2. I dolci inganni delle monache di clausura
di Maria Oliveri
La pasticceria conventuale nasce in Sicilia nei monasteri femminili di clausura: qui l’arte di far dolci trova la sua massima espressione.
In città, al tempo di Giovanni Meli, c’erano ben 21 monasteri dove le monache si dedicavano alla preparazione e alla vendita di manicaretti. Questa consuetudine non era nata da principio per fini commerciali, ma piuttosto era stata dettata dall’esigenza delle religiose di ingraziarsi il confessore o di contraccambiare in maniera elegante i favori di un benefattore o di un alto prelato; successivamente tale pratica era diventata una importante fonte di sostentamento per il monastero.
Nobili e sovrani si rivolgevano ai monasteri per avere sulle loro tavole i golosi dolcetti impastati dalle manine delle monache: mani fatte solo per pregare e per sgranare rosari.
Tra le austere e possenti mura dei monasteri di Palermo, tutti di strettissima clausura papale, vigevano il rigore e la disciplina. Lavoro e preghiera scandivano le giornate, senza lasciare alcuno spazio all’ozio, nemico della virtù; soltanto nell’arte di far dolci le religiose potevano dare sfogo a tutta la loro creatività.
Molte monache, entrate in convento alla tenera età di cinque o sei anni, isolate dal mondo e dalle sue tentazioni, mantenevano intatto il loro spirito fanciullesco, la straordinaria capacità di trasformare tutto in gioco, di stupirsi e di stupire, di sorridere e far sorridere con burle innocenti.
Eccocome sono nate probabilmente alcune delle più note leccornie palermitane: la frutta martorana, i cannoli, il panino di Santa Caterina, le ossa dei morti, le fedde del cancelliere, le minni di virgini, i moscardini.
Immaginate i sorrisi trattenuti a stento dalle monachelle, che attraverso le grate del convento benedettino fondato dalla nobildonna Eloisa Martorana, si divertono a spiare il re che ammira il loro giardino di agrumi e che si congratula con la madre superiora perché è l’unico, fuori stagione, ad avere alberi colmi di frutti.
“Chissà se si accorgerà della burla, che faccia farà? Cosa dirà? Gradirà la sorpresa? Ne riderà di gusto?” Tante domande si affollano nelle menti di ognuna di loro. Il re si china, raccoglie un limone dalla buccia lucida, ne annusa l’aroma e rimane di stucco: non profuma di zagara ma di mandorle e miele! Che mistero è mai questo?.
“Assaggiatelo maestà!” invita la voce suadente della madre superiora.
Il re intacca con i denti la superficie croccante, sotto cui si trova un cuore morbido e dolce. Non riesce a trattenere un sospiro di piacere, prima di dare al dolcetto un altro morso. Rimane stupito, incredulo, sopraffatto… dal dolce inganno delle religiose e si complimenta con la superiora, per quel dolce squisito che sembra impastato dalle mani degli angeli.
“Questi fruttini di mandorla e miele sono stati realizzati in vostro onore, maestà”. Ammette compiaciuta la madre superiora.
“Sono dolci degni di un re, sono proprio regali…Potremmo chiamarla Pasta reale!” Consiglia il Gran Cancelliere, che non vede l’ora di assaggiarne uno.
Anche il cannolo, secondo la tradizione, sarebbe nato da uno scherzo carnevalesco da parte delle moniali del monastero della Badia Nuova (nei pressi della Cattedrale ) che si divertivano a far fuoriuscire crema di ricotta al posto dell’acqua dal rubinetto (in siciliano appunto cannedda o cannolo) di una fontanella.
E che dire delle ossa dei morti, tipici per la ricorrenza dei defunti, che riproducevano le ossa scheletrite del corpo umano? O del panino di Santa Caterina? Una piccola pagnotta (grande quanto la mano di una monachella) cotta in forno dalle nobili domenicane del monastero di S.Caterina d’Alessandria, il 25 Novembre, in onore della festa della Santa: calda e dorata, sembrava pronta per essere condita con olio, pepe e formaggio e invece era un dolce impasto di mandorle e zuccata.
Dolci assai curiosi erano poi, per la loro forma di parti del corpo umano,le irriverenti feddi del Cancillieri” (“fedde” che in dialetto palermitano significa natiche), preparate nel monastero del Cancelliere, in Via Celso; i “moscardini”, biscotti alla cannella che avevano la forma di un dito grosso ed erano confezionati per il “festino” di Santa Rosalia dalle benedettine del monastero della Concezione al Capo; le impudiche “minne di vergini", realizzate nel monastero delle Vergini, presso la salita Castellana, con frolla ripiena di ricotta, a forma di seno e con tanto di ciliegina candita a mo’ di capezzolo.
Anche dietro alle burle innocenti si celava forse però un significato più profondo. Probabilmente anche attraverso gli scherzi, fatti col cuore allegro di un bambino, le religiose volevano trasmettere in maniera semplice e intuitiva un grande ammonimento:
“Badate che l’apparenza delle cose inganna! Non guardate alla forma, ma alla sostanza! Non credete a quello che percepiscono i vostri sensi ma cercate di comprendere il mondo con gli occhi del cuore e della mente”.
MARIA OLIVERI
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