La prendo alla lontana.
Uno dei segni (piccolo, in questo caso, ma
significativo) del fatto che l'università abbia rinunciato ad una buona parte
della sua anima sta nell'aver buttato il libretto cartaceo nel cestino della
spazzatura. Quell'elemento reale, fisicamente tangibile, era occasione di un
doppio 'contatto' con lo/a studente/ssa in carne e ossa, sia prima che dopo
l'esame. Prima, perché permetteva di coglierne le origini e forse un po' anche
la storia; dopo, perché al momento della firma permetteva di congedarsi
"da vicino" e in maniera non burocratizzata.
Quando mi capitava qualche studente o studentessa che
proveniva da Tricarico, in Lucania, l'esame cominciava sempre con uno scambio
su Rocco Scotellaro, il poeta-contadino, nonché sindaco, di Tricarico, amico di
Carlo Levi, di cui oggi ricorrono i cento anni dalla nascita.
In ogni occasione in cui impediamo ai tesori del passato di emergere, non solo neghiamo il "bisogno di radicamento" degli esseri umani, che Simone Weil considerava il più essenziale e il più misconosciuto, ma produciamo una ferita che si riverbera sul nostro futuro.
Cento anni sono trascorsi dal 19
aprile 1923, giorno in cui nacque Rocco Scotellaro.
La sua vita iniziò a Tricarico, un
piccolo borgo dell’alta Lucania che si affaccia sulla vallata del fiume
Basento.
Intensa fu la sua esperienza
biografica, seppur breve. Nel 1953, a soli trent’anni, fu stroncato
improvvisamente da un infarto, lasciando tutti fortemente sgomenti.
Scrittore, poeta e politico
italiano, animò il Meridione italiano – principalmente la Basilicata – con il
suo attivismo politico e poetico.
Nacque da una famiglia molto
povera: suo padre era un ciabattino, mentre sua madre era una sarta –
casalinga. Nonostante le ristrettezze economiche e le difficoltà che si
incontravano quotidianamente per sopravvivere, Rocco Scotellaro ebbe la
possibilità di studiare, fino al raggiungimento della maturità classica.
Come si evince dai suoi scritti,
Rocco ha sempre mantenuto un legame indissolubile e intenso con il suo piccolo
paese, con le sue strade, con la sua casa.
Durante gli anni che lo condussero
lontano da quella familiarità natale, soffrì molto. Tuttavia, ha sempre avuto
piena consapevolezza – seppur dolorosa – dell’atmosfera pesante e avvelenata
del suo piccolo borgo contadino, delle superbie e delle gelosie che rendevano
tossico e difficoltoso il prosieguo della sua esperienza lì.
Ognuno di noi vuole essere il
padrone
della nostra città medievale ed
è geloso a morte dell’uguale.
Ritorno al bugigattolo del mio paese
dove siamo gelosi l’un dell’altro.
Mi vanno cercando.
Dei topi hanno schedato il mio nome,
i falchi sono scesi in picchiata.
(Paese mio, in Rocco Scotellaro. Profilo
biografico e antologico, a cura di Nicola Terracciano, p. 25)
Le gelosie e le cattiverie, però, non lo allontanarono dalle sue
origini; anzi, gli diedero nuova linfa vitale per poter proseguire e costruire
un saldo impegno civile e politico nel paese degli ultimi: il Mezzogiorno.
LA MIA BELLA PATRIA
Io sono un filo d’erba
un filo d’erba che trema.
E la mia Patria è dove l’erba
trema.
Un alito può trapiantare
il mio seme lontano.
(R.
Scotellaro, È fatto giorno, Mondadori,
1954)
A soli ventitré anni, Rocco vinse le elezioni amministrative del
1946, diventando sindaco di Tricarico, per il partito socialista di unità
proletaria.
Egli – da sempre dalla parte degli ultimi – si impegnò per i
quattro anni del suo mandato a far rinascere il Sud, pur nella sua profonda
arretratezza economica, sociale e politica.
Carlo Levi – che lo conobbe proprio nel 1946 – ricorda così quegli
anni:
«Gli anni ’46-’47 segnano la sua maturazione, in senso umano e in
senso poetico. È finita la guerra, il Mezzogiorno pare si sia destato da un
lunghissimo sonno, è cominciato il moto contadino, che è l’affermazione
dell’esistenza di un popolo intero. In questo popolo risvegliato per la prima
volta, per la prima volta vivente e protagonista della propria storia, Rocco
vive la propria giovinezza; ed è il fiore di quella terra solitaria, perché il
suo sviluppo di uomo è tutt’uno con il nuovo germogliare di quel popolo
contadino. Con la naturale, spontanea scelta da cui nascono i capi e gli eroi,
egli è riconosciuto dai suoi: il piccolo ragazzo dai capelli rossi, dal viso
imberbe di bambino, è il primo sindaco di Tricarico, per volontà dei
contadini».
Rocco Scotellaro partecipa come socialista, come compagno, come
sindaco, con sacrifici e rischi, al risveglio del mondo contadino, ai primi
scioperi, alle prime lotte che, seppur nel loro piccolo, hanno dato un prezioso
contributo alla rinascita e al rinnovamento della nostra Italia. Fu un uomo
che, pur vivendo lui stesso in ristrettezze, donava tutto ciò che poteva agli altri,
considerando i contadini del suo paese suoi stessi pari e fratelli.
È un pastore oggi quel mio amico, ha fatto la guerra, adulto,
cadente e sgangherato, ma egli è sempre senza macchia; se lo guarda la donna
più bella del mondo non si copre la bocca vuota dei denti con le mani, ma
l’apre e ride, più bello di tutti lui, cresciuto nel sole e nella pioggia.
(R. Scotellaro, L’uva puttanella, Laterza, 2000, p.17)
Tuttavia, questa liberazione nell’azione si interruppe bruscamente nel 1950, quando venne arrestato
per una falsa accusa di concussione, truffa e associazione a delinquere.
Fu questo il più insidioso e subdolo strumento che i suoi avversari
politici gli inflissero.
Quaranta furono i giorni che Scotellaro passò nel carcere di
Matera, abbandonato dalle istituzioni e da coloro i quali – ingenuamente –
credeva fossero suoi compagni.
Pur nella delusione e nel disincanto, trascorse i giorni in
costante riflessione. Una riflessione profonda che lo portò a rivalutare tutti
i passi compiuti fino ad allora, comprendendo, infine, che si era trattato
soltanto di una mera e mesta illusione.
Fu proprio in quegli anni
che Scotellaro cominciò a scrivere una delle sue opere maggiori – L’uva puttanella. Si tratta di un romanzo autobiografico in cui l’autore si
racconta, non tanto seguendo l’ordine degli eventi, quanto piuttosto il flusso
dei propri pensieri e delle proprie emozioni. Quanto più le emozioni si
intensificano, tanto più il ritmo della prosa diventa calzante, come in questo
passo:
Chiuso in una stanza, e un mondo chiuso, mi è grato riandare con
la memoria a quell’altro mondo, serrato nel dolore e negli usi, negato alla
Storia e allo Stato, eternamente paziente; a quella mia terra senza conforto e
dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua
immobile civiltà, su un suolo arido, alla presenza della morte.
(R. Scotellaro, L’uva puttanella, Laterza, 2000, pp.73-74)
Il carcere si doveva riempire
del materiale umano, prescelto dalla Giustizia, secondo la norma che vige anche
nelle confraternite: il più fesso porta la croce.
Caddero tutte le parole
maiuscole, in cui avevo creduto, o che, rimaste fredde, in molti, noi giovani,
eravamo accorsi a riempire di calore e di amore. Fino a quando il solo in mezzo
a 170 persone e poiché uscirò presto non c’è parola maiuscola che valga.
[…] Battuti dalla legge dei
forti, avessero avuto almeno una religione dei deboli.
(Ivi, p.93)
La prigionia fu una parentesi
esistenziale cruciale per Rocco Scotellaro.
Successivamente alla sua
scarcerazione – grazie all’intervento decisivo di Carlo Levi – abbandonò
definitivamente la politica e si dedicò esclusivamente allo studio, alla
ricerca e alla sperimentazione. Ciò lo portò a studiare economia a Portici,
all’Osservatorio di Economia Agraria diretto da Manlio Rossi-Doria. In questo
modo trascorse gli ultimi anni della sua vita, e non per una scelta egoistica e
individualizzata, ma perché aveva visto nello studio, nell’inchiesta e nel
racconto, gli strumenti per una lotta futura che portasse le problematiche
meridionali al centro dell’interesse dell’opinione pubblica nazionale e
internazionale.
Rocco Scotellaro scrisse per
un’autentica urgenza intima di vita e di azione. Descrisse la gioia profonda
della fratellanza e della protezione contadina, descrisse i meccanismi che
regolavano il mondo contadino, attraverso racconti di frammenti autobiografici
e attraverso inchieste condotte sul campo. Continuò ad interfacciarsi con i
contadini del Meridione, fu sempre animato dalla curiosità di conoscere, di
penetrare nel profondo delle cose, di toccare con mano la precarietà sociale ed
economica che contraddistingueva quei territori.
Noi lettori di oggi, soprattutto
se originari del Meridione, possiamo intravedere nelle parole di Scotellaro la
stessa urgenza di cambiare le cose e, allo stesso tempo, la stessa profonda
consapevolezza che certi costumi e meccanismi sono purtroppo eterni.
Riconosco nelle parole di Rocco la
stessa frammentazione interiore di molti miei coetanei, eternamente divisi a
metà: tra la consapevolezza di dover andar via per poter conseguire i propri
obiettivi e la frustrazione di non poterlo fare a casa propria.
Cambierà mai tutto ciò? Riusciremo
mai ad invertire la rotta e ad annullare il divario che – da sempre – ci separa
dal Nord? O non si tratta solo di questo?
Anna Rita Ambrosone
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