Al mercato palermitano di Ballarò, a proposito di mascherine, si osserva con malizia: i livaru ai cani e li misiru a li cristiani (le hanno tolte ai cani per metterle alle persone).
Ma, scherzi a parte, sulle mascherine, oltre alla speculazione commerciale ancora in corso, malgrado le buone intenzioni del Commissario Arcuri, e alle ordinanze assurde di alcuni Sindaci-Sceriffi, è in corso un dibattito che vogliamo riprendere con un articolo ben argomentato. (fv)
MASCHERINE TRA SALVEZZA, SUPERSTIZIONE E ICONOGRAFIA
Piero Bassetti , 15 maggio 2020
La mascherina è di destra o di sinistra? Negli Stati Uniti i democratici ne fanno segno di distinzione rispetto a Donald Trump, sempre sprovvistone. In Italia Conte la evita, ed è stato contestato dai banchi dell’opposizione quando ha iniziato uno dei suoi discorsi privo della protezione. Di Maio la ostenta tricolore, Salvini è andato a corrente alternata fino a che ha optato per gli occhiali, e gli tocca non appannarli. Orban è stato tra i primi a imporle, ma non esiste foto che lo immortali col volto coperto. La Merkel ne fa esibizione parca, Macron tende allo zero.
È molto raro che nelle circostanze in cui vengono fotografati i leader politici siano in pericolo di contagio. Normalmente sono a distanza di sicurezza e presumibilmente il loro staff baderà anche ad assicurarsi che non dimentichino le regole d’igiene. La mascherina, dunque, ha in quei casi un valore comunicativo. Il caso americano viene esemplificato come la disfida tra l’attenzione responsabile alla salute pubblica e alla collettività (i democratici) e l’individualismo fiero e sprezzante (Trump). In realtà, la scelta di esporre o meno la mascherina è una strategia comunicativa complessa: chi la espone evidenzia la sua sottomissione alle esigenze collettive e la sua affidabilità, ma al tempo stesso può essere percepito come fragile e riduce l’espressività del volto, che è una componente essenziale della retorica persuasiva; chi non la indossa manifesta invulnerabilità, coraggio, fiducia nel futuro e tuttavia lo si potrebbe individuare come poco consapevole e meno immerso nella realtà. Anche gli influencer e i vip su Instagram, che al momento degli scatti fotografici hanno più possibilità di essere pugnalati alle spalle che infettati dal Covid, si trovano dinanzi al dilemma: adottare un messaggio del tipo siamo tutti sulla stessa barca (con il benefit ulteriore di propagandarlo come esempio civico per i fan) o uno del genere ragazzi #andràtuttobene (che mantiene quel filo di distanza su cui si reggono l’adorazione e il sogno dell’emulazione)? E i più optano per un colpo al cerchio e uno alla botte.
La mascherina è in questo momento un tema tanto sensibile che le sue impressioni sul pubblico filtrano da sotto come aerosol, e contribuiscono effettivamente a determinare la percezione che esso si costruisce interiormente in proposito. Il personaggio pubblico con (o senza) la mascherina non comunica solo qualcosa di sé ma anche qualcosa del suo spettatore. Che messaggio, dunque, è responsabile che passi?
È inevitabile entrare un attimo nel merito della questione di merito, dando per scontata la classificazione tra i vari tipi di mascherina che i lettori certamente avranno appreso dalle migliaia di articoli apparsi al riguardo. Ai più sarà noto anche il permanere di una stranezza; mentre ci si accapiglia sulla mancata distribuzione di un numero congruo di mascherine, il punto di vista dell’Organizzazione Mondiale della Sanità rimane quello medesimo espresso dall’inizio della pandemia: le mascherine non servono alle persone sane ma agli ospedalieri e ai malati. Non ne viene quindi consigliato l’uso.
Dopo poche settimane, a tale posizione affermata scientificamente se ne è contrapposta una di buon senso: ma, se la mascherina chirurgica non protegge me che la indosso, però protegge gli altri da me – e considerato che il virus può essere asintomatico e il suo portatore ignorare di averlo contratto – perché non metterci tutti le mascherine, così ci proteggiamo l’un l’altro? Sulla base di questo ragionamento, i governatori locali hanno collocato la mascherina al centro della comunicazione e dell’amministrazione emergenziale. Regolarmente si mostrano mascherati (Fontana cominciò con particolare precocità) mentre il responsabile della Protezione Civile ostenta il suo volto sgombro e insiste sulla sostanziale inutilità. La normativa, in modo più o meno uniforme, la rende adesso obbligatoria nei contesti di maggior contatto (fabbriche, trasporti, esercizi commerciali) e qualche volta la estende a contesti meno specifici e persino all’aperto.
Perché mai l’OMS, intanto, non ha rivisto il suo verdetto? Cosa non funziona nel ragionamento di proteggersi vicendevolmente? Le controindicazioni opposte sono due.
La prima è la ristretta disponibilità delle mascherine. Un rifornimento generalizzato, sproporzionato del resto rispetto all’utilità, le sottrarrebbe ai luoghi nei quali possono effettivamente decidere non solo della diffusione del contagio ma pure della vita o della morte.
La seconda è l’effetto di falsa protezione. Si teme che la mascherina renda le persone troppo sicure, inducendole a trascurare le vere difese dal contagio, ovvero il mantenimento di una distanza di sicurezza e l’attenta pulizia e igienizzazione delle mani. Anche l’approssimazione nell’utilizzo o l’eccesso dell’uso possono essere falsamente protettivi, e anzi ribaltarsi nel loro opposto. D’altronde, le mascherine che filtrano verso l’esterno non sembrano efficaci contro l’aerosol; e ogni mascherina lascia scoperti punti per i quali può passare il contagio, come gli occhi.
Possiamo amareggiarci perché l’intero sistema industriale non si mostra in grado di riconvertire o incrementare la produzione in modo da soddisfare il fabbisogno; o perché è paternalistico dubitare della capacità di discernimento delle persone. Ma questi sono i fatti: anche la questione della falsa protezione, della quale si rende conto empiricamente chiunque percorra qualche centinaio di metri in una città e incrocia gruppetti di gente attaccata, forte di quel talismano sulla faccia.
Torniamo al profilo comunicativo e alla responsabilità dei politici e della stampa. Fare della mascherina il nucleo iconico della difesa dal Covid è pericoloso.
Se infatti seguiamo la logica che i messaggi devono essere chiari, netti e non contenere più di quel che è essenziale, la mascherina distoglie l’attenzione. Dire: lavati le mani, tieni la distanza e mettiti la mascherina è già troppo per persone abituate alla condensazione dei testi. La mascherina dovrebbe retrocedere al terzo gradino della comunicazione. Cioè, la gerarchia dovrebbe essere: tieni la distanza, lavati le mani e solo dove è necessario indossa la mascherina. Ho la sensazione che nel successo mediatico della mascherina, a dispetto delle indicazioni scientifiche, militi proprio che è un oggetto facile (tranne che da reperire): facile da portare per la persona comune, da esibire per il personaggio pubblico, facile per coprire responsabilità reali (le morti nelle strutture sanitarie e la scarsità di risorse protettive per i medici quale veicolo di contagio e fattore di morte per i medici stessi) con altre immaginarie (grazie che cresce il contagio, guardata la foto, c’è gente che gira in strada senza mascherine. È vero, a volte si assembrano: ma il problema lì è che non si dovrebbero assembrare, con o senza mascherine).
Con troppa disinvoltura la mascherina si sta allargando dai luoghi in cui forse è salvifica (e siccome forse lo è, è giusto ricorrevi) a tutti gli altri, ed in particolare alla strada. Alcuni governatori hanno giustificato lo smottamento in nome della rassicurazione che procura nella gente, ma non mi pare una considerazione profonda. Se si fa appello alla responsabilità delle persone non bisogna spingerle alla superstizione. E se c’è qualcosa che genera una straniante insicurezza è esattamente vedersi circondati all’aperto di persone mascherate. Fra l’altro, non è difficile prevedere (qualche episodio si è già verificato) che il difetto di riconoscibilità creerà presto problemi di criminalità. Era quel che si era opposto al velo dei musulmani, che veniva pure considerato un’inaccettabile lesione dei nostri codici di interazione.
La mascherina per strada (che poi in tutto il mondo la chiamano come la maschera normale: mask, masque…) non verrà mai introiettata dal singolo come il segnale che siamo brave persone cooperanti: verrà metabolizzato che il prossimo è qualcuno da cui difendersi e nel medio periodo è difficile che la percezione resti confinato al campo della malattia.
Ci sono modi immediati di considerare le ricadute del Covid sull’economia: tot giorni di chiusura tot fatturato in meno. Ma una persona che cede a una fobia di contagio (vorrei ricordare che sulla relativa impossibilità di trasmettere il Covid incrociandosi per strada c’è convergenza scientifica e che in Scandinavia guardano come un marziano chi si aggira mascherato) tenderà a ragionare allo stesso modo – cioè con paure irrazionali – in molte situazioni collegate a un acquisto (no, dovrei toccare il pacco, no dovrei sfiorare quando passo…). Non è poi solo questione di economia: è proprio che nascondere il volto, e la sua disponibilità all’accoglienza modulata dall’espressività della parte inferiore, cancella un tratto della nostra identità culturale, della nostra civiltà; non è il caso di abusarne oltre il necessario, infliggendo questa mutazione mutilante anche allo sguardo dei bambini.
Per questo, tra tutte le immagini pubbliche che ho visto, ho preferito una di Macron (al momento purtroppo irreperibile), che lo mostra con la faccia libera in uno spazio aperto e nel quale è chiaro il suo distanziamento, ma è anche evidente dal movimento delle braccia larghe che si sta rivolgendo a qualcuno; intanto alle sue spalle, un corazziere – dunque un soggetto identificato come scudo dalla folla – indossa la mascherina. Il modello suggerito da Macron è che il nostro sforzo deve essere rivolto a organizzare il nostro posto nello spazio. È così che possiamo vivere nella fiducia oggi e tornare ad unirci domani. Ed è un’indicazione per l’individuo come per il sistema sociale.
Poi c’è chi si contenta di darsi il gomito oppure indossare mascherine griffate o paradossali, ricorrendo dunque a banali emoticon strategies: compensare i deficit della distanza fisica con l’iconografia burlesca, come si fa con lo smartphone.
In questi giorni mi capita spesso di pensare a quella bellissima poesia di Giorgio Caproni:
Il mare brucia le maschere
Le incendia il fuoco del sale
Uomini pieni di maschere
Avvampano sul litorale
Tu sola potrai resistere
nel rogo del carnevale.
Tu sola che senza maschere
nascondi l’arte d’esistere.
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