Cosa manca o cosa non si è detto? Il caso Moro e la criminalità "servente"
Alessandra Angelucci
Ricordarlo e sapere che per senso di giustizia non sarà mai abbastanza. Un’aura di mistero avvolge ancora molti aspetti di uno dei delitti più cupi della storia italiana.
Tu dov’eri? Ci siamo abituati a scandire il tempo con il dramma e l’iniquità che si fa strada.
Ricordare il 9 maggio 1978 quando, alle 13.30, in via Cateani a Roma, viene rinvenuto il corpo del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse. Giace nell’ormai nota “Renault4”: i numeri, i proiettili, i primi scatti in bianco e nero e la dignità di un uomo che aveva creduto nella nascita di una democrazia senza disparità. Un nuovo Governo Andreotti e per la prima volta con la presenza, fra le rappresentanze politiche, del Partito Comunista Italiano.
Un disegno che metteva al centro la legittimità.
Ricordare la prigionia, i 55 giorni di solitudine, le perizie calligrafiche, la cella del dolore. Scoprirsi nemico in mezzo agli amici, bersaglio facile ridotto a prigioniero. E poi le telefonate, le lettere dell’uomo e del politico e quella volontà di volersene andare in un funerale intimo, senza la presenza delle autorità, seguito soltanto – come scriverà lui stesso – “dai pochi che mi hanno veramente voluto bene”.
Ferreo il controllo su tutto, come nel caso dello scatto che le Brigate Rosse diffondono come prova dell’accaduto: il codice identificativo della prima polaroid viene tagliato con minuzia per evitare ogni possibile collegamento, ma l’immagine è chiara davanti agli occhi di tutti. Aldo Moro guarda in un vuoto indistinto con alle spalle un drappo rosso delle BR.
E poi i depistaggi, i falsi allarmi, il tentativo di una trattativa mai sviluppata, perché il suo destino era già segnato nel primo comunicato. Per questo si continua a scavare anche oggi, ad indagare, a fare inchiesta.
Tu lo sai?
Cosa manca o cosa non si è detto?
Focalizzandosi su un aspetto preciso, tagliente e di certo scomodo, la giornalista Simona Zecchi risponde a questo interrogativo nel suo libro La criminalità servente nel caso Moro, edito da “La nave di Teseo”. Un libro-inchiesta che chiarisce con dovizia di dettagli il ruolo delle mafie durante i cinquantacinque giorni del rapimento.
Fatti inediti e informazioni poco note che danno contezza “dell’incuria o dell’imperterrita attitudine tutta italiana di non volersi accorgere delle evidenze: quelle che contano, quelle che restano”.
Si rimettono insieme i tasselli di un’indagine scandita dal lavoro delle Commissioni, partendo da via Fani fino al giorno dell’epilogo.
Tanti interrogativi cui si dà voce e risposta con prove documentali, per un lavoro giornalistico che non si occupa della complicata dinamica della sparatoria, che pure ha fatto tanto discutere. Al centro dell’inchiesta c’è un altro elemento su cui si concentra tutta l’attenzione: la presenza di un esponente della ’ndrangheta sulla scena del massacro e del sequestro.
Accade infatti che il volto del boss Antonio Nirta, appartenente a un alto grado dell’organizzazione mafiosa calabrese, compare in una fotografia andata perduta e ricomparsa nel gennaio del 2016 sul “Messaggero”. Una immagine contenuta fra le carte del processo Mino Pecorelli, giornalista ucciso il 20 marzo 1979, la cui morte si intreccia con quella di Moro.
Sono passati quarantadue anni e la piramide rovesciata che l’autrice offre nel suo libro merita di essere citata, sottolineando come alcuni dei suoi lavori siano stati acquisiti dalla nuova Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso, istituita nel 2014.
E forse non sarà una casualità, se fra le ultime pagine, in un capitolo che titola “Un futuro compresso”, vengono riportate queste parole pubblicate nel Memoriale Pecorelli: “Perché se la mafia è giunta a interferire nel sequestro dell’uomo che rappresenta il punto di equilibrio del sistema, questo significa che ha deciso di assumere la direzione di quel governo invisibile che da tempo amministra il paese”.
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