LA PUNIZIONE DELLE DONNE AI TEMPI DI SILVIA ROMANO
di Nicoletta Vallorani
In principio, la storia era personale: un puntiglio soggettivo condiviso ai tempi dei social.
Nel maggio del 2019, partendo da un pezzo pubblicato proprio su Le parole e le cose (“Negli interstizi della storia”),
mi sono incaponita a destinare un post ogni venerdì al sequestro di
Silvia Romano. Era una piccola impresa individuale, e qualcuno mi ha
seguita. La vedevo anche come una opportunità. A prescindere
dall’obbiettiva urgenza di una vicenda che sembrava coinvolgerci tutti,
volevo un’occasione per dialogare su due questioni fondamentali, nodi
dolenti che nascono dal fatto specifico, ma che lo trascendono, a volte
sfuggendo drammaticamente di mano, come stanno dimostrando, a me pare, i
fatti. Ora come allora, nel fulmineo rapimento di una volontaria – una
persona ben specifica, con passioni, sogni, ingenuità ideali del tutto
suoi – si annidava la possibilità di riflettere su due questioni
collettive, che, nel tempo lungo di questo sequestro, sono diventate
sempre più importanti e angolose.
La prima è la responsabilità della
comunità: quasi tutti i miei post facevano riferimento a questo, con una
chiave specifica, che poi spiegherò. La sintesi semplificata del nostro
dolore stava nel fatto che una comunità allargata e, dentro essa, in
cerchi concentrici, le comunità sempre più piccole degli affetti più
intimi di Silvia, pativano una lacerazione e non sapevano – nel tempo
lungo di cui sopra – se prepararsi a un lutto o coltivare una speranza.
Mi pareva, mentre scrivevo i miei post, che dovessimo essere uniti e
mostrare empatia. E ricordare che la volontaria rapita era un membro
della nostra comunità, e dunque valeva la pena di spendersi.
La seconda questione è, invece, che
significa indossare un corpo di donna: perché di una giovane donna
parliamo, e di come essa appariva e appare. La sua immagine,
intrappolata in due circostanze difficili da leggere (sequestro e
liberazione), diventa un corpo-segno che è stato letto a vanvera, prima e
dopo, come un crittogramma senza codice.
Per chiarezza: io non scrivo questo
pezzo per difendere la persona, per la quale nel tempo ho sviluppato una
forma di affetto e rispetto, ma che non conosco e della quale so quello
che tutti sappiamo, e anzi un po’ meno: non ho la ormai diffusa
propensione di tanti al voyeurismo che la comunicazione globalizzata, se
usata senza cervello, determina. Difendo piuttosto la convinzione che
si debba essere comunità soprattutto in circostanze come queste. E
sostengo che spesso, quando ci si trasforma da un insieme solidale in un
branco di lupi, l’odio più insopportabile e bestiale si orienta verso
le donne e verso il loro corpo. E questo è poi sempre uno dei miei
argomenti: quanto sia difficile, cioè, essere donne, qui e ora, in un
mondo occidentale che si dice liberato e che invece è pericolosissimo
per quell’insolita creatura che è la femmina dotata di autonomia
decisionale.
Perciò cominciamo da qui, da questo
preciso momento nel tempo – il sequestro di Silvia Romano e la sua
liberazione – per sollevare la questione di come debba comportarsi una
comunità solidale in queste circostanze, allo scopo di prendersi cura di
un suo membro vulnerabile. “Cura – scrive la filosofa Federica Timeto,
nel suo Dizionario per lo Chthulucene (2019) – è rispetto e
respons-abilità”. Intesa in questo modo, e sulle orme di Donna Haraway,
la respons-abilità – usando un neologismo straordinariamente efficace –
diventa la capacità di rispondere a un mondo complesso e a situazioni
critiche, che prescindono dalla centralità dell’uomo nell’universo.
Rispondere è una operazione complicata,
almeno se non si esaurisce nella recita di frasi fatte. Credo che per
fornire una risposta pertinente bisogna prima capire le domande e
posizionarle contro un orizzonte ampio, che non può essere solo
soggettivo, nazionalista, di classe, di genere, di religione o comunque
ammanettato al modello di recita come sostituto del discorso
intelligente. “Think we must”, scrive ancora Donna Haraway, offrendo uno
strumento antico e dimenticato alla risoluzione del garbuglio di
necessità istituzionali, azioni diplomatiche, solidarietà diffuse e
legami che ogni situazione “urgente” richiama. Il pensiero è la capacità
di intessere relazioni tra concetti diversi. Il male, per converso, è
la tensione semplificata verso il pensiero unico. Il male è banale,
scrive Hannah Arendt, e lo è perché in esso il ragionamento si ferma
alla superficie delle cose, è autoreferenziale ed egoriferito. Ignora,
ora e per sempre, qualunque procedimento di relazione. Poiché la
relazione è difficile, pericolosa, mobile, e cangiante. Essa esclude
ogni posizione rigida e non si lascia intrappolare da proiezioni,
ragionamenti preventivi, previsioni, profezie, mitologie consolidate e
arroganze assortite.
E si fa almeno in due, come il gioco della matassa, collaborando reciprocamente.
Quindi, nello specifico della vicenda di
cui sto parlando, come funziona questo ragionamento? Come comunità,
avevamo delle aspettative. Pur non conoscendo la volontaria rapita,
abbiamo radunato informazioni e raccolto spunti dalle informazioni
disseminate sul web. Silvia si è costruita, in questi 18 mesi, come
un’immagine familiare, si è sdoppiata in un fantasma che viveva nella
dozzina di foto pubblicate in modo ossessivo sul web. Quella era la volontaria,
ovvero l’immagine stereotipica e semplificata di una giovane donna
dedita al bene. Nulla di diverso era considerabile.
Poi è tornata una persona, e non l’incarnazione di un immaginario che la comunità aveva (distrattamente) coltivato per 18 mesi.
La persona vera è risultata “diversa”,
perché proprio in quanto vera, essa replica la complessità
dell’esistente, non si adegua alle regole dell’immaginario. Risentita e
oltraggiata, la comunità ha deciso di vendicarsi, per paura di doversi
assumere la “respons-abilità” di una reazione differente,
problematizzata, difficile. Abbiamo preferito, collettivamente, un
pensiero che procede in linea retta, esibendo un patriarcato che
conosciamo contro un altro del quale possediamo una fantasia tutta
occidentale. Tanto per esserne consapevoli, il fondamento degli insulti
che sono stati rivolti a Silvia Romano al suo rientro sta in un’idea di
Oriente monologica, monocratica e semplificata: ancora, come scriveva
Edward Said nel 1978, in Orientalism, non siamo in grado di
capire che quell’immagine dell’Oriente è stata costruita sulle
narrazioni di viaggiatori occidentali, e le sfumature, le complessità,
le differenze, si son perse sulla via del ritorno e dentro una ideologia
che coloniale lo è ancora.
La conoscenza è complessità. Se si rinuncia a capirlo, si commettono tragici errori di valutazione.
Si produce per esempio il paradosso di
una giovane donna che è stata prigioniera per un anno e mezzo in un
territorio molto pericoloso e quando finalmente torna a casa sana e
salva, ha bisogno di una scorta. L’aspetto grottesco di tutto ciò è
anche molto cinico, e tuttavia penso che sia necessario esplicitarlo: se
fosse tornata senza vita, come Giulio Regeni, l’Italia lo avrebbe
sopportato meglio, e avrebbe cominciato il lento e inesorabile lavoro
della rimozione. Così è più complicato: non si può pensare in una sola
direzione, bisogna articolare un ragionamento, sviluppare una
respons-abilità, “ripristinare le maglie dell’armonia”, come scrive
Timeto in una definizione che io trovo bellissima.
Abbiamo avuto altre chances per
farlo: le “due Simone” in Iraq, nel 2004; Giuliana Sgrena, sempre in
Iraq, nel 2005; Greta Ramelli e Vanessa Marzullo in Sira nel 2014. In
queste situazioni (e probabilmente in molte altre che non conosco), la
coesione della comunità al momento del rapimento e durante la detenzione
mi pare sia stata assoluta, e lo sfilacciamento all’atto del rientro
ugualmente incontestabile. Ed è significativo che in tutti questi casi,
il corpo sequestrato e dissequestrato fosse quello di una donna. Non
credo che la cosa sia ininfluente nel canalizzare i discorsi che si sono
fatti, e lo dimostrano gli insulti intollerabili che, oggi come allora,
vengono rivolti alla donna liberata: essi sono, in 9 casi su 10, di
natura sessuale.
Forse è corretto – sebbene molto triste –
pensare che, per le donne, i tempi non siano mai davvero cambiati. E
forse va notato come, anche ora e in questa circostanza, il corpo della
donna – il segno-principe di una eventuale divergenza colpevole – occupi
il centro della scena. E in verità, perché esso sia notato, non occorre
essere sequestrate: basta muoversi in direzioni potentemente o
timidamente insolite. Le trecce di Greta Thurnberg, la maglietta senza
reggiseno sotto di Carola Rackete, i capelli in disordine di Giovanna
Botteri, i vestiti sgargianti di Teresa Bellanova, e infine, il velo
islamico di Silvia Romano (con tutte le confusioni filologiche che ne
derivano: Igiaba Scego ci insegna che non è, come è stato presentato,
l’abito tradizionale delle donne somale) sono tutte tracce inquietanti. E
lo sono perché c’è sempre qualcosa che non va nelle donne indipendenti,
sempre qualcosa di “fastidioso” nel loro corpo.
Il corpo è un segno, e questo va bene, è
normale, è indiscutibile: ma bisogna conoscerne l’alfabeto per
decodificarne il messaggio, altrimenti sbagliare è fatale. Il corpo è un
costrutto socioculturale, come scrive Peter Brook, perciò sarebbe
utile, prima di parlare, avere competenze sul contesto sociale e
culturale al quale quel corpo, in circostanze specifiche, spesso non
aggirabili (come nel caso di un sequestro), si è dovuto adattare. Il
corpo, in condizioni non costrittive, si lega a un’identità, ma la
relazione è fluida e dialogica, ed è molto rischioso trarre conclusioni
affrettate al primo sguardo. Il corpo non può essere normato in
partenza, sulla base dell’appartenenza di genere, perché questa è una
operazione costrittiva, semplificatoria e alla fine illegittima.
Per tutte queste ragioni, e per altre
ancora, il corpo delle donne naviga in acque tempestose, soprattutto se
la donna che lo indossa è indocile, e dunque disturba. E il punto sta
proprio in questa convinzione che si debba, come donne, essere di
necessità bisognose di protezione e vulnerabili. In realtà, non siamo
fragili, ma ci vogliono far credere tali, come già scrivevo nel maggio
del 2019, a sequestro ancora recente. E a volte ci adeguiamo tacitamente
a essere tali, per non divenire “streghe”.
In un articolo del 1972, Susan Sontag
scrive: “Le donne hanno un’altra scelta. Possono aspirare a essere
sagge, e non semplicemente gentili; a essere competenti, e non
semplicemente utili; a essere forti, e non semplicemente graziose; ad
avere delle ambizioni per se stesse e non semplicemente in relazione a
uomini o figli”. La cosa non è facile. Lo aveva spiegato nel 2004 Silvia
Federici, col suo Calibano e la strega, e, con parole e
materiali diversi, Mona Chollet, in un volume recentissimo, espone il
catalogo di una caccia alle streghe mai finita (Streghe. Storie di donne indomabili dai roghi medievali a #MeToo,
2019). È dentro questo volume che trovo la strada per chiudere in
cerchio il mio ragionamento. In tempi che si dicono meno “illuminati”,
una delle “prove” cui veniva sottoposta la donna accusata di stregoneria
consisteva nel gettarla in uno specchio d’acqua, legata e zavorrata.
Se non tornava a galla, era innocente.
Se tornava a galla era una strega, e quindi doveva essere giustiziata.
Moriva in ogni caso. La sua esistenza sarebbe stata sbagliata comunque.
Facciamoci qualche domanda su quanto le cose siano cambiate da allora, simbolicamente e pragmaticamente.
articolo ripreso da http://www.leparoleelecose.it/?p=38368
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