Riprendo da un giornale un articolo che fa pensare.
Il vero virus è la città-prigione
di Salvatore
Settis
L’emergenza creata dal rapido
diffondersi del Covid-19 non sarebbe così minacciosa se non si innestasse su un
tessuto planetario ormai determinato dall’indiscriminata espansione delle
città: perché è in città – specialmente nelle più grandi – che il contagio è
più facile e veloce, la mortalità più alta, le strategie di contenimento più
ardue.
A metà Ottocento solo il 3% della
popolazione mondiale viveva in città, oggi questo valore ha raggiunto il 56% e
si avvia a superare il 70% entro i prossimi vent’anni. La città si allarga in
estensione (urban sprawl) e in altezza (vertical sprawl) e lo fa con più
velocità e intensità in Asia e in Africa, specialmente dove manca un “centro
storico”, o dove (come in Cina) si è spesso deciso di distruggerlo, magari
lasciandone qualche residuo fossile, più simile a un theme park che a una
città.
Spesso l’urbanizzazione contribuisce
all’impoverimento di chi, trasferendosi in città, si aspetterebbe una vita
migliore: già oggi un miliardo di esseri umani vivono in bidonville che di
città non meritano nemmeno il nome. Fra la megalopoli e la baraccopoli si è
venuta a creare una perversa contiguità.
L’emergenza virus ci costringe a
riconsiderare questi sviluppi, a cominciare dal rapporto fra città e campagna.
Intanto il più intelligente e visionario cantore della forma urbana
contemporanea, Rem Koolhaas (autore nel 1978 del mirabile Delirious New York),
è diventato un fervente apostolo della campagna. Ma anche la sua grande mostra
(Countryside. A Report), aperta il 20 febbraio 2020 al Guggenheim Museum di New
York, ha dovuto presto chiudere (come tutto il museo) a seguito delle misure
antivirus.
“Oggi la campagna sfugge in gran
parte al (nostro) radar, è un regno sconosciuto” scrive Koolhaas nella pagina
di apertura del catalogo. E continua: “Per molto tempo, dall’Urss agli Usa del
New Deal, ai Paesi europei, alla Cina di Mao la dialettica fra città e campagna
fu essenziale per definire il significato dell’una e dell’altra, mentre oggi
non abbiamo più né una dialettica né una vera definizione.
[…] Tutto il periodo dal 1991 in
poi, è stato invece caratterizzato dalla compiaciuta convinzione che una sola
versione della civiltà – metropolitana, capitalistica, agnostica, occidentale –
sarebbe rimasta, forse per sempre, il solo modello per lo sviluppo del mondo.
Ma questo modello ignorava trasformazioni radicali nel Medio Oriente, in
Africa, Asia, e trascurava totalmente il cambiamento climatico e l’ambiente.
[…] Viviamo entro una prigione che
abbiamo imposto a noi stessi, quella dello spazio urbano, cercando di
nasconderci che dalla vita urbana non c’è da aspettarsi più nulla. […] Ma
davvero ci stiamo indirizzando verso un risultato assurdo, in cui la vasta
maggioranza dell’umanità debba vivere sul 2% della superficie terrestre,
superpopolata dagli spazi propriamente urbani, mentre il restante 98 sarebbe
riservato a un quinto dell’umanità, al servizio di chi vive in città?
[…] In questo 2020, due sfide
emergono in modo lampante: dobbiamo mettere in discussione l’inevitabilità
dell’Urbanizzazione Totale, e la campagna dev’essere riscoperta come un luogo
dove potersi trasferire per restare vivi: una nuova, gioiosa presenza umana
deve rianimarla con nuova immaginazione. […] Può essere il punto di partenza
per vivere in un mondo migliore”.
La ricomposizione dell’originaria
unità città-campagna (configurata dalla nostra Costituzione nell’endiadi
paesaggio-patrimonio storico e artistico) richiede la piena coscienza della
loro necessaria complementarietà e il ripristino, fra l’una e l’altra, di
confini chiari alla mente, ma anche fisicamente percepibili. Questa è dunque
una possibile strategia per immaginare il nostro futuro.
Intanto, sotto la pressione del
contagio anche le nostre città, svuotate dalle misure di contenimento del
Covid-19, sono diventate “un regno sconosciuto”. E in questo regno dove ci
aggiriamo guardinghi non è solo la nostra salute o la nostra vita a esser messa
in forse, lo sono anche i nostri diritti costituzionali. Senza dimenticare che
l’emergenza che stiamo affrontando sarebbe assai meno drammatica se solo non si
fossero fatti sui fondi destinati alla sanità tagli drastici e sconsiderati.
Secondo i conti pubblici
territoriali messi a punto dall’Agenzia per la Coesione territoriale che opera
presso la Presidenza del Consiglio, gli investimenti pubblici in sanità, pari a
3,4 miliardi di euro nel 2010, da allora non hanno fatto che calare, fino a 1,4
miliardi nel 2017, una cifra del 60% più bassa. Il disinvestimento, poi, è
ancor più preoccupante, perché comporta gravissimi squilibri fra le varie
regioni d’Italia, con una concentrazione degli investimenti nelle regioni del
Centro-nord.
È necessaria, dunque, una domanda
ancor più radicale: la segmentazione regionale del SSN (Servizio sanitario
nazionale) non va forse in senso opposto all’articolo 32 della Costituzione,
nel quale si prescrive che il diritto alla salute abbia un identico livello in
tutta Italia? E quando lo stesso articolo 32 parla di “interesse della collettività”,
parla forse delle separate collettività di ciascuna regione o non intende
riferirsi a una sola collettività, quella di chi abita l’Italia intera? Ma
assai più importante è pensare al futuro: ripristinare un adeguato livello di
investimenti in sanità, puntare sulla prevenzione, ridare piena dignità alla
salute di tutti in quanto parte essenziale della dignità della persona umana
consacrata dalla Costituzione.
Anche perché la morsa del contagio
rende più che mai evidente che nessun essere umano è un’isola non solo dal
punto di vista affettivo, ma anche per la propria fisicità e corporeità, a cui
solo la morte pone fine. Nessuno al mondo è oggi in condizione di prevedere il
decorso della pandemia. Dato e non concesso che in Italia la curva del contagio
cominci a scendere in modo significativo e che sia possibile tornare alle
nostre attività lavorative, che cosa ci assicura che non vi saranno altre
esplosioni del contagio nei prossimi sei, dodici o diciotto mesi?
Il sollievo che proveremo alla fine
delle “zone rosse” ci farà dimenticare tutto, tornando alla condizione di beata
(o stolta) incoscienza che ci ha fatto subire senza fiatare la riduzione dei
finanziamenti di settore? Ma se vogliamo davvero adottare uno sguardo
lungimirante (dal quale troppo spesso rifugge una politique politicienne
prigioniera di orizzonti temporali assai corti) la decisiva misura contro le
pandemie del futuro è ripensare la forma della città, il suo rapporto con la
campagna.
Arrestare la cementificazione dei
suoli agricoli, governare la crescita urbana anche mediante misurate azioni di
riciclo (o anche abbattimento) di edifici abbandonati, contrastare il
diffondersi dei ghetti urbani mediante accorte politiche dell’abitare,
scoraggiare il moltiplicarsi di quartieri o edifici superaffollati,
privilegiare la diversità urbana e le caratteristiche uniche dei centri
storici, tutelare l’ambiente e il paesaggio storico come pegno vivente di una
vita urbana che non intenda divorziare dalla natura.
È su temi come questi che dovremmo,
fuori dall’emergenza e pensando al futuro, concentrare la nostra mente e la
nostra discussione. Come gli ateniesi a cui parlava Pericle, se dall’esperienza
della pandemia ci verrà una qualche saggezza, dovremo saper “giudicare delle
cose di generale interesse ponderandole nel nostro animo e discutendone
collegialmente; infatti, il dibattito è necessario per meglio formarsi
un’opinione prima di decidere il da farsi”.
da “il Fatto Quotidiano”, 7 maggio
2020
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