06 luglio 2018

IL PREMIO STREGA 2018 A HELENA JANECZEK



Helena Janeczek, membro fondatore di Nazione Indiana, ha vinto il Premio Strega 2018 con il romanzo La ragazza con la Leica (Guanda), travolgendo di gioia tutti gli indiani. Ripubblichiamo questo suo pezzo apparso su Focus-In e proposto su NI l’8 agosto 2017.



Natural Born Italian


di Helena Janeczek

Un giorno litigavo con mia madre alla stazione di Gallarate. Lei avrebbe voluto aspettare che il temporale si calmasse, io togliermi al più presto i vestiti fradici. Qualcuno ci ha segnalate ai carabinieri. Con i miei occhi chiari e le Converse stinte, risultavo la badante violenta della sciuretta elegante. A quel punto non serviva che spiegassi chi ero e nemmeno che mia madre, pur scossa da una terribile crisi di pianto, trovasse il modo di confermarlo ai carabinieri. Ci hanno separate. Non potevo avvicinarmi a mia madre. L’hanno fatta salire sulla gazzella, accompagnata al mio portone e aspettato finché non sono arrivata, a piedi.
È strano quando cadono le maschere. Da un lato il pregiudizio capace di vedere cose mai accadute – la straniera che malmena la povera signora italiana. Dall’altro la maschera che io stessa porto tutti i giorni – il colore della pelle, la lingua del posto parlata senza un accento che non sia quello locale. Sarei stata più felice se avessi potuto raccontare quanto sia bello portarsi dietro tante lingue e trovarne una da cui farsi adottare. Amarla molto, la lingua madre adottiva, sentirsi ricambiata come una bambina che impara. L’innamoramento che vela lo sguardo e rende fiducioso ogni gesto è finito, in questi anni.
Vivo in Italia dal 1983. Ho lasciato la Germania dopo aver terminato il liceo. Nel tempo passato sin d’allora – trentacinque anni – molte ragazze hanno concluso il ciclo che va dalla nascita alla laurea, al primo impiego o addirittura al primo figlio. Di italiano ho: un figlio, un passaporto, un codice fiscale. Ho smesso di scrivere in tedesco sin da quando ho pubblicato Lezioni di tenebra, nel 1997.
Però qualcuno sistema ancora i miei libri nello scaffale della letteratura straniera, qualcun altro s’è lamentato (giuro) che gli editori lavorano così male oggigiorno da omettere l’edizione originale e il nome del traduttore. Qualcuno mi presenta sempre come scrittrice tedesca (o polacca, o polacco-tedesca, o polacco-tedesca d’origine ebraica), anche se non so l’ebraico, pochissimo il polacco e, in tedesco, faccio ormai fatica a scrivere persino un’email. Qualcuno trova gusto a segnalare un errore ortografico come prova che non sappia davvero l’italiano, mentre a un Mariorossi la stessa svista verrebbe imputata come prova di distrazione o d’ignoranza.
Che ci restassi male era frutto della mia ansia da parvenue delle lettere italiane, variante del narcisismo dell’artista. Il problema era mio, non dell’Italia da cui non si poteva pretendere che fosse pronta tutta intera a rendersi conto di non appartenere più soltanto ai Mariorossi. Me lo ripeto anche oggi, però il clima che si respira mi porta a percepire queste sciocchezze come sintomi di poco conto d’una questione assai più seria.
Italiani si nasce – non si diventa. Anzi, non basta neanche nascere in Italia per essere considerati italiani. Lo dimostra l’ostruzionismo feroce e la scarsa premura a superarlo che blocca da anni la nuova legge sulla cittadinanza: una legge che non si propone neanche di sostituire lo ius sanguinis con lo ius soli, ma lo vincola allo ius culturae, vale a dire alla frequentazione d’un ciclo scolastico. Il pregiudizio esplicito è assai più grave di quello implicito, quello che in inglese viene chiamato bias. Il problema è che non sono disgiungibili. Il razzismo nasce da un terreno ricco di pregiudizi latenti che si annidano anche in chi non può essere tacciato di razzismo (o omofobia o maschilismo). Capita che l’irritazione tiri fuori un “frocio”, “puttana”, “negro di merda” alla persona più convinta delle proprie idee progressiste. Certo, quando si è arrabbiati, si dicono cose che non si pensano davvero. Ma in quel momento si sente veramente il bisogno di ferire. E il sentimento è così forte da fornire pronta l’arma delle parole più offensive.
Negli anni Ottanta la presenza di stranieri in Italia era minima, i bambini di colore facevano tanta tenerezza. Predominava un senso d’accoglienza e nel mio caso – dato che venivo dalla favolosa Mitteleuropa che esisteva soprattutto nel catalogo Adelphi – pure una cospicua esterofilia. Poi sono arrivate le ondate migratorie e, con esse, la xenofobia e il razzismo. Nei primi decenni, c’era motivo di sperare che i processi di integrazione avessero attenuato ostilità e paure, cosa che, in parte, è avvenuta fino agli anni recenti, gli anni della crisi che hanno reso il razzismo più incarognito e cristallizzato, e dunque un perno centrale della politica. Oggi “xenofobia” è quasi sempre un eufemismo. Esistono generazioni di ragazzi che sanno parlare e scrivere solo in italiano, ai quali si continua a negare ciò che, di fatto, sono: italiani. Non erano ancora nati o erano piccolissimi, quando cominciai a lavorare a Lezioni di tenebra. Però le leggi scritte e anche quelle non scritte le detta la maggioranza che, in tempi di populismo, pretende d’incarnare il popolo tout court. Per la visione tanto diffusa secondo cui vengono prima gli italiani – quelli di sangue – né a me né a tanti ex studenti delle scuole e università italiane che oggi sono romanzieri poeti e saggisti spetta il diritto d’intendere come nostra la vera patria d’uno scrittore: la lingua in cui s’esprime.
Fossi più giovane, sarei forse tentata di rifare i bagagli. Ma le scelte che vent’anni addietro mi aprirono il futuro, sono oggi diffcilmente reversibili. Qui ho messo radici, qui vorrei restare, in fin dei conti. Così mi sto abituando all’idea che scrivere in questa lingua sia diventato un gesto che si inserisce nel quadro d’un conflitto destinato a durare a lungo e, probabilmente, incrudelire. In questa luce diventa secondario che i miei libri appaiano apparentati a quelli di molti autori con un retroterra nell’Europa centro-orientale e nella storia ebraica. La realtà che conta la determina chi ha il potere di stabilire chi sta dentro e chi sta fuori: sicuramente o soltanto sul piano dell’inclusione simbolica che è poi quella che riguarda la collocazione d’uno scrittore. Un tempo mi chiedevano di Joseph Roth e Elias Canetti, di Walter Benjamin e Hannah Arendt, convinti che li avessi letti in originale, e sottintendendo, se non una filiazione, una particolare vicinanza. Oggi risponderei che non faticherebbero a riconoscersi nelle vicissitudini del rapper romano Fat Negga, al secolo Luca Neves, che nel 2016 ha rischiato l’espulsione a Capo Verde dov’è stato solo una volta, da bambino.
Erano migranti e rifugiati: ostracizzati, detenuti nei campi d’internamento delle nazioni libere, sottoposti a infinite angherie per un visto o un permesso di soggiorno. Alcuni si tolsero la vita. L’impresa di continuare a scrivere in qualsiasi lingua avessero poi scelto, fu faticosa e lacerante persino per i più fortunati e combattivi, come ogni decisione che comporta una rinuncia, un parziale sacrificio. Ho avuto una vita infinitamente più facile e nutro una sincera gratitudine per la benevolenza che ho trovato in Italia. Ma sono figlia di profughi.

Testo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2018/07/06/

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