26 luglio 2018

LA VIA E LA VERITA' TAOISTA




     Composto nel IV-III secolo a.C. e divenuto il libro-chiave del taoismo, «Il canone della Via e della Virtù» torna in un’aggiornata edizione filologica con testo a fronte. Fra i suoi appassionati lettori  Ernst Jünger, Carl Gustav Jung, Hermann Hesse, Lev Tolstoj e Simone Weil.
Amina Crisma

Laozi, dimensione politica e natura provocatoria di un classico cinese

«Opera di incomparabile splendore verbale», da annoverare fra le più alte espressioni della sapienza antica di ogni latitudine: così Simone Weil definiva il Laozi o Daodejing, «Classico della Via e della Virtù», o per dir meglio «Classico della Via e della sua Potenza», libro composto nel IV-III secolo a.C. che è assurto a testo canonico per eccellenza del taoismo e che costituisce uno dei più fulgidi contributi della cultura cinese alla letteratura universale.

Fin dall’incipit rivela la forza di un linguaggio enigmatico e paradossale, intessuto di audaci accostamenti di contrari e costantemente indirizzato a misurarsi con l’indicibile: «Senza nome è di Cielo e Terra l’avvio, / ha nome quel che dei Diecimila Esseri è la Madre…». Vi si esprime un pensiero poetante di cui ci sono altre significative testimonianze nella letteratura coeva (come il suggestivo Taiyi sheng shui, “Il Supremo Uno genera l’acqua”, e il breve e folgorante Neiye, “La coltivazione interiore”, del quale ho offerto di recente la prima edizione italiana, Garzanti 2015), ma che nel Laozi si caratterizza per la sua speciale valorizzazione del Femminile: se si vuol dare un nome all’infinita potenza cosmica generatrice, animatrice e armonizzatrice dell’universo, che di per sé eccede ogni definizione e ogni distinzione, la si può chiamare «Madre», «Femmina Oscura».

Molteplici aspetti del Femminile compaiono così nelle 81 stanze ritmate e rimate del Laozi a configurarne il tema centrale: il Dao, ossia il Grande Tutto, l’infinita Processualità in cui convergono le contraddittorie forze presenti nella realtà. È un infinito che per sua natura si sottrae ai limiti del linguaggio, e che dunque si può evocare solo in via apofatica: la sua perpetua e sfuggente coincidentia oppositorum è irrappresentabile, in quanto è al contempo Esserci e Non esserci, Vuoto e Pieno, Silenzio e Parola, Latente e Manifesto, Luminoso e Oscuro, Forma e Informe, Presenza e Assenza, Unità e Molteplicità – altrettante dimensioni simultaneamente affermate e negate in un funambolico gioco espressivo che pervade da cima a fondo tutto il testo.

Non ci può dunque stupire che fra i libri famosi dell’antichità cinese esso sia indubbiamente il più frequentato e amato. Fra i suoi appassionati lettori si contano, fra gli altri, Ernst Jünger, Carl Gustav Jung, Hermann Hesse, Lev Tolstoj e, come s’è detto, Simone Weil; verosimilmente ha costituito persino una fonte occulta per Martin Heidegger. È il testo in assoluto più tradotto al mondo dopo la Bibbia, con versioni in oltre duecentocinquanta lingue, yiddish ed esperanto inclusi, e su di esso è fiorita nel corso del tempo un’immensa letteratura esegetica che continuamente si arricchisce di nuovi apporti; tuttavia, nonostante la molteplicità di interpretazioni a cui ha dato luogo, esso sembra tuttora resistere alla presa, come se quell’insondabile fondo di mistero (xuan) a cui sovente allude – «l’Arcano degli Arcani» che costituisce, come un grembo invisibile e inesauribilmente fecondo, la segreta unità degli esseri e la comune matrice del divenire universale – si irradiasse sulle cinquemila parole che lo compongono, conferendovi una sorta di perdurante inafferrabilità.

Altrettanto enigmatica ed elusiva è la figura dell’autore a cui la tradizione lo attribuisce, Laozi (il «Vecchio Maestro» o il «Vecchio Bambino»), indicato dalla leggenda come l’iniziatore del taoismo e protagonista di tutta una rigogliosa agiografia che lo effigia come un incatturabile drago, che sarebbe vissuto fra il VI e il V secolo a.C., ma del quale in realtà non si sa nulla di certo. Una suggestiva favola, che fra l’altro piacque a Bertolt Brecht, vuole che egli abbia composto l’opera e l’abbia consegnata a un guardiano della frontiera prima di sparire misteriosamente a Occidente: e questa storia conobbe una rinnovata fortuna con l’introduzione del buddhismo in Cina nei primi secoli dell’era volgare, allorché si diffuse la tendenza a presentare il Buddha come Laozi reincarnato.

Propone un rinnovato confronto con quest’opera impervia e affascinante la nuova edizione che compare ora da Einaudi, con testo a fronte, a cura di Attilio Andreini (Laozi, Daodejing Il canone della Via e della Virtù, «PBE Classici», pp. XXXV – 246, € 22,00). Al curatore, che ci ha dato numerosi studi importanti sulla Cina antica, si deve già una fondamentale edizione einaudiana di questo classico apparsa nel 2004, con un ampio saggio introduttivo di Maurizio Scarpari (Laozi, Genesi del Daodejing): un lavoro che si connotava originalmente rispetto alle versioni consuete perché non si atteneva all’ordinamento convenzionale del testo, ma a quello della sua più antica redazione completa finora in nostro possesso, il cosiddetto Laozi di Mawangdui (manoscritto su seta rinvenuto nel 1973, e risalente circa al 200 a.C.). Quella versione era centrata soprattutto sui problemi della formazione dell’opera, riconsiderati alla luce delle ingenti scoperte archeologiche e delle acquisizioni di manoscritti rimasti a lungo ignoti che hanno radicalmente riconfigurato negli ultimi decenni le nostre percezioni e rappresentazioni dell’universo scritturale della Cina pre-imperiale.

L’attuale edizione, invece, pur alimentandosi anch’essa agli esiti delle più recenti ricerche filologiche, sposta risolutamente il proprio accento su una prospettiva filosofica, scegliendo di valorizzare la relazione ermeneutica con il testo a partire dalle sue parole chiave e dai suoi temi ricorrenti, ed emancipandone la lettura dalla questione (non di rado fuorviante) del suo controverso rapporto con quel complesso fenomeno noto con il nome di «taoismo».

L’interprete accompagna passo per passo il lettore alla scoperta della ricchezza non univoca del libro, rifiutando di rifugiarsi in una resa letterale che lo renderebbe astruso e incomprensibile, ed esplicita costantemente il proprio ruolo di mediatore, assumendosene dichiaratamente la responsabilità e procedendo anche, quando gli pare opportuno, a espansioni del testo utili a illuminarne le più sottili implicazioni e i più reconditi significati. Ogni stanza in cui si articola il Daodejing è accompagnata da un fluido commento esplicativo che attinge ampiamente a una vasta letteratura esegetica, fra cui primeggia il riferimento al magistrale commentario al Laozi di cui è autore nel III secolo d.C. Wang Bi, pensatore fra i più originali e creativi di tutta la storia cinese.

Il lettore ha così la possibilità di fare diretta esperienza dell’inesausta fertilità di quelle strategie commentariali del pensiero che, non solo in Cina, hanno rappresentato forme peculiari della sapienza antica: una sapienza che, come hanno sottolineato indimenticabili studi di Werner Jaeger e di Pierre Hadot, anche in Grecia mira a edificare non tanto un’astratta costruzione intellettuale, bensì un’integrale pratica di vita, in cui cosmologia, cura di sé e azione di governo sono ambiti non separati, ma inscindibili e convergenti.

I precetti di autocoltivazione su cui il Laozi insiste si devono intendere come specificamente rivolti al saggio sovrano, e sono sintetizzabili nella formula zhi shen zhi guo, «conferire ordine a se stessi per governare lo stato». La contemplazione del cosmo fa tutt’uno con la trasformazione di sé, e quest’ultima non è orientata a un solipsistico divorzio dal mondo, ma all’assunzione piena del compito e della responsabilità di governarlo che si esplica nella modalità del wuwei, del «non agire», ossia dell’«agire che non forza», che rinuncia all’arroganza antropocentrica dell’umana violenza per porsi in sintonia con la norma suprema dell’armonia cosmica; si attua così un intervento nella realtà non invasivo, non coercitivo, non dettato da secondi fini, che viene restituito alla dimensione più pura dell’abbandono incondizionato e disinteressato, e che da ciò trae la sua suprema efficacia.

Conferendo piena visibilità e completo risalto alla dimensione eminentemente politica e alla natura polemica e financo provocatoria del Laozi, questa edizione di Andreini si riallaccia risolutamente a una cospicua linea esegetica nettamente distante da certe insipide letture correnti che, riducendo questo grande classico alla banalità di un vago misticismo post-moderno, ne fanno l’ennesimo oggetto di facile consumo da offrire all’insaziabile bulimia narcisistica di uno stanco Occidente.

Il manifesto/Alias – 22 aprile 2018

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