Epurazione
di Italo Calvino
Aggrappati ai parafanghi degli ultimi camions tedeschi, hanno fatto perdere le loro tracce alcuni dei professionisti del recentissimo terrore neo; sperano forse, trasferendosi in zone sconosciute, di sfuggire all’immancabile giustizia.
Altri ci hanno succeduto nei nascondigli e nelle tane: rimedio provvisorio anche quello, poiché le speranze che sostenevano noi, mancano del tutto a loro. Altri infine hanno già pagato il fio delle loro colpe e – riguardo ad essi – la partita è chiusa.
Resta, del vasto, troppo vasto meccanismo fascista di ieri, la massa amorfa di quelli che non sono scappati né si sono nascosti, oppure, nascostisi i primi giorni, visto che “tutto era calmo” sono tornati fuori. E’ la massa di quelli che “non hanno fatto niente di male”, di quelli che “se no morivano di fame”, di quelli che “prima c’erano ma poi quand’hanno visto, ecc…” , di quelli che c’erano ma hanno sempre aiutato i patrioti” e così via. E, in mezzo a loro, un notevole aumento di ex-squadristi, ex-spie, ex-tedescofili, ex-spettatori dell’arma nuova che passeggiano indisturbati e magari, nei giorni festivi, coprono le slabbrature fatte all’occhiello dal distintivo con una coccardina o un garofanetto.
Passeggiassero soltanto, non rappresenterebbero che una visione sgradevole ai nostri occhi, una ittitazione al nostro sistema nervoso, Il guaio è che non hanno ancora abbandonato le cariche e i posti che ricoprivano, su nomina e per meriti fascisti.
E l’epurazione?
L’epurazione, ci si risponde, è cosa difficile, delicata e, per necessità, lenta. Non si precipitino le cose: prima o poi tutti i nodi verranno al pettine.
Interpretando il sentimento delle masse popolari il P.C.I. ritiene indispensabile per il bene del paese che l’epurazione sia fatta COMPLETAMENTE e SUBITO.
COMPLETAMENTE perché non possiamo, nell’immane lavoro di ricostruzione morale e materiale che ci attende trascinarci dietro pesi morti e ostili che continuerebbero ai nostri danni un sabotaggio attivo o passivo di cui già in certi ambienti locali abbiamo cominciato a subodorare l’esistenza. Fatti come lo scandalo della fuga di Roatta da Roma nel febbraio scorso ci dicono chiaramente come le forze reazionarie-fasciste continuino a operare nascostamente, ove non si provveda a una severa epurazione, estesa a tutte le pubbliche istituzioni. La resistenza dei residui fascisti ha fini manifestamente antinazionali: mira a gettare sull’Italia il discredito, a determinare condizioni di scontentezza, di disagio materiale e morale, tali da per mettere il risorgere di velleità imperialistico-irredentistiche e con esse il ritorno al potere di cricche fascisteggianti. Nei tafferugli avvenuti in questi giorni a Roma per la delicatissima questione triestina, vediamo ancora la quinta colonna fascista all’opera. Con manifestazioni di piazza fuor di proposito si tenta di stornare dall’Italia la stima che il mondo le tributa oggi per le vittorie dei patrioti nell’Italia settentrionale.
SUBITO va fatta l’epurazione, perché se vogliamo cominciare a ricostruire bisogna
– come disse il compagno Togliatti – “bruciare i ponti col passato”. Non possiamo riedificare che su nuove fondamenta, abbiamo bisogno di vederci attorno, in tutti i campi, un ambiente rinnovato ed entusiasta. Quello che oggi è facile, domani potrà essere difficile. Bisogna evitare che le cricche reazionarie, asserragliate nelle pubbliche istituzioni, si organizzino per la resistenza, come pattelle che si attaccano allo scoglio se non si è lesti a staccarle. Bisogna evitare che dette cricche usino della compiacenza di qualche partito dalle vedute incerte per rientrare nell’agone politico, e servano a sleali interessi conservatori per controbilanciare le forze a danno naturalmente delle aspirazioni delle classi lavoratrici.
Nelle amministrazioni provinciali e comunali coprono ancora cariche direttive persone notevolmente compromesse col passato regime che si fanno scudo d’una pretesa apolitica delle loro mansioni. Non v’è apoliticità che tenga: chi ha bazzicato fino adesso coi pezzi grossi del germanesimo o del brigantaggio nero non creda che siano cambiati solo i titolari delle ditta. Altri, – mentre egli sedeva in poltrona tranquillo e invulnerabile – piuttosto che collaborare con la oppressione hanno preferito sottoporre se stessi e le proprie famiglie a tutte le sofferenze.
Ora è giunta l’ora di quello che i fascisti chiamavano il cambio della guardia.
Anche riguardo agli organismi d’ordine pubblico si sente parlare d’apoliticità: cosa assurda in un regime che aveva tutte le sue fondamenta nella polizia. Qui non basta cambiare i dirigenti, qui c’è tutto da rifare!
Ed ancora rimangono alle cattedre di istituti scolastici insegnanti che fino all’ultimo avevano dalle stesse cattedre fatta professione della più settaria fascistofilia. Verrà a questi stessi insegnanti dato il compito di rifare una coscienza politica alla nostra disorientata gioventù?
E quegli ufficiali del più inglorioso esercito che mai si vide, quei repubblichini che fino a ieri godettero di stipendi favolosi e di una immunità senza limiti, pretenderanno di potere – come ora possono girare indisturbati – entrare domani a far parte del nuovo esercito dell’Italia libera?
Questo per le istituzioni pubbliche. Ma anche va riveduta la posizione di molti imprenditori privati che erano riusciti con intrighi politici ad ottenere monopoli locali, forniture lucrose; di molti profittatori che hanno fatto i milioni collaborando coi tedeschi e hanno negato le migliaia di lire ai partigiani.
Nè certi squadristi che si danno arie di martiri perché sono stati guardiafili, credano che i misfatti recenti abbiano fatto dimenticare gli antichi. Bisogna risalire alle cause. Chi per primo marciò, manganello alla mano, contro i diritti della classe operaia, ha le più gravi responsabilità della rovina del paese. Non è più il tempo dello idialliaco luglio ‘43 in cui ci si chiedeva se i delitti degli squadristi non erano caduti in proscrizione. Giustizia dev’esser fatta al più presto di tutti i crimini commessi 25 anni fa, come si sta facendo dei recenti.
Solo quando avremo depennato con striscie di sangue tutti i nomi delle liste nere, potremo cominciare la parte positiva del nostro cammino.
“Non pronunciamo parole d’odio, né chiediamo vendetta – ha detto Togliatti – ma soltanto giustizia per il popolo italiano. Noi chiediamo che vengano puniti i responsabili della catastrofe”.
NdR: il testo di Italo Calvino che precede è tratto dal volume “Italo Calvino, Il partigiano Santiago”, di Daniela Cassini e Sarah Clarke Loiacono (con contributi di Vittorio Detassis, Massimo Novelli e Manuela Ormea), appena pubblicato da Fusta Editore, con il sostegno dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, I.S.R.E.C.Im.). Pubblicato su “La Nostra Lotta” (Anno I – N. 4; Sanremo, 7 maggio 1945), organo del PCI di Sanremo, diretto da Lodovico Luigi Millo (Calvino era condirettore), fino a questo momento non era stato ripubblicato nella sua interezza.
L’immagine rappresenta un messaggio fatto pervenire dallo scrittore ai genitori durante la sua clandestinità.
Questa la presentazione del libro del risvolto:
cento anni dalla nascita di Italo Calvino era doveroso
ritessere la trama intorno alla esperienza
diretta e vitale da lui vissuta nella Resistenza, che
si svolse nei suoi boschi e nel suo paesaggio e che
poi lo accompagnerà per sempre, come dimostra
l’insieme delle sue opere.
Alla lotta di Liberazione Calvino diede un contributo
originale come narratore, testimone e
interprete che lo solleva senz’altro ai vertici della
letteratura nazionale della Resistenza, con Beppe
Fenoglio, Cesare Pavese, Elio Vittorini, Primo Levi
e Luigi Meneghello.
In questo libro antologico vengono evocate le sue
parole perfette, la sua capacità di cogliere il reale
e insieme la visione, nella ricerca costante del
senso “di ciò che appare e scompare”.
Questo percorso di memoria parte dalle pubblicazioni
fondamentali sulla storia della Resistenza
nella I Zona Liguria, dai preziosi documenti originali
dell’Archivio Storico dell’Istituto Storico della
Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia,
dai fervidi giornali della Resistenza e della Liberazione
a cui Italo Calvino collaborò come giovane
giornalista, cronista e curatore della stampa
partigiana e dalla riproposizione dei suoi articoli.
Arriva in ne ai documenti unici e inediti dell’Archivio
privato Giacometti-Loiacono, che svelano
nuovi elementi di questa storia appassionata di
giovani partigiani e partigiane attraverso racconti,
poesie, lettere, appunti… e che raccontano
una ricchezza di esperienze e di vite tra il Ponente
ligure, Sanremo, il Piemonte e Torino, il mondo».
Documenti, fotogra e, scritti d’archivio, approfondimenti,
inediti a corredo dell’opera raccontano
di giovani vite, storie politiche e umane della
generazione degli anni di cili, scorci di biogra e
che parlano di impegno per la libertà e la giustizia,
per l’a ermazione di una civiltà progredita
dal punto di vista politico, sociale, economico,
culturale.
E qui di seguito l’introduzione del volume:
SE IN UN GIORNO D’APRILE UNO SCRITTORE
Italo Calvino: militante, testimone, interprete della Resistenza sanremese.
di Daniela Cassini e Vittorio Detassis
Non sono molti i passi del primo romanzo di Calvino in cui l’autore abbandona il consueto iter narrativo, tra picaresco e fiabesco, di Pin e dei suoi compagni di ventura per inoltrarsi in una meditata riflessione sulle motivazioni profonde, a un tempo esistenziali ed etico-politiche, della Resistenza armata. Tra questi passi il più esplicito e ragionato è là dove il commissario Kim spiega ai compagni la differenza tra loro e noi, tra fascisti e partigiani. Per concludere infine: questo, nient’altro che questo è la storia.
“Quel peso di male” dice Kim “che grava sugli uomini del Dritto, quel peso che grava su tutti noi, su me, su te, quel furore antico che è in tutti noi, e che si sfoga in spari, in nemici uccisi, è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto. Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra. Da noi, niente va perduto, nessun gesto, nessuno sparo, pur uguale al loro, m’intendi? uguale al loro, va perduto, tutto servirà se non a liberare noi, a liberare i nostri figli, a costruire un’umanità senza più rabbia, serena, in cui si possa non essere cattivi. L’altra è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori, perduti e inutili anche se vincessero, perché non fanno storia, non servono a liberare ma a ripetere e perpetuare quel furore e quell’odio, finché dopo altri venti o cento o mille anni si tornerebbe così, noi e loro, a combattere con lo stesso odio anonimo negli occhi e pur sempre, forse senza saperlo, noi per redimercene, loro per restarne schiavi. Questo è il significato della lotta, il significato vero, totale, al di là dei vari significati ufficiali. Una spinta di riscatto umano, elementare, anonimo, da tutte le nostre umiliazioni: per l’operaio dal suo sfruttamento, per il contadino dalla sua ignoranza, per il piccolo borghese dalle sue inibizioni, per il paria dalla sua corruzione. Io credo che il nostro lavoro politico sia questo, utilizzare anche la nostra miseria umana, utilizzarla contro sé stessa, per la nostra redenzione, così come i fascisti utilizzano la miseria per perpetuare la miseria, e l’uomo contro l’uomo.” (Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Milano Oscar Mondadori, 2022, pag. 106).
A cento anni dalla nascita dello scrittore era doveroso ritessere una trama intorno alla esperienza diretta e vitale da lui vissuta nella Resistenza, che si svolse nei suoi boschi e nel suo paesaggio e che poi lo accompagnerà per sempre, come dimostra l’insieme delle sue opere.
Alla lotta di Liberazione Calvino diede un contributo originale come narratore, testimone e interprete che lo solleva senz’altro ai vertici della letteratura nazionale della Resistenza, con Beppe Fenoglio, Cesare Pavese, Elio Vittorini, Primo Levi e Luigi Meneghello.
In questo libro antologico vengono evocate le sue parole perfette, la sua capacità di cogliere il reale e insieme la visione, nella ricerca costante del senso “di ciò che appare e scompare”.
Questo percorso di memoria viene inquadrato partendo dalle pubblicazioni fondamentali sulla storia della Resistenza nella I Zona Liguria, dai preziosi documenti originali dell’Archivio Storico dell’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea di Imperia, dai fervidi giornali della Resistenza e della Liberazione a cui Italo Calvino collaborò come giovane giornalista, cronista e curatore della stampa partigiana e dalla riproposizione dei suoi articoli.
Per arrivare ai documenti unici e inediti dell’Archivio privato Giacometti-Loiacono, che svelano nuovi elementi di questa storia appassionata di giovani partigiani e partigiane attraverso racconti, poesie, lettere, appunti… e che raccontano una ricchezza di esperienze e di vite tra il Ponente ligure, Sanremo, il Piemonte e Torino, il mondo.
Calvino inizia il suo viaggio di uomo e di scrittore dalla narrazione non agiografica di quell’ Epopea dell’esercito scalzo che lo àncora a ideali e valori della Resistenza, in una rara coerenza intellettuale e morale.
Fattosi scrittore dallo sguardo etico, come lo definisce Francesco Biamonti, intellettuale impegnato, curioso e complesso, militante del dubbio e della continua proiezione verso un cambiamento possibile, per Calvino era stata centrale da subito, nell’inquieto e problematico dopoguerra, la questione dell’engagement, e cioè dell’impegno politico degli scrittori, posta con forza all’attenzione degli intellettuali antifascisti da Jean Paul Sartre così come da altri noti autori quali André Malraux e Albert Camus in Francia, George Orwell e Bertrand Russell in Inghilterra, Thomas Mann e Bertolt Brecht in Germania, Alberto Moravia e Pierpaolo Pasolini in Italia, per citare solo alcuni degli intellettuali più prestigiosi di quell’epoca.
L’osservazione del “lancinante mondo umano”, la cui prima scoperta avvenne proprio con la partecipazione alla Resistenza, continuerà sempre nel corso della sua vita e della sua scrittura anche se da una posizione più defilata ma cosciente e responsabile, in una ricerca continua di “fili da dipanare e cose da guardare”.
Sin dagli esordi di scrittore, la dimensione entro cui Calvino si muove concede poco al colore locale. L’ambiente naturale è ostensivamente realistico e puntualmente riconoscibile così come il labirintico contesto urbano della Sanremo Vecchia, la Pigna, con i suoi carrugi e cortili avari e a un tempo avidi di luce e calore solare, così come pure la dolente umanità dei suoi abitanti, razza di miserabili votati al magaiu, al frantoio o alla fornicazione.
A ben vedere, l’infanzia di Pin assomiglia forse più a quella di Rosso Malpelo che a quella dell’Ivan di Tarkovskij, ma c’è, per Pin, la via di fuga, la strada di San Giovanni, il Sentiero dei nidi di ragno, la montagna tutta da scalare della Resistenza.
In alto, sui lenti crinali inondati di luce, quasi magicamente sospeso a un invisibile raggio di sole, volteggia irraggiungibile il falco. Più sotto, a tiro di schioppo, ruota pigramente il corvo. Ma tu, tu non t’ingannare. Tu, imberbe soldato tedesco o imberbe partigiano di Pigna, non chiederti per chi suona la campana. Essa suona pur sempre per te.
Pezzo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2023/04/25/il-partigiano-santiago/
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