“ORGANIZZARE IL PESSIMISMO”
W. BENJAMIN e A. GRAMSCI
W. Benjamin (1892-1940) e Antonio Gramsci (1891-1937) hanno vissuto e si sono formati nello stesso tragico periodo storico compreso tra la prima guerra mondiale e l'avvento del nazifascismo. I due grandi autori non si sono mai incontrati e non si sono conosciuti. Ma entrambi, malgrado la loro diversa formazione culturale e le loro diverse esperienze di vita, ci hanno lasciato delle opere, in gran parte incompiute, che hanno tanti punti di contatto e una profonda anima comune.
Entrambi hanno salutato con entusiasmo lo scoppio della grande rivoluzione russa del 1917 e i primi anni di vita dell'Unione Sovietica che hanno fatto circolare nel mondo intero la speranza dell'avvento di una società più giusta e libera.
Ma non appena in Italia e Germania, con l'avvento del fascismo, si spensero quelle speranze, Benjamin e Gramsci cominciarono a riflettere sulle ragioni della loro sconfitta. Così, per vie e modi diversi, si posero il problema di “organizzare il pessimismo”, per usare una espressione dell'ebreo tedesco.
In un suo articolo degli anni trenta Benjamin scrive:
“Pessimismo assoluto. Sfiducia nella sorte della letteratura, sfiducia nella sorte della libertà, sfiducia nella sorte dell'umanità europea, ma soprattutto sfiducia, sfiducia e sfiducia verso ogni forma di intesa: tra le classi, tra i popoli, tra i singoli. […]. Ma allora che fare? […] organizzare il pessimismo non significa altro che allontanare dalla poliica la metafora morale, e scoprire nello spazio dell'azione politica lo spazio pienamente immaginale” (Aura e choc, p. 332)
Ma la sfiducia di Benjamin non è rassegnazione e capitolazione di fronte alla forza brutale del nemico. Benjamin sa che letteratura, arte e morale sono spesso un inganno creato dalle classi dominanti per addomesticare le classi subalterne. E, non avendo rinnegato i principi del pensiero di K. Marx, Benjamin non rinuncia a lottare per “abbattere l'egemonia intellettuale della borghesia”. (ibidem)
Lo “spazio immaginale”, cui fa riferimento, si conquista a fatica, attraverso lo sguardo dialettico “che riconosce il quotidiano come impenetrabile e l'impenetrabile come quotidiano” (ivi, p.331). Lavorando pazientemente, anche sui frammenti di resistenza al fascismo, Benjamin, sorretto dalla sua fede messianica, continua a credere nella possibilità che ogni punto del mondo e ogni momento racchiuda la chance salvifica.
Cos'altro è il “pessimismo dell'intelligenza” invocato invocato più volte da Gramsci nelle sue Lettere e nei Quaderni del carcere? Si potrebbe obiettare che il sardo è del tutto privo della speranza messianica che sosterrà fino all'ultimo il critico comunista tedesco. Ma se da un lato è vero che Gramsci non condivide la fede religiosa di Benjamin, dall'altro appare evidente che lo spirito dialettico del sardo non è meno acuto di quello del tedesco. Gramsci ha saputo maneggiare benissimo la dialettica hegeliana. Basti qui ricordare due note centrali dei suoi Quaderni: quella in cui analizza i rapporti tra REALTA' e POSSIBILITA' e quella in cui riflette sulla STORICITA' della FILOSOFIA DELLA PRASSI (nome con cui designa il pensiero critico di K. Marx).
Anche Gramsci, malgrado il suo pessimismo, ha lasciato sempre una porta aperta alla possibilità dell'impossibile. Gramsci, fin da giovane, si è attrezzato ad “organizzare il pessimismo”, per questo è riuscito sempre a tenere legati tra loro il “pessimismo dell' intelligenza” all' “ottimismo della volontà”.
Insomma, con una piccola forzatura, mi sembra legittimo pensare che sia Walter Benjamin che Antonio Gramsci, seppure in modi diversi, hanno creduto nella possibilità della resurrezione.
Francesco Virga, Eredità dissipate. Gramsci Pasolini Sciascia, Diogene Multimedia, Bologna 2022, pp. 78-79
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