Non ci stancheremo mai
di ripetere che il fascismo è stato un fenomeno complesso di non
facile interpretazione. Lo dimostra anche questo studio sul giovane
Ungaretti, poeta e giornalista fascistissimo. Forse anche per questo Antonio Gramsci non l'ha mai amato. (fv)
Giuseppe Conte
Giornalista, povero e
fascista: ecco il giovane Ungaretti
Forse, abbagliati dalla
sua energia assoluta di poeta, non pensiamo mai che tra il 1919 e il
1937 Giuseppe Ungaretti esercitò come secondo mestiere, da cui in
realtà trasse il sostentamento economico primario, quello del
giornalista.
Per lui fu tutto diverso
rispetto a Eugenio Montale, che decenni dopo entrò al Corriere della
Sera già uomo maturo, e si fregiò snobisticamente del titolo di
giornalista sino a posporlo al proprio nome e cognome sull'elenco
telefonico della Milano di allora. Per Ungaretti, povero, con
l'esperienza della trincea fatta da umile soldato, la militanza
giornalistica fu un modo per sopravvivere, un mestiere cercato e
accettato con profonde contraddizioni, esercitato tutto su quotidiani
mussoliniani e inneggianti al fascismo, movimento cui in quegli anni
il poeta, digiuno di politica ma animato da una passione culturale e
spirituale fortissima per l'italianità, guardò con favore.
Insomma, la prefazione al
Porto Sepolto di Mussolini, che Ungaretti chiese con una lettera del
5 novembre 1922, e che in seguito dovette tanto nuocergli, non fu un
fatto né casuale né isolato. Possiamo oggi rendercene ben conto
leggendo il libro documentatissimo di Fabio Pierangeli, valoroso
docente all'Università di Tor Vergata, Ombre e presenze, Ungaretti e
il secondo mestiere ,1919-1937, (Loffredo editore, pagg. 219, euro
16,90). Ungaretti comincia la sua attività giornalistica come
corrispondente dal Congresso di Parigi per il Popolo d'Italia. Il suo
primo articolo esce l'11 febbraio 1919, è intitolato «Italia,
Francia, Jugoslavia» ed ha un attacco lapidario: «Ho ancora addosso
i panni di soldato italiano».
La collaborazione con il
giornale diretto da Mussolini va avanti con circa cinquanta pezzi da
cronista. L'adesione alla politica mussoliniana è sincera. Ma questo
tipo di attività giornalistica non fa per il poeta, che in privato,
in una lettera a Giovanni Papini, se ne lagna con queste parole
durissime, un po' teatrali, come doveva essere la sua indole: «Sono
un giornalista; sputami addosso; un giornalista con mille lire al
mese; gridalo; ho dato il culo per mille lire al mese...».
Tornato a Roma nel 1921,
Ungaretti trova un lavoro che ha in ogni caso a che fare con la carte
stampata: è impiegato agli Uffici Stampa del Ministero degli Esteri.
E intanto riprende a collaborare con diverse testate tra cui Lo
spettatore italiano e L'Idea Nazionale, su cui pubblicherà un Elogio
della borghesia, in cui la borghesia appare come quella «nobiltà
del popolo» cui può assurgere per «meriti di cultura, di ingegno,
di volontà» qualunque giovane delle classi più povere.
Importante è la
collaborazione con il Mattino: sulle sue pagine, appare un articolo
che contiene un vasto e articolato programma di espansione della
cultura italiana all'estero, e un altro a proposito della Accademia
d'Italia, che deve esprimere una cultura nuova, nata secondo il poeta
non da un salotto, ma da una rivoluzione di popolo: la lingua
italiana vi è definita «insieme rustica e aulica, divina». Un
altro articolo ancora è intitolato «Il ritorno dell'emigrante», in
cui Ungaretti, emigrante lui stesso, sottolinea la necessità di una
politica economica a favore del popolo e dei lavoratori.
La collaborazione con il
Tevere, giornale diretto dal famigerato Telesio Interlandi, si svolge
soprattutto nel 1929, con ventinove articoli in sostegno di una
cultura dell'azione costruttiva, del bene pubblico, contro quella
della astrattezza e della torre d'avorio. Pierangeli nota la
contraddizione di Ungaretti tra questa posizione per così dire
sociale sostenuta sui giornali e la poesia che man mano va scrivendo,
e che non potrebbe essere più orfica, balenante di lirismo assoluto,
individuale.
Non ammesso all'Accademia
d'Italia, il poeta si era rifatto a Parigi con l'ingresso nel
comitato di redazione della prestigiosissima Nouvelle Revue
Française. A proposito di quest'ultima, Ungaretti deve condurre sul
Tevere con Corrado Pavolini una polemica sulla omosessualità di Gide
e di altri intellettuali francesi vicini alla rivista. La posizione
di Ungaretti, a cospetto dei toni volgari di Pavolini, appare sfumata
e tollerante, degna di chi si era proclamato in una lettera a Papini
come l'uomo «meno provinciale d'Italia».
Sulla Gazzetta del
popolo, tra il 1931 e il 1935, Ungaretti scriverà soprattutto
affascinanti, appaganti articoli di viaggio, su Quadrivio, nella cui
lista dei collaboratori, inaugurata da Luigi Pirandello, lui neppure
figura, farà in tempo e esaltare la romanità ma sostenendo che
anche gli uomini della Rivoluzione francese avevano tratto i loro
modelli dalle virtù dei Romani. Per il fascismo e i giornali di
Interlandi si sta avvicinando la vergognosa svolta razzista.
Ungaretti, questo uomo contraddittorio e libero, in cui persino un
antifascista come Giovanni Ansaldo riconobbe ispirazione,
temperamento, strafottenza, energia, e che Leone Piccioni ci ha
raccontato così bene nelle pagine di una vita, è nel 1937 sulla
nave che lo porta in Brasile: dove inizierà la nobile professione di
docente universitario.
Il Giornale – 16
dicembre 2016
Nessun commento:
Posta un commento