Il grembo materno della nazione
Quando Giorgia Meloni ha tirato fuori dal cilindro quel grido che all’apparenza sarebbe potuto sembrare perfino banale: “Sono una donna, sono una madre, sono cristiana”, è assai probabile che alla scelta di quella parola lì, madre, nella furia mediatica derivante da un consenso che cresceva in modo vertiginoso, non si sia prestata l’attenzione necessaria. Una volta ricevuto l’incarico di formare il governo, il presidente del consiglio si è premurata quasi subito di spiegare che non vuole abolire né modificare la 194, ma “applicarla integralmente anche nella parte che riguarda la prevenzione”. Tuttavia, una volta esaurita la fascinazione innegabile della spinta propulsiva emancipatoria della “prima donna al comando”, è ben più che probabile che si passi all’incasso della seconda definizione. Che, ad approfondirla, non può che portare alla luce le radici nefaste quanto solide di una cultura politica identitaria ben nota. A fornirle argomentazioni strumentali c’è da tempo la frenesia con cui le destre cugine d’Europa, da quelle dell’Est alla Vox spagnola, agitano lo spettro dell'”inverno demografico”. La propaganda che si diffonde sulla “prevenzione” delle minacce contro l’amor patrio, la famiglia e, soprattutto, la desolante discesa negli abissi delle nascite serve a sostenere uno degli architravi della politica patriarcale e dell’oppressione di genere. La “soluzione” avanzata un po’ ovunque delle destre estreme è quella di sempre: alle donne spetta il ruolo della riproduzione. Nuria Alabao riflette sulla retorica delle destre europee e racconta assai bene la crescita dell’etno-nazionalismo in Spagna, dove Vox sta facendo del “suicidio demografico” un’arma tanto potente da lasciar credere di poter essere contrastato solo da un esercito di grembi materni. Grembi che vanno spinti a difendere, come un sol uomo, gli interessi superiori dello Stato e l’identità della nazione
Nel suo intervento sulla mozione di censura al governo, Ramón Tamames, (anziano storico, ex militante del Partito comunista spagnolo e oggi candidato a premier dalla destra estrema di Vox, ndt), ha citato il “suicidio demografico” e il “problema della bassissima fecondità” per poi ripartirne le colpe: “Gran parte del femminismo radicale è contro una maggiore natalità”. In un precedente articolo ho spiegato come la demografia sia diventata un’arma potente nelle mani dell’estrema destra, dove il calo della natalità si combina con l’etnonazionalismo per generare autentici terrori identitari che promuovono la xenofobia e il razzismo. La proposta natalista fa convergere l’agenda contro i migranti e l’antifemminismo, perché cerca di ripristinare il ruolo che il nazionalismo ha tradizionalmente assegnato alle donne come riproduttrici della nazione. Prima si crea il panico del “rimpiazzo della popolazione” con migranti o musulmani, poi si propone la soluzione: che le donne autoctone – bianche – si mettano a partorire e ad allevare figli. Fosse per loro, in modo obbligatorio. È chiaramente la risposta ai tentativi di limitare l’aborto.
Il genere e la sessualità hanno sempre svolto un ruolo centrale nella costruzione della nazione. Storicamente, gli Stati sono intervenuti attivamente nella pianificazione familiare, nella creazione di eteronormatività e nella promozione di forme di lavoro basate sul genere, come spiega la storica Ulla Wikander. Quello che apprendiamo dalla storia è che ogni volta che si è invocata una “crisi demografica” – come dopo le due guerre mondiali – si è sempre cercato di risolverla rafforzando il ruolo di badanti delle donne, mettendole a fare figli – a riprodurre mano d’opera, in termini marxisti. Dopo le guerre, fu necessario sostituire gli uomini che morti al fronte, così, dopo la Prima, furono poste limitazioni all’occupazione delle donne in tutta Europa. Mentre dopo la Seconda guerra mondiale il patto keynesiano-fordista si basava sul salario familiare, almeno per le donne della classe media. In altre parole, il lavoratore doveva guadagnare quanto basta per mantenere moglie e figli promuovendo il ruolo femminile di angeli del focolare.
Molte autrici hanno sottolineato i legami storici tra l’imperialismo, la costruzione della nazione e la creazione di ordini specifici di genere, con le relative restrizioni sessuali: chi può e non può riprodursi, e a quale ritmo. Ma anche le pratiche non destinate a questa riproduzione vanno penalizzate. Quindi, in molti Paesi dove sono forti le nuove estreme destre più radicali – come nell’Europa dell’Est – è stata rilanciata anche una nuova crociata contro le persone LGTIBQ+. (Mentre nell’Europa occidentale gli argomenti utili sarebbero piuttosto che la loro relativa accettazione sociale è un segno della nostra superiorità nazionale, rispetto ad altre culture “più arretrate”). Se l’omosessualità presupponeva tradizionalmente una minaccia di “indebolimento” dell’essere nazionale o un pericolo per gli eserciti, le donne hanno svolto sempre un ruolo importante nella costruzione delle identità nazionali: “Da un lato come simboli della nazione, incarnandone i principi, dall’altro, nel loro ruolo di madri, trasmettendo cultura e valori alla generazione successiva, oltre a riprodurre biologicamente il gruppo”, secondo la sociologa Umut Erel .
A molti di noi questi discorsi potrebbero sembrare argomentazioni d’altri tempi, ma oggi sono invece molto presenti nella retorica delle estreme destre in Europa. Queste preoccupazioni demografiche generano l’immaginario di un continente in pericolo, assediato dal multiculturalismo e dal femminismo rappresentati come ideologia totalitaria – il “femminismo suprematista” secondo Vox. L’attuale presidente dell’Ungheria, signora Katalin Novák, di Fidesz, il partito di estrema destra al governo, ha affermato per esempio che le donne non dovrebbero “competere” con gli uomini, né credere di dover guadagnare tanto quanto loro, bensì potenziare le loro capacità “innate” di caregiver e che poter partorire è un “privilegio” a cui non si deve rinunciare in nome di una mal interpretata lotta per l’emancipazione. Queste affermazioni servivano a giustificare le politiche familiste anti-egualitarie che il Paese sta promuovendo.
Da parte sua, Vladimir Putin, a cinque mesi dall’inizio della guerra in Ucraina, ha proposto di ripristinare un premio stalinista per la maternità – la Madre Eroina – che offre circa dodicimila euro alle donne che abbiano dieci o più figli. La logica propagandistica è simile ai premi di maternità franchisti. I suoi appelli a superare la “crisi demografica” della Russia risalgono in realtà al primo discorso inaugurale nel 2000; qualche anno dopo, iniziava a parlare della missione storica della Russia nella difesa dei “valori tradizionali”.
Politiche familiste
Nell’Europa dell’Est e in Russia, i governi nazionalisti di estrema destra stanno promuovendo misure di promozione delle nascite, anche se con risultati poco significativi e inconcludenti, nonostante la propaganda statale. Sebbene si dica che le politiche di trasferimento del reddito e simili possano stimolare i tassi di fertilità, in nessuno di questi paesi si percepiscono cambiamenti radicali. Di fatto, neppure Svezia, Danimarca e Norvegia, pur avendo alcuni dei sistemi di welfare più estesi al mondo, raggiungono il tasso di sostituzione naturale della popolazione – 2,1 figli per donna –. È probabile che queste politiche non raggiungano l’obiettivo dichiarato di aumento della natalità, ma di certo le loro conseguenze vanno oltre. Sono pensate per ri-moralizzare la società e rafforzare il ruolo del matrimonio eterosessuale con ruoli differenziati e orientati alla riproduzione. L’esempio più evidente è quello della politica di prestito preferenziale dell’Ungheria, destinato alle coppie sposate che soddisfino determinati requisiti – che la donna sia in età riproduttiva e che per almeno uno dei due sposi si tratti del primo matrimonio, tra gli altri requisiti. Criteri che pretendono di modellare le relazioni affettive. Il prestito arriva a 24.500 euro e il suo rimborso viene sospeso per tre anni con la nascita del primo figlio, se poi nasce un secondo il debito viene condonato del 30% e viene interamente saldato dopo il terzo figlio. Ma se la coppia divorzia oppure non ha figli prima del quinto anniversario del matrimonio, il sostegno diventa un peso: il prestito va restituito con gli interessi di mercato, anche per gli anni in cui il pagamento era stato sospeso. Le persone in difficoltà economiche, insomma, saranno costrette ad avere più figli di quanto desiderino.
In Spagna, Vox afferma di ispirarsi a queste politiche per la stesura del suo vago programma di “promozione della famiglia”. Più che vago, per la verità, quel programma è un assoluto brindisi al sole che dice “sostieni la maternità e la conciliazione familiare”, propone aiuti diretti progressivi per il numero dei figli, agevolazioni fiscali per le famiglie numerose – sempre regressive -, o prestiti a tasso zero alle giovani coppie. A Vox non nascondono il loro obiettivo: “Dare dignità e premiare la decisione di uno dei genitori di dedicarsi esclusivamente alla cura e all’educazione dei propri figli”. Questo programma, che mira a rafforzare il ruolo delle donne in casa, verrebbe promosso nello stesso momento in cui le tasse fossero abbassate in modo generalizzato – e qui si dovrebbe aggiungere qualche risata preregistrata –. Nello stesso documento, e con le stesse giustificazioni, queste politiche familiste sono accompagnate da tentativi di restrizione dei diritti riproduttivi e delle migrazioni. È il pacchetto completo dell’“inverno demografico”.
C’è un dibattito aperto sugli aiuti per avere figli, ma, sebbene in origine fossero conservatori – durante il primo franchismo, in Spagna, quello era praticamente il solo “stato sociale” esistente -, oggi quegli aiuti hanno scarso effetto sulle decisioni riproduttive delle donne. Non ce l’hanno certo, almeno nell’Europa occidentale, dove il tasso di partecipazione femminile all’occupazione è elevato. La situazione cambia un po’ nei luoghi dove c’è maggiore disuguaglianza, come in molti paesi dell’Est. Tuttavia, sembra che essi producano risultati positivi, soprattutto quando questi aiuti sono universali, perché, più che rafforzare il ruolo delle donne in casa, contribuiscono a combattere la povertà infantile. Per quanta propaganda possa fare Vox, le donne non staranno a casa per poche centinaia di euro al mese – l’aiuto attuale è di cento euro e non può ottenerlo chiunque – né decideranno di avere altri figli. Sono solo chiacchiere.
Riproduzione sì, ma non per tutti
Le misure di sostegno alla maternità proposte sono appena cerotti nel panorama di fondo neoliberista, che ha contratto le risorse destinate a socializzare – in qualche modo – la riproduzione sociale, che è stata mercificata, per chi può pagarla, e privatizzata – restituita invece al focolare domestico – per quelli che non possono farlo, dice Nancy Fraser. Questa mercificazione è stata fatta sulle spalle e sulle mani delle donne migranti. Sì, quelle donne che con gli “elevati tassi di natalità” minacciano la nazione bianca nella Teoria della Grande Sostituzione e in altre simili elucubrazioni. Oggi queste donne che lavorano sono essenziali per le famiglie della classe media europea, per esempio nella cura dei bambini e degli anziani, ma allo stesso tempo vengono loro negati i diritti come donne che lavorano e la possibilità di crescere i propri figli in condizioni dignitose. Glielo impediscono sia le leggi restrittive sull’immigrazione – molte volte non possono nemmeno portarli in Europa – sia la mancanza di diritti sul lavoro.
Da un lato, si propongono aiuti perché determinate donne abbiano o crescano figli, dall’altro le leggi sull’immigrazione o le politiche di incarcerazione di massa limitano la capacità delle persone povere o migranti di avere e prendersi cura dei propri, come spiega Sophia Siddiqui, o addirittura vengono prese misure che sottraggono ingiustamente l’affidamento dei figli, misure che fanno parte del razzismo istituzionale esistente e della mancanza di affermazione dei diritti. Di recente è stato reso pubblico il caso di una madre, migrante di 23 anni, a cui è stata revocata la custodia della figlia perché l’aveva lasciata una sola notte per andare a lavorare. Non aveva nessuno che si potesse prender cura di lei e non poteva permettersi di pagare qualcuno che lo facesse. Così ha perso il lavoro e, per ora, anche la figlia. Se una famiglia accoglie una bambina nella sua casa, riceve tra i 400 e i 750 euro al mese per quell’incarico; la madre in difficoltà invece non ha diritto a niente, perché non ha i documenti, per esempio, da quando la sua domanda di asilo è stata respinta. Il sistema, pensato per “proteggere” i bambini, li separa dalle madri sull’altare del loro stesso bene. In questo caso, alcune possono ricevere aiuto per crescere i figli di altre persone, mentre altre non hanno il diritto di mantenere i propri.
Non partoriremo per nessuno Stato
Spesso si spiega che, secondo i sondaggi, le giovani donne vorrebbero avere più figli di quanti finiscono per averne. Sembrerebbe un’eventualità probabile, oggi, qualora i lavori fossero più stabili, pagati meglio e lasciassero più tempo per la cura. Lo sarebbe, forse, se i prezzi delle case fossero più abbordabili e ci fossero più spazi di socializzazione della genitorialità, ad esempio asili nido aperti 24 ore su 24, come chiedevano le femministe degli anni Settanta. Eppure, affidare tutto alle “condizioni” si rivela un presupposto falso: dietro la decisione di non avere figli non sempre ci sono la carenza di mezzi o condizioni di vita difficili, molte donne non li vogliono e basta. Il dibattito non viene mai affrontato dal punto di vista della libertà, afferma Estefanía Molina. Non sempre quella scelta è una conseguenza delle condizioni economiche, capita che semplicemente non vogliamo per altri, diversi motivi, alcuni dei quali sarebbero sicuramente descritti come “frivoli” da abascales (Santiago Abascal è il presidente di Vox, ndt) e gente simile. Per essere felici o avere una vita significativa, le donne non hanno bisogno di avere figli, e certamente non decideranno di farne per risolvere la presunta “crisi demografica”. Non c’è alcuna crisi, ma qualora ci fosse la sua soluzione non potrebbe ricadere sul grembo delle donne. Il femminismo di emancipazione può essere solo quello che non è allineato con il fronte natalista, maternalista o patriottico.
Aumentare le risorse facendo in modo che avere figli non debba essere un inferno – sia con il reddito di base universale che con altri trasferimenti diretti di reddito, così come offrire forme di lavoro meno invasive e capaci di annichilire la vita – dovrebbe essere una questione di giustizia riproduttiva, non una politica per la massima gloria dello Stato. Qualsiasi tipo di aiuto alla riproduzione o alla crescita venga attuato, tuttavia, esso dovrebbe certamente essere del tutto estraneo al rafforzamento di un certo tipo di famiglia – di normatività eterosessuale o patriarcale –, come invece propongono le estreme destre. (I sostegni di carattere universale sono più emancipatori dal punto di vista femminista perché, non essendo condizionati, non possono imporre certe visioni morali, né rafforzare l’istituto familiare, possono dunque consentire legami affettivi in modo più libero. Nemmeno il rapporto biologico con la prole dovrebbe essere una premessa necessaria. E naturalmente le donne migranti, a prescindere dal loro status, dovrebbero poter accedere a quegli stessi diritti. Dipende solo da noi, dal femminismo, dalla società organizzata e dall’immaginazione e dalla creatività di cui saremo capaci di fare un lavoro di cambiamento della cultura affinché le donne non siano mai più messe sotto pressione per avere figli, o dal compito di generare spazi affettivi – famiglie scelte – che allontanino la solitudine e generino modi di prendersi cura delle persone al di là della famiglia biologica.
Fonte e versione originale in spagnolo: Cxtx
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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