IL SOL DELL'AVVENIRE di Nanni
Moretti
Sono più di 40 anni che il cinema di Nanni Moretti ci coinvolge e ci emoziona perché racconta e ritorna sempre a raccontare, ostinatamente e sinceramente, i fantasmi concreti dell'inadeguatezza individuale e della catastrofe socio-culturale. Ma senza vittimismo, senza indulgenze, anzi con uno humour acre e stridente che investe anzitutto se stesso, grande clown nevrotico, maniacale ed egocentrico, al centro della scena. Dal "Caimano" (2006), Moretti aveva perlopiù preferito dissimularsi sotto altre maschere (il mediocre produttore Bonomo, il papa depresso Melville etc.) ma con "Il sol dell'avvenire" (2023) ritorna nei suoi panni trasparenti di regista di un film da farsi, un dispositivo felliniano. Se in passato Moretti attaccava il degrado italiano facendo nomi e cognomi (il corruttore Berlusconi, D'Alema che non dice cose di sinistra perché non è mai stato veramente di sinistra etc.), oggi, 2023, il presente nostrano è talmente degenerato e repellente che se ne può parlare soltanto in modo molto indiretto, attraverso il filtro di un film ambientato nel 1956 ma non in un momento qualsiasi, bensì in quel frangente fatidico (la repressione sovietica in Ungheria) in cui la Sinistra avrebbe potuto diventare quello che non è mai diventata, ha peccato di viltà e di sudditanza. Quindi un momento storico luttuoso, di fallimento epocale che rimanda indirettamente all'orrendo, fetido presente del primo anno dell'Italia melonista. Una catastrofe che Moretti racconta chiudendosi sul piano individuale (abbandonato dalla moglie, deluso dalla figlia, ingannato dal produttore, in crisi come regista etc.) facendo contemporaneamente il punto sulla società dello spettacolo (la globalizzazione di Netflix, la banalizzazione della violenza stile Gomorra) e reagendo a tutto questo, sfiorando la disperazione (il cappio del film nel film) ma trovando la forza di reagire, con la musica, con il suo acre humour, con una salutare e disperata voglia di vivere, nonostante tutto e tutti.
ROBERTO CHIESI
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