è figlia del suo tempo. Piuttosto confessa la propria data di nascita.

Marx, Nietzsche, Freud, i tre grandi «maestri del sospetto», sono gli araldi di una liberazione che promette di essere ardua. Non è lo Spirito a scandire il corso della storia, bensì i rapporti di produzione e la lotta di classe. Marx chiama la filosofia a essere di parte: non basta interpretare il mondo — occorre cambiarlo! Non è la Coscienza a dirigere le azioni, perché nell’intimo abita un imbarazzante estraneo, l’inconscio, spia del corpo, complice del sesso. La psicoanalisi assesta un colpo basso al vecchio soggetto.

Quello decisivo viene, però, da Nietzsche. Non è la Verità quella che molti presumono di possedere, immaginando che il loro intelletto corrisponda d’incanto alle cose. Basta guardare alla sua genealogia: la verità è un «mobile esercito di metafore», la rete che articola il mondo e in cui ciascun parlante è irretito. Con una finzione le metafore vengono innalzate a concetti. L’interpretazione contenuta nella lingua diventa la verità. Così quel maestro inerme di un pensiero pericoloso, rivelando la dottrina dell’eterno ritorno, che perpetua il progresso in decadenza perenne, smaschera il rovesciamento dei valori morali, diagnostica il nichilismo e proclama la «morte di Dio».

Sono suoi eredi i grandi protagonisti del Novecento, quelli che qualcuno chiama «maghi», qualche altro definisce gli «ultimi filosofi». A cominciare dal più controverso: Martin Heidegger. Lo scenario era già cambiato con Husserl. «Tornare alle cose stesse!»: fu questo il suo motto. La filosofia non poteva più occuparsi di teorie scientifiche né identificarsi con la storia della filosofia.

Come un musicista non è uno storico della musica, così un filosofo non è uno storico della filosofia. Era urgente riandare al «mondo della vita» per delineare le cose come appaiono, i fenomeni quali si danno all’intuizione. Ecco la fenomenologia. Husserl era radicale — ma non abbastanza. Perché vedeva ancora nella filosofia una «scienza originaria» in grado di descrivere i fenomeni nella loro evidenza. All’irrequietezza il fenomenologo opponeva la quiete della certezza assoluta conquistata alla sua scrivania nell’esercizio rigoroso e nell’estasi asciutta.
Ma arrivò Heidegger. «È già notte fonda — la tempesta spazza le cime, cigolano le assi della baita, la vita è qui pura, semplice e grande dinanzi all’anima». Così scriveva il 24 aprile 1926 a Jaspers, lo psichiatra prestato alla filosofia, con il quale condivideva l’attenzione per l’esistenza. Nel 1933, quando Heidegger aderì al nazismo, s’interruppe quel sodalizio.

Già in Essere e tempo, pubblicato nel 1927, l’esistenza lascia il posto al termine «esserci», più adatto a indicare la finitezza ineluttabile. Chi ha scelto, ad esempio, di vivere proprio in quest’epoca? Heidegger parla di «gettatezza». Come può l’esserci, non solo gettato, ma anche affetto da una miriade di emozioni, raggiungere l’evidenza oggettiva? La metafisica ha sognato un soggetto sovrano che si aggira nel mondo con sguardo disinteressato per cogliere le cose in una visione teoretica. Questo sogno si sgretola. Chi mai nella quotidianità vive così? Ciascuno si muove tra le cose che gli stanno intorno, a portata di mano, utilizzandole. Se deve aprire una porta, fa uso della maniglia. Non cerca di conoscerne l’essenza. L’uso pratico è possibile perché gli oggetti non sono dati nella loro «nudità», ma sono sempre precompresi grazie all’articolazione della lingua che offre l’orientamento. Rispetto al comprendere, che è primario, il conoscere è derivato e secondario. È la svolta ermeneutica della fenomenologia. Nel mondo della vita Husserl ha dimenticato il linguaggio.

La filosofia, però, non si limita a descrivere; risveglia dal sonno in cui ciascuno consuma l’esistenza da un ente all’altro. Heidegger chiama inautenticità questo smarrimento, un’alienazione più abissale di quella di Marx. Ciascuno è convinto di essere se stesso, ma pensa e dice a partire da ciò che «si pensa» e «si dice». Vive sotto la «dittatura del si», anche quando contesta. La via dell’autenticità passa anzitutto per l’angoscia, che non è malattia da curare con psicofarmaci, bensì esperienza del nulla che, se minaccia l’esistenza, può però anche liberarla. Il secondo passo è l’essere per la morte che non significa né il crogiolarsi nel pensiero della morte né scegliere il suicidio. Nell’Occidente che rimuove la morte, Heidegger la reinserisce nella vita. Perché la morte incombe sull’esistenza; è l’unica certezza, quella di non esserci più. Solo chi guarda alla propria morte riesce a raccogliersi progettando autenticamente la propria vita.

La filosofia del Novecento è contraddistinta da episodi leggendari. Il dibattito di Davos nel 1929, da cui Heidegger esce vincitore contro Cassirer. Non meno famosi sono gli incontri a Vienna, un paio di anni prima, tra il Circolo degli empiristi logici, oltre a Schlick anche Carnap, e un filosofo singolare, Ludwig Wittgenstein. Reduce dalle trincee, quell’ingegnere ex miliardario, che aveva rinunciato all’eredità per fare prima il maestro elementare, poi il giardiniere in un convento, aveva già fatto parlare di sé per genio e stravaganza. Fu sempre attratto da un ideale monastico in un mondo dilaniato dalle lotte politiche. Influenzato dall’analisi logica di Frege, aveva studiato a Cambridge con Russell. Durante la guerra scrisse il Tractatus in cui si proponeva di tracciare il confine delle proposizioni sensate e vere. Era questo il modo per sbarazzarsi delle questioni metafisiche che fuorviavano il pensiero. «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere». Questa la sua lapidaria sentenza. Avrebbe dovuto essere l’ultima, ma non lo fu.

Il Tractatus è destinato a divenire un’isola in un arcipelago che emerge da un’oscura immensità. Frasi sparse, appunti, manoscritti, diari, alcuni affiorati di recente, sono l’imponente lascito di Wittgenstein la cui riflessione negli anni si approfondisce toccando l’etica, l’estetica, la religione, la psicologia. Il culmine sono le Ricerche filosofiche del 1953, considerate, insieme a Essere e tempo, l’opera capitale del Novecento. Anche per Wittgenstein il grande tema è il linguaggio. Non si tratta, però, come vorrebbero gli empiristi logici, di ripulirlo per farne uno strumento piegato a una spiegazione scientifica del mondo.

Resterà il bizzarro malinteso che fa di Wittgenstein il capostipite della filosofia analitica. Ma opposta è la via che lui imbocca. La filosofia non è scienza. Il suo compito è terapeutico: può guarire dal morbo metafisico, riconducendo le parole all’impiego quotidiano, mostrandone i significati in molteplici giochi linguistici. «Tutto ciò che la filosofia può fare è distruggere idoli». La critica del linguaggio si compie dentro il linguaggio per svelare abusi e sortilegi secolari: il mito dell’identità, quello del concetto e dell’interiorità. Quando si parla, già si filosofa, avallando la vecchia metafisica. Dopo duemila anni occorre ripartire da qui — questa è la rivoluzione di Wittgenstein, non ancora compiuta.
Ma c’è un altro lascito che attende di essere valorizzato: quello di Walter Benjamin. Troppo spesso i seguaci lo mettono sul piedistallo, senza raccogliere le suggestioni della sua profetica originalità. Giornalista free lance, intellettuale caotico, collezionista ossessivo, comunista anarchico, autore esoterico i cui scritti vanno dalla numerologia ebraica a Lenin, vulcano di progetti falliti, teorico dello smarrimento, morto suicida a Portbou, Benjamin è la voce che restituisce il timbro radicale del Novecento.

Chi non ha letto un suo saggio non sa che cosa sia quel secolo. Benjamin mostra le condizioni di impossibilità della vera conoscenza e lo fa, anche lui, a partire dal linguaggio. L’epoca di decadenza è la caduta del linguaggio, ridotto a strumento dell’informazione. La sua profondità sembra perduta. È questo il grande lutto. La rivoluzione, attesa dagli sconfitti della storia sul baratro del progresso, si annuncia come evento del linguaggio. Un evento che è un salto, uno choc, una cesura: come la fine di un infelice matrimonio borghese, o il taglio liberatorio del debito, quello che pesa sulla Repubblica di Weimar. Un freno messianico interromperà quell’opprimente crepuscolo di luce artificiale che è il capitalismo.

Nel dopoguerra la filosofia si ferma a riflettere: sullo sterminio, la catastrofe europea, la condizione umana. In Francia l’Esistenzialismo tenta con Sartre una ripresa, in chiave marxista, della tradizione umanistica. In un dialogo a distanza Heidegger ribadisce la sua posizione nella Lettera sull’«umanismo» del 1947: inutile ostinarsi a vedere nell’uomo un animale razionale. Questa visione riduttiva manca la potenzialità dell’esserci umano che può ancora riconoscere la riduzione della ragione alla tecnica. È questo il terrificante ingranaggio: chi usa la tecnica non si accorge di essere usato.

Nel marxismo occidentale, dove si era distinta l’opera di Gramsci, nonché il pensiero affascinante di Bloch, le voci sono discordanti. Se Lukács intitola La distruzione della ragione il suo libro del 1954 che vorrebbe spiegare quel che è accaduto, Adorno e Horkheimer, esponenti della Scuola di Francoforte, nella Dialettica dell’Illuminismo puntano l’indice contro l’epopea della Ragione occidentale culminata nei progetti totalitari. Il nazismo è nato nella civiltà, non nella barbarie. Il dominio razionale del mondo assume, con la scienza e la tecnica, forme perverse che non producono libertà, ma creano piuttosto dipendenza. Nella Dialettica negativa Adorno sottolinea il potere burocratico della tecnocrazia che, nel tardocapitalismo, va facendosi globale.

C’è un tratto violento della filosofia occidentale: la volontà di appropriarsi di ciò che è altro da sé, di inglobarlo. Auschwitz non è che la conclusione «logica» di un totalitarismo ego-centrico sempre vittorioso sulle differenze altrui. Incapace di uscire da sé, non disturbato da rimorsi, questo «io» detestabile si è svincolato da qualsiasi responsabilità. Ma senza l’esodo verso l’altro, l’io neppure esisterebbe. Si alza potente la voce di Lévinas per raccogliere, dopo Rosenzweig e Buber, l’eredità dell’ebraismo e per chiedere che l’etica diventi filosofia prima. Il tema della responsabilità, rilanciato da Jonas, sarà un motivo ricorrente negli ultimi decenni del secolo, mentre l’etica assumerà enorme importanza e, dando luogo alla bioetica, finirà tuttavia per suddividersi in numerosi ambiti.
E le donne? La novità del Novecento è la loro presenza. Le prime vengono dall’intellighenzia ebraica e siedono nelle aule delle università tedesche: Edith Stein, Hannah Arendt, Jeanne Hersch. A loro si aggiungono Simone Weil e María Zambrano. Non si deve però fraintendere: la filosofia delle donne non è di per sé filosofia femminista. Lo prova la riflessione politica di Arendt: dalle Origini del totalitarismo alla Banalità del male e alla Vita activa. Il femminismo risale al Secondo sesso di Simone de Beauvoir, libro destinato a un enorme successo. In seguito emerge una divaricazione tra le filosofe che, come Kristeva e Irigaray, lavorano sull’identità femminile, e quelle che, sulla scia di Butler, decostruiscono il concetto stesso di genere.

Dall’ermeneutica di Gadamer alla decostruzione di Derrida, dalla nuova fenomenologia alle correnti analitiche, la filosofia al volgere del secolo resta per un verso nel solco di Heidegger e Wittgenstein, per l’altro si diversifica in una varietà di temi, ambiti e questioni, dove riesce difficile indicare quel che resta in comune. C’è chi prosegue nel distruggere la metafisica, mentre altri tentano un’opera di ricostruzione. Se non vengono meno le tensioni fra la tradizione anglosassone e quella continentale, stridente è il contrasto che emerge, nella filosofia politica, fra l’approccio fortemente normativo di Rawls, Walzer e altri americani, molto ossequiosi, come Habermas, verso la democrazia liberale, e un approccio ben più critico che si sviluppa nel contesto francese e in quello italiano.

È con Foucault che la filosofia si spinge nei sobborghi rimossi della follia, della malattia, del crimine, della sessualità, entra nelle prigioni e nelle cliniche psichiatriche. Con un immenso lavoro di scavo, una «archeologia del sapere», si articola in un’indagine minuziosa di regimi discorsivi per lasciare che venga alla luce la «microfisica del potere». Senza la genealogia di Nietzsche questo ulteriore attacco al pensiero metafisico ortodosso non sarebbe stato possibile.

Se nel panorama frastagliato è arduo dire quali riflessioni avranno fortuna nel futuro, se non è escluso che, chi come Badiou, osannato come il più grande, finisca in una nota a piè di pagina, certo è che Nietzsche e Heidegger sono tornati alla ribalta grazie a Sloterdijk, prima con la Critica della ragion cinica, poi con le Sfere, storia filosofica della globalizzazione. A riprova che il Novecento, inteso come epoca filosofica, non si è ancora concluso.

Il Corriere della sera/La Lettura – 1 luglio 2018

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